Le omelie scarne e incisive di padre Bevilacqua

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Il 6 maggio 1965 il card. Giulio Bevilacqua, padre della Pace e parroco di Sant’Antonio, raggiungeva in cielo il suo amatissimo Cristo. Una morte celebrata nella fede concludeva con assoluta coerenza una vita di straordinaria densità, nella quale pensiero e azione si erano esemplarmerte fusi. Laureato in Scienze sociali a Lovanio; prete oratoriano; due medaglie di bronzo al valor militare; due libri («La luce nelle tenebre», del 1921, e «L’uomo che conosce il soffrire», del 1934); la strenua lotta contro il fascismo, iniziata nel 1922 in appoggio al brescianissimo vescovo Giacinto Gaggia; la collaborazione alle riviste Fides e Humanitas (da lui fondata nel gennaio 1946 insieme agli amici Michele Federico Sciacca, Mario Bendiscioli e Mario Marcazzan) l’amore alla Liturgia (che lo porterà al Concilio come perito e come uno dei principali artefici della riforma); lo straordinario ministero della parola, che aveva scarna, appassionata, quanto mai incisiva… Una vita spesa generosamente per il bene della Chiesa e in difesa della dignità dell’uomo libero, coronata, alla fine, dal cardinalato conferitogli da Papa Paolo VI (il suo «don Batista»). Il quale, nel ’61, cardinale di Milano, gli aveva rivolto, in occasione dell’ottantesimo compleanno, un caloroso indirizzo augurale che terminava con le indimenticabili parole: «Sì, caro Padre, abbiamo capito: Cristo solo, Cristo vivo» (Humanitas). I due aggettivi usati dal futuro Paolo VI c’invitano a precisare meglio il ben noto «cristocentrismo» di Bevilacqua. Perché «Cristo solo»? Perché soltanto sul volto del Cristo risplende pienamente il vero volto di Dio, così che niente e nessuno ci deve distogliere dalla contemplazione di questo volto, glorioso e sofferente. Le devozioni ai santi e alle immagini o sono convergenti al Cristo oppure sono apocrife e come tali da respingere, da superare. Perché il «Cristo vivo»? Perché il vero Cristo non è quello anemico e spento di certo cristianesimo devoto, non è il Cristo congelato nei frigo (la metafora è sua) delle sagrestie, assente dalle piazze, dalle città, diffidente e prudente di prudenza umana, che spegne gli slanci creativi e volge indietro gli occhi dei giovani, che si lamenta della nequizia dei tempi e invita a starsene tranquilli, al di fuori delle mischie… Il Cristo vero, per Bevilacqua, è il Vivente dei Vangeli e di Paolo; che si fa presente e parla nelle scuole, nei parlamenti, nelle fabbriche, che inquieta i soddisfatti e si mette a discutere con i farisei del nostro tempo, col fariseo che c’è in ciascuno di noi; il Cristo che è vicino all’ateo inquieto e onesto e lo aiuta a salire l’ultimo gradino che lo separa, dalla fede nel vero Dio; il Cristo di Dostoevskij, di Teilhard de Chardin, dell’Ecclesiam suam di Paolo VI, e del Concilio; che tiene viva, nella storia l’utopia profetica della pace nella giustizia… Di questo Cristo Bevilacqua ha parlato molto, con quel suo fervore che rendeva incandescenti i concetti, che coinvolgeva tutti senza plagiare nessuno… Chi non ricorda, avendone avuto il dono, le sue lezioni nel salone della «Pace» ora a lui dedicato, le sue omelie scarne e così incisive, i suoi «quaresimali minimi» che lasciavano sempre una traccia che seminavano dubbi fecondi. Ha parlato ai giovani studenti, ai professionisti, ai preti, ai lontani, per i quali aveva tanta evidente simpatia; ha parlato a tutti, dissipando equivoci e stimolando alla vera fede. Amava veramente, lealmente, ardentemente, la Chiesa che gli aveva dato Cristo. Alla Chiesa bresciana – forse non soltanto a quella – ha lasciato in eredità un pungolo che continua a provocarla salutarmente.
 

Giornale di Brescia, 5.5.2005.