Le origini e la fondazione del pensiero filosofico

«La filosofia si impara come tutto il resto» (H. Bergson)

«Per la filosofia il piccolo popolo greco sta di fronte ai grandi imperi d’Oriente come un uomo tra fanciulli giganti» (J. Maritain)

«Il nome della Grecia colpisce diritto il cuore degli uomini colti d’Europa» (G.W.F. Hegel)

«Ci è più facile sottovalutare l’originalità dei greci, che esagerarla» (J. Burnet)

LEZIONI INTRODUTTIVE

L’oggetto della filosofia

Amore della sapienza: filìa e sophìa.

Amore: ricerca appassionata, senza passionalità, ma con passione.

Sapienza: in latino da sàpere, l’atto del res intime gustare, l’aver gusto, il conoscere e giudicar bene; abbraccia due significati, distinti ma essenziali al filosofare:

  1. a) scienza: conoscenza di verità dimostrate con procedimenti razionali e cercate per se stesse;
  2. b) saggezza: conoscenza che disciplina la volontà e tensione etica che ci porta a vivere il vero, a testimoniare la verità raggiunta nella concretezza dell’esistere.

Per Seneca la filosofia è «studium virtutis», tirocinio di vita secondo ragione.

Gli strumenti della filosofia sono l’esperienza e la ragione, l’esercizio rigoroso dei poteri intuitivi e logici, poiché la filosofia è «cognitio sola rationis lumine comparata» (Tommaso d’Aquino).

La filosofia è il tentativo di oltrepassare l’esperienza immediata per cogliere qualcosa di più e di più profondo.

Le scienze matematiche, naturali, storiche sono scienze secundum quid; la filosofia è la scienza simpliciter.

Quelle hanno per oggetto ognuna un certo tipo o classe di fenomeni; la filosofia, «anche se muove da cose o operazioni che si incontrano nella concreta esperienza, non vuole presentarle semplicemente come dati di fatto: vuole far percepire il loro senso più profondo» (Vittorio Mathieu).

L’oggetto a cui mira la filosofia si trova, dunque, al di là dell’esperienza immediata e il filosofo non può indicarlo che indirettamente, attraverso il suo stesso discorso.

Oggetto della filosofia è, materialiter, il reale in ogni sua dimensione; l’oggetto formale della filosofia è la ricerca del significato profondo, delle cause ultime e delle ragioni fondamentali dell’essere, della vita, dell’esistenza.

Oggetto formale sta a significare «punto di vista specifico, proprio».

La conoscenza filosofica è sempre metempirica: è il tentativo di oltrepassare l’esperienza immediata per cogliere qualcosa di più profondo.

La filosofia è sempre Weltanschauung, visione del mondo.

Le ragioni indicate dalle scienze non sono mai ragioni ultime, ma sempre cause seconde. Le scienze non risolveranno mai i problemi sotto tutti gli aspetti.

«Senza la filosofia il sapere degenererebbe, per ignoranza dei propri limiti qualitativi» (V. Mathieu).

La funzione critica della filosofia è necessaria alla stessa verità della scienza. La filosofia ha lo scopo di impostare e risolvere con le sole forze della ragione il problema della vita.

La filosofia come ricerca della verità

La filosofia, atto di vita, scaturisce dalla vita e rifluisce nella vita. «Non d’arroganza, ma d’umiltade è vocabolo» (Dante, Convito, III, II/2).

L’uomo è l’unico animale che si chiede «perché l’essere e non il nulla?» e che si fa problema a se stesso («factus sum mihi magna quaestio», Agostino). Platone nel Teeteto ricorda che «l’uomo è l’unico animale che ha lo stupore di esistere»; Aristotele ha scritto nella Metafisica che «gli uomini furono mossi a filosofare, allora come ora, dalla meraviglia».

La filosofia nasce dall’esperienza della vita e, come tale, è esigenza spontanea della coscienza dell’uomo. La vita non risolve alcun problema, ma li pone tutti e tutti affiorano alla nostra coscienza; la filosofia fa della vita umana, nella multiformità dei suoi aspetti, il problema di cui cerca la soluzione.

Filosofare significa dunque affrontare il problema della vita, cercare di essa lo scopo fondamentale, il significato.

La filosofia è «vitae meditatio» (Spinoza), riflessione sulla vita e sui massimi problemi che affiorano alla coscienza umana.

Quando un evento naturale o un fatto storico, un’intensa esperienza di gioia o di dolore, il mistero della nascita e della morte, l’insoddisfazione di noi stessi, una scelta impegnativa o un senso di colpa ci rendono pensosi e noi ci chiediamo il perché, allora l’esigenza filosofica si fa pressante in noi.

Comincia quell’interrogazione della realtà che è compito proprio della filosofa.

Che cos’è la realtà in cui viviamo?

Di quella realtà che valore ha quella parte che diciamo natura, e che ora ci sorride benigna o ci rapisce col fascino delle sue inesauribili meraviglie ed ora ci minaccia ostile e talvolta ci atterrisce nemica? E quale significato ha quell’altro aspetto della realtà che è la storia? La storia non ha anch’essa i suoi uragani spietati e travolgenti?

Verso quali traguardi si muove il cammino umano?

Che cos’è l’uomo, questo enigma vivente, capace di ascendere tutte le vette e di precipitare per tutte le chine? La vita dell’uomo è una meteora che si accende e ricade nella notte del nulla, senza lasciare di sé alcuna traccia o, invece, ha una ragione di essere ed un valore che supera il tempo e la sua durata nel mondo?

E la morte è l’epilogo definitivo di un dramma piccolo o grande che sia o è la crisi che segna il passaggio ad una forma diversa di esistenza? Non sarà forse la morte a rivelare il vero significato della vita umana?

C’è, infine, un principio supremo, Dio, da cui dipende la realtà in cui viviamo nelle sue molteplici forme e quella dell’universo? E in che modo è da concepire il rapporto tra l’uomo e Dio? È possibile una rivelazione? Fede, religione e ragione sono opposte, estranee, distinte, convergenti, identiche?

Appare chiara, per poco che si rifletta, la complessità di siffatti problemi, il cui raggio si estende dalla natura a Dio, e la complessità è tale da non consentire una soluzione che abbia l’immediatezza dell’oggi piove o del 2+3=5. E nondimeno l’uomo deve scegliere, deve dare una risposta.

Ogni uomo dà una risposta effettiva ai massimi problemi dell’esistenza secondo il modo di vivere: in ogni momento egli infatti decide di operare secondo certe scelte piuttosto che secondo altre.

In questo senso si espressero Johann Gottlieb Fichte («La filosofia che uno ha dipende da che uomo è» – Prima introduzione alla dottrina della scienza) e Friedrich Nietzsche («Un po’ alla volta sono arrivato a farmi un’idea di ciò che è la grande filosofia: null’altro che la professione di fede del suo autore, quasi le sue memorie che egli scrive involontariamente. Così pure il fine morale (o immorale) costituisce il vero nocciolo vitale di ogni filosofia, dal quale si è sviluppata la pianta tutta intiera» – Al di là del bene e del male).

La risposta dell’uomo ai problemi della vita è quasi sempre inadeguata, spesso superficiale, frammentaria, unilaterale, soggetta a tutte le oscillazioni e contraddizioni che provocherà in essa il cimento della vita.

Di qui la necessità della riflessione filosofica.

La filosofia parte dalla coscienza comune, ma non può restarvi, non può limitarsi a trascriverne le grossolane contraddizioni, le illusioni o le primitive ingenuità, il facile scetticismo.

La filosofia nasce dal vigile ritorno della coscienza su se stessa, per insopprimibili esigenze dello spirito; nasce come logico sviluppo, critico approfondimento e legittima trasvalutazione del pensiero già operante nell’immediatezza della coscienza comune e della vita, suo primo e insostituibile punto di partenza. L’esigenza filosofica, implicita, immanente in ogni forma di pensiero e di vita, è richiesta di giustificazione e di integrazione, richiesta di orientamento, richiesta di una emendatio intellectus et vitae. Vita e pensiero non sono opposti, ma la vita sollecita il pensiero e il pensiero illumina la vita di consapevolezza.

I problemi su cui medita la filosofia sono quelli che più esaltano la dignità dell’umano pensiero e da cui dipende la nostra vita.

Sono problemi che riguardano ogni uomo in quanto tale, problemi universali della vita e del pensiero.

Le idee che riguardano direttamente o indirettamente la nostra vita e il nostro destino sono dotate di grande potenza diffusiva, «hanno mani e piedi» (Georg Hegel), permeano di sé la coscienza ed ogni sfera della cultura, scendono sul terreno politico e sociale e diventano prologo, ispirazione ed epilogo delle grandi epoche della storia. La filosofia si trasfonde nel comune patrimonio di idee, fa sentire la sua efficacia nell’azione dei singoli e dei popoli.

Chi vuol comprendere il mondo in cui vive deve dunque rifarsi alla filosofia, che è insieme coscienza del passato, preludio del futuro, pensiero dell’eterno. La filosofia è, più di ogni altra forma di cultura, «per tutti», nel senso che tutti gli uomini possono e debbono avere un vivo interesse per quei problemi in cui si esalta la dignità dell’umano pensiero e da cui dipende la nostra vita, in quanto esseri ragionevoli; ma non è di tutti, perché l’esigenza di tutti diviene, inevitabilmente, l’arduo compito di pochi.

Il filosofo è un «funzionario dell’umanità», secondo la bella definizione di Husserl.

I problemi universalmente sentiti dall’umanità sono affrontati e avviati a soluzione dalla filosofia a beneficio dell’umanità. Di qui l’alta missione della filosofia nella società. «Per tutti – come ha ben detto Martin Heidegger – non significa per ogni uomo in quanto primo venuto. Per tutti significa: per ogni uomo in quanto uomo, per ciascuno preso in se stesso nella misura in cui nel suo essere egli diviene significativo a se stesso».

Perché la filosofia?

Perché la filosofia? Quali argomentazioni possono oggi giustificare una sua funzione feconda e insostituibile nella formazione dell’uomo?

Per Aristotele «gli uomini furono sempre mossi a filosofare dalla meraviglia» e Tommaso nel suo commento alla Metafisica di Aristotele (I, 3) notò con finezza che «il motivo per cui il filosofo è vicino al poeta è che ambedue hanno a che fare con ciò che desta stupore». Tuttavia qualcosa è cambiato nel nostro modo di interrogare e di interrogarci. Se nel mondo greco classico, agli inizi del pensiero occidentale, lo stupore richiamava un senso ampio, gioioso ed insieme solenne della realtà, l’avvertimento di qualcosa che ci sopravanza e ci esalta, oggi prevale lo stupore come inquietudine. Per questo Armando Rigobello insiste in una puntuale, penetrante esegesi di un’acuta osservazione di Fritz Waismann: «Un filosofo è un uomo che percepisce, per così dire, dei crepacci nascosti nella struttura dei nostri concetti, laddove altri vedono solo il levigato sentiero dei luoghi comuni davanti a loro»[1]. L’espressione «percepire i crepacci nascosti» suscita incisivamente l’immagine di un vedere disincantato, di una sofferta consapevolezza, di una criticità unita ad intensità esistenziale nell’esercizio di quella vita filosofica di cui Socrate è stato e rimane l’espressione emblematica.

La nostra civiltà ha tanti pregi, ma comporta una paurosa possibilità negativa, a cui non possiamo cedere senza perdere qualcosa di essenziale della nostra umanità: l’anestesia delle coscienze, il render levigato ogni sentiero, il fare dell’avventura umana un percorso già tracciato, garantito dalla culla alla tomba, senza imprevisti, senza novità reale, équipes di psicologi, di psicanalisti, di pianificatori, compagnie di assicurazione ed ordinamenti giuridici assistenzialistici confluiscono nel perseguire un controllo dell’esistenza, scopo che talvolta sembra essere il pensiero dominante, il fine principale della vita: una vita spesa quindi a sottrarsi ai rischi dell’esistenza. Ma ecco che arriva il filosofo, questo scomodo uomo che pensa e scopre i «crepacci». La filosofia come interrogazione è dubbio sui «sentieri levigati» dell’opinione comune o delle sistemazioni concettuali chiuse, un dubbio mosso da una saggezza che è vittoriosa sulle suggestioni e virile lucidità. Tutto ciò richiede una forza interiore, un equilibrio, un distacco pur nella partecipazione, una libertà spirituale pur nella concretezza dell’impegno, caratteristiche tipiche di quella pienezza di umanità che può manifestarsi in ogni età della vita. Dubbio, interrogazione, ricerca. Sono tre parole che nella loro successione esprimono un susseguirsi di atteggiamenti: la decantazione di un contesto, la vittoria su una illusione, la scoperta di un crepaccio; poi l’interrogare, l’apertura di un problema, infine il tentativo di risolverlo. Sottoposti ad una rinnovata ironia socratica e richiamati ad una revisione fondamentale della nostra sicurezza, ci ritroviamo così sospinti nel rischio dell’esistenza.

Ogni tipo di conoscenza ha una corrispondente disciplina. Ad ogni disciplina il suo oggetto; ma qual è l’oggetto della filosofia? Vittorio Mathieu ha giustamente osservato che la «filosofia non ha un oggetto che si possa indicare con il dito». Per questo sembra inclassificabile, come inclassificabile è il suo mirabile iniziatore, Socrate. E non di meno la ricerca filosofica è individuata in modo netto e autonomo dai suoi propri problemi, dalle tre famose domande che Immanuel Kant pone al termine della Critica della ragion pura: «Che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è concesso sperare?». La prima e la seconda domanda riguardano la condizione umana in due suoi atteggiamenti fondamentali, quelli dell’uomo che misura le sue possibilità di conoscere il vero e che dà consistenza alla sua vita nella conquista della libertà morale. Ma la terza domanda, su cui non ci si sofferma abbastanza, era per Kant ed è per tutti gli uomini che riflettono non meno decisiva. La terza domanda si pone lungo l’ardua frontiera tra filosofia e religione, tra conoscenza e moralità da un lato e salvezza dall’altro. Il verbo usato da Kant, dürfen significa posso nel senso di mi è concesso, mi è permesso. Unito a hoffen, sperare, aprire un orizzonte, evidenzia un’altra nota di intensa esistenzialità: entro i limiti di una conoscenza interrotta, nell’impegno di una libertà che esige un difficile esercizio, che cosa è lecito sperare? La speranza è come un ponte lanciato oltre il confine del conoscere e l’efficacia dell’azione. Lanciato verso dove? Verso una ulteriorità che oltrepassa il conoscere rigoroso e la disciplina del dovere per situarsi nel vivo di una esperienza religiosa. La risposta, quando è positiva, riguarda la fede. Ma la domanda: «Che cosa mi è concesso sperare?» rimane autenticamente filosofica. In quella richiesta sulla possibilità della speranza si manifesta una tensione esistenziale portata al limite, emerge quasi un’invocazione. L’invocazione non è ancora preghiera, ma è un atteggiamento rivelativo di una struttura esistenzialmente aperta, rivolta ad un trascendimento che si inscrive quale elemento costitutivo della condizione umana.

Per poter rispondere positivamente, nelle circostanze di pensiero e di vita attuali, alle tre domande kantiane, occorre affrontare con coraggio una situazione disorientante, logorata dal dubbio, priva di forti richiami ideali. Occorre vincere la stanchezza ancor prima della disperazione. Per tener aperto l’interrogativo riportandoci ad una condizione originaria, bisogna avere la statura del lottatore di cui parla Søren Kierkegaard nell’introduzione a Timore e tremore, ma anche la forza d’animo cui Edmund Husserl faceva riferimento nella conferenza tenuta all’università di Vienna nel 1935 di fronte alla tragedia che si profilava per la sua patria tedesca e per l’Europa: «Il più grave pericolo che minaccia l’Europa è la stanchezza. Se ci abbandonassimo ad essa, non potremmo opporci alla fiamma distruttrice dell’incredulità». Per questo si deve parlare di «lotta per il significato», espressione programmatica che delinea un compito, che focalizza la funzione umanizzante della filosofia.

I pregiudizi contro la filosofia

Due sono i pregiudizi più diffusi verso la filosofia:

  1. a) è estranea alla vita e lontana dai suoi interessi e problemi;
  2. b) è qualcosa di astruso, con cui si acchiappano le nuvole, un gioco di parole difficili e prive di senso.

In realtà la filosofia tocca le radici più profonde della nostra vita spirituale, si riferisce a ciò che nella nostra esistenza di uomini vi è di più terribilmente serio. I problemi filosofici non sono invenzioni dei filosofi e pascolo di cervelli oziosi, ma scaturiscono dalla coscienza umana, che riflette la vita, il sapere, l’attività dell’uomo.

La filosofia come ogni altra scienza richiede metodo rigoroso e terminologia esatta. Rimproverare alla filosofia l’uso ordinato di termini consacrati dal suo sviluppo storico è stoltezza non meno frivola di quella di chi rimproverasse al medico, al chimico, al matematico l’uso di termini attinenti alla medicina, alla chimica, alla matematica.

Tutti si sentono autorizzati a porre bocca nei problemi della filosofia[2], perché questi rispondono a un’esigenza universale e hanno sempre un ricco interesse umano. Ma questi stessi problemi, che investono la vita e il destino di tutti, sono anche i più ardui e complessi ed esigono una concentrazione di energia intellettuale e spirituale di cui non tutti sono capaci o a cui non tutti sono disposti. Di qui le ingiustificate prevenzioni, assai spesso dettate dalla esorbitante esaltazione di altre forme di attività spirituali per le quali si ha maggiore disposizione: le arti, le matematiche, le scienze.

La filosofia è sapere essenziale dell’uomo essenziale.

Verso il termine di Anna Karenina Lev Tolstoj pone in bocca di Levine, che ha letto e meditato molto, queste parole: «Io non posso vivere senza sapere ciò che sono e per quale fine esista, e poiché non posso persuadermi di ciò, la vita mi è impossibile».

Filosofia e scienza

Le scienze apportano al filosofo sia dei fatti positivi sia delle teorie. I fatti positivi e le teorie sono ora dei dati sperimentali implicanti un sistema di simboli esplicativi e interpretativi (tali i fatti rilevati dalla meccanica ondulatoria), ora delle ampie ipotesi simboliche (tale la curvatura dello spazio nelle concezioni di Albert Einstein).

Nell’uno e nell’altro caso la conoscenza scientifica è ben lungi dal conseguire e dal mantenere nella spiegazione dei fenomeni una certezza assoluta e una perfetta immutabilità: a tal punto che il progresso scientifico è stato argutamente definito da uno scienziato «un cimitero di ipotesi».

È oggi luogo comune che la fisica di Galileo Galilei, che pure era una fisica geniale, non è più quella del tempo nostro. Il fatto stesso che vi siano teorie scientifiche – e non già da tempi remoti – che sono state abbandonate in quanto sostanzialmente errate e perciò insuscettibili di sviluppi e rettifiche, pone alla scienza il problema di sottoporre ad analisi critica i suoi principi, i suoi metodi, i suoi postulati.

E la scienza non può soddisfare questa esigenza che attingendo al piano che è proprio della filosofia: la concezione filosofica della scienza dicesi appunto epistemologia e l’epistemologia studia il valore conoscitivo, gnoseologico della scienza, la sua funzione nella storia e nell’economia delle attività spirituali dell’uomo. Questa branca della filosofia non è un ibridismo confusionario, non è per metà filosofia e per metà scienza, non asservisce la filosofia alla scienza o la scienza alla filosofia, ma è la riflessione filosofica su di un problema che sorge dal seno della ricerca scientifica, allorché lo stesso scienziato si chiede quali sono le ragioni e le giustificazioni ultime della sua indagine e dei metodi seguiti e se e in che limiti nella costruzione della scienza egli opera nel vuoto o su di una causa materiale (per dirla in linguaggio aristotelico), su di una natura di cui occorre pure conoscere e accertare la consistenza ontologica.

Ma a prescindere da qualsiasi altra considerazione non si può fare a meno di osservare che c’è tutta una serie di esigenze che la scienza non si propone neppure di soddisfare.

La scienza, quella matematica e l’insieme delle scienze naturali, con tutto l’affascinante splendore delle sue meraviglie, non esaurisce il reale, non esaurisce lo scibile, non appaga interamente il bisogno umano di conoscenza, non scopre alcun aspetto del destino dell’uomo, non indica alcun dovere.

La vita dello spirito, le profondità della coscienza, i rapporti tra gli uomini, l’uso dei frutti dello stesso progresso scientifico, il mondo della storia, l’arte, l’estetica, la politica, l’aspirazione all’Assoluto, sono realtà irriducibili ai fenomeni che le scienze studiano e a formule matematiche.

Non si risolve il problema della vita con l’estrazione di una radice quadrata e il problema della vita nei suoi universali interrogativi è proprio l’oggetto della riflessione filosofica. Di qui l’essenziale umanità della filosofia e della sua storia, la quale non è né la storia della verità, né la storia dell’errore, bensì la storia della ricerca e dell’umana conquista della verità, storia ricca di luci e di ombre, fonte perenne di insegnamento e di vita, testimonianza altissima della solidarietà degli sforzi con cui gli spiriti più pensosi e profondi hanno cercato di mettere in chiaro – in un dialogo serrato e ancor oggi aperto – la condizione e il destino dell’uomo, dell’uomo persona singola e dell’uomo parte e protagonista del cammino della storia.

Gli ambiti della filosofia

La filosofia si divide in filosofia della pratica e filosofia teoretica.

a) Filosofia della pratica – studia l’azione e il fare nelle sue molteplici modalità e nei suoi fini. «Finis speculativae cognitionis est veritas, sed practicae est opus. Quia etsi practici intendant cognoscere veritatem, non considerant causam veritatis secundum se et propter se, sed ordinando ad fines operationis» (Tommaso d’Aquino).

La filosofia della pratica si articola nella Morale, nella Filosofia politica, nella Pedagogia, nella Filosofia del diritto.

b) Filosofia teoretica – ipsum scire propter se quaerens. Risponde al bisogno di verità indipendentemente da ogni nostra aspirazione e dall’uso che decidiamo di fare dell’idea, delle dottrine, delle visioni della vita che siamo riusciti a conoscere e a conquistare.

La filosofia teoretica si articola in:

– Logica: da logos, ragione e discorso, scienza delle leggi della ragione e arte di applicarle correttamente sia alla ricerca e alla dimostrazione della verità, sia nel discorso.

– Gnoseologia: indaga le possibilità e i limiti delle nostre capacità conoscitive; da gnosis, conoscenza.

– Epistemologia: discorso sulla epistème o conoscenza scientifica; tende a valutare i metodi d’indagine della scienza (o logica della ricerca), i modelli concettuali, i limiti.

– Metafisica: il termine indica quella conoscenza trans-fisica, che va oltre ciò che è sensibile, muovendo alla ricerca del significato profondo del reale, visto nelle sue articolazioni e strutture universali, nelle sue cause supreme.

È la ricerca del fondamento primo dell’essere. Ha una struttura piramidale, di cui la base è l’ontologia e il supremo vertice la teologia naturale.

  1. Ontologia: studia l’essere nelle sue strutture universalissime (divenire, atto-potenza, esistenza ed essenza) e nei suoi nessi profondi, collegando e distinguendo forme e gradi diversi della realtà accessibile all’uomo.
  2. Filosofia della natura o cosmologia: dottrina dell’universo corporeo indagato nei principi più universali di tempo e spazio, determinismo e finalità, continuo e discreto.
  3. Antropologia metafisica o psicologia razionale: dottrina della natura e del destino dell’uomo. Dottrina della vita dello spirito delineata attraverso il dinamismo delle attività più alte e la fondazione dei valori.
  4. Teologia naturale: il discorso su Dio, il principio di ogni realtà, condotto solo rationis lumine.
  5. Istoriologia: indaga il senso del cammino dell’uomo nella storia dal punto di vista metafisico, gnoseologico e morale.
  6. Filosofia del linguaggio in quanto creazione ed espressione dell’umanità; il linguaggio è strettamente congiunto alle strutture costitutive dell’uomo e ai suoi valori.
  7. Filosofia dell’arte o estetica. «L’uomo si commuove profondamente contemplando gli spettacoli della natura e le creazioni dell’arte e questa sua commozione ha caratteri particolari e inconfondibili con quelli di qualsiasi altro stato d’animo. Un mondo privo di bellezza non sarebbe più un mondo umano. Ora, che cos’è la bellezza, sia che sorrida nella natura sia che ci commuova nell’arte? Ecco il problema estetico, la cui soluzione implica la relazione tra il bello e l’essere, il bello e il vero, il bello e il bene, quindi presuppone che siano stati già risolti i problemi relativi all’essere, al vero, al bene morale»[3]

LA SCUOLA IONICA

La culla del pensiero occidentale: la Ionia

1. È possibile datare le più tempestive manifestazioni del pensiero filosofico?

L’esigenza di porre e di risolvere quale sia il problema del reale e il problema della vita è connaturale alla mente umana, onde la filosofia può dirsi nata con lo stesso pensiero dell’uomo. Il primo sguardo d’intelligente stupore dell’uomo sul mondo segnò la nascita della filosofia che si confonde con le origini del genere umano. Ma occorre distinguere la filosofia come esigenza e la filosofia come scienza.

La prima nasce con l’uomo. La filosofia come scienza nasce in Grecia.

Infatti i Greci furono i primi ad avviare a soluzione con le sole forze della ragione i problemi riguardanti la concezione del mondo e della vita. Essi per primi realizzarono l’atteggiamento della ricerca teoretica, che non si pone altro scopo se non la ricerca della verità in quanto tale e l’arricchimento spirituale che ne deriva.

Il tentativo del pensiero di emanciparsi da miti, cosmogonie e teogonie per porre e risolvere con argomenti razionali i problemi propri della filosofia si manifestò in modo sempre più energico e deciso nelle colonie ioniche dell’Asia Minore a partire dal VI secolo.

Non si vuole sminuire con ciò l’importanza e la funzione del mito nel preparare il sorgere della filosofia stessa. La caratteristica della filosofia greca è quella di essere «libera speculazione sulla essenza delle cose» (Karl Praechter), un pensiero improntato allo spirito della libera ricerca. Ciò non toglie che, in realtà, «nelle cosmologie primitive dei naturalisti greci, gli elementi mitici e quelli razionali erano fusi in inscindibile unità» (Werner Jaeger).

2. Il passaggio dalla preistoria alla storia della filosofia

Prima di giungere ad uno sviluppo autonomo, l’esigenza filosofica vive confusa con altre molteplici istanze: si esprime nei versi dei poeti (Omero, Esiodo, ecc.), nei miti delle antiche credenze religiose, nelle complicate teogonie e cosmogonie, si confonde con i primi tentativi di ricerca scientifica.

Miti, credenze misteriche, teogonie e cosmogonie sono soluzioni fantastiche di problemi razionali (il principio del reale, unità e molteplicità, il destino dell’uomo, la vita morale).

Fare emergere i problemi razionali da tradizioni, credenze, miti; foggiare più raffinati metodi di indagine; sottoporsi alla disciplina del discorso logico e della giustificazione razionale: tutto ciò segna il passaggio lento e graduale dalla preistoria alla storia della filosofia o se si vuole dalla filosofia come esigenza – spesso soffocata da elementi prodotti da un’aberrante fantasia – alla filosofia come scienza.

La filosofia è come un fiume che scaturisce alla luce dopo un lungo corso sotterraneo. Non nasce come Minerva, tutta armata, dal cervello di Giove. Quella corrente sotterranea venne alla luce nella Ionia, sulla costa dell’Asia Minore, ponte, pilone, punto d’incontro tra Oriente e Occidente.

Gli albori della filosofia appartengono alla Ionia come i poemi di Omero.

«I Greci, pertanto, si ergono incontestabilmente come i primi pensatori e scienziati d’Europa. Per primi, essi perseguirono la conoscenza per se stessa, con autentico spirito scientifico e senza pregiudizi» (Frederick Copleston, Storia della filosofia, Paideia, Brescia 1967, I, p. 34).

3. Ci fu influsso dell’Oriente sulla speculazione greca?

«Si travisa l’interpretazione dei singoli pensatori, se si parte a priori dall’opinione che essi abbiano preso in prestito ogni loro teoria dai predecessori. Con questa tesi noi saremmo costretti ad ammettere l’esistenza, nei primi tempi dell’umanità, di qualche colosso o “superuomo” dal quale sarebbe derivata tutta la speculazione successiva» (F. Copleston, op.cit., I, p. 26).

L’influsso del vicino Oriente fu vasto, ma indiretto, costituito di accenni e suggestioni molteplici, che i greci avrebbero elaborato secondo il loro genio peculiare e un diverso spirito: lo spirito della ricerca teoretica.

«Indagare se le idee filosofiche di questo o quel popolo orientale possano essere state trasmesse ai greci, significa perdere tempo, se non si sia prima accertato che il popolo in questione avesse realmente un pensiero filosofico» (John Burnet).

Orbene gli egiziani non ebbero sistemi filosofici da trasmettere e la filosofia greca non è stata importata dall’India o dalla Cina, così come Platone non trasse la sua saggezza da Mosé.

S’è detto che originariamente filosofia e scienza convissero in un’unità indistinta. L’esigenza filosofica si accompagna ai primi tentativi della ricerca scientifica. Alcuni da ciò traggono la conclusione: la filosofia e la scienza greca derivano dall’Egitto e da Babilonia, avendo i greci appreso dall’uno la geometria e dall’altro l’astronomia.

«Ora, che la matematica greca sia stata influenzata dall’Egitto e l’astronomia greca da Babilonia, è molto probabile: ma questo non è affatto lo stesso che dire che tali scienze derivino dall’Egitto o da Babilonia. Tralasciando altre considerazioni, basterà notare che le matematiche egiziane consistevano in rozzi metodi empirici, già predisposti, volti esclusivamente ad ottenere fini pratici. Così la geometria egiziana consisteva principalmente in metodi pratici per delimitare nuovamente i campi, dopo le inondazioni del Nilo. La geometria scientifica non fu elaborata dagli Egizi, ma dai Greci. Analogamente l’astronomia babilonese praticata in vista della divinazione, era soprattutto astrologica: fu presso i Greci che divenne ricerca scientifica» (F. Copleston, op.cit., I, p. 34).

Il problema dell’arché

La scuola ionica si sviluppa tra la fine del VI secolo e l’inizio del V.

Il problema: la ricerca del primo principio o arché.

L’esito: la riduzione di tutta la ricerca filosofica a cosmologia.

La coscienza al principio del suo svolgimento è prigioniera del senso che ci dà solo realtà materiali. Pure la posizione del problema dell’arché delle cose attesta l’esigenza di risalire oltre i dati immediati dei sensi, in direzione del loro fondamento. I primi filosofi son detti «naturalisti» perché la natura costituisce l’oggetto precipuo del loro interesse; ma la loro ricerca è filosofica perché non tende a conoscere in primo luogo le cause prossime dei fenomeni naturali, ma la causa profonda, ultima e unica che ha dato origine al reale, che agli occhi dei filosofi milesi si riassumeva nella natura.

Negli ionici scienza e filosofia non sono ancora distinte e tuttavia appaiono in essi nozioni e attività realmente speculative. «Infatti quei saggi videro che attraverso ogni cambiamento ed ogni trasformazione dev’esserci qualcosa che permane. Perché? Perché il cambiamento è trasformazione di qualcosa in qualcos’altro: vi dev’essere qualche cosa che sia fondamentalmente primario, persistente e che renda possibile il processo della trasformazione. Il cambiamento non può essere soltanto un conflitto di elementi opposti»: vi è qualcosa di originario che precede ogni opposizione e la genera (F. Copleston, op.cit., I, p. 39).

La filosofia o cosmologia ionica è lo sforzo di definire che cosa sia questo elemento primario dell’universo, questo Urstoff (termine tedesco che esprime la nozione dell’elemento originario o substrato dell’universo).

Non importa la risposta data, ma il fatto che i filosofi di Mileto cercavano di spiegare la molteplicità e il movimento mediante l’unità: il problema del rapporto tra i molti e l’Uno era già posto, per quanto inadeguato sia il concetto dell’Uno che tutto genera e da cui tutto ha inizio, che permane nel mutamento, che spiega e regola l’universo, preservandolo dal caos e dall’anarchia.

Ilozoismo: concezione che vede la materia come vivente.

Monismo: concezione per cui una sola sostanza genera tutte le cose, permane nella variazione, unifica la molteplicità.

Talete

Fiorì intorno al 585, morì forse nel 545.

«L’importanza di questo primo pensatore è basata sul fatto che egli ha posto la questione della causa ultima del mondo, non sulla risposta che egli ha dato a questo problema o sulle ragioni – quali ch’esse siano state – che lo hanno indotto a sostenerla… Egli merita il posto di primo filosofo greco per il fatto d’aver concepito per primo l’Unità nella Diversità (pur non avendo chiarito questa idea sul piano logico) e per essersi sforzato di render conto dell’evidente diversità del molteplice, mantenendo fissa l’idea dell’unità» (F. Copleston, op.cit., I, pp. 44-45).

Per Talete l’acqua, da cui sembra emergere la terra, che è presente nell’umidità necessaria ai processi vitali, viene identificata col principio di tutte le cose.

Spirito religioso, avrebbe affermato che «tutto è pieno di Dei». La realtà della natura ci apre la fonte della conoscenza del divino; il divino è dappertutto nel mondo e lo possiamo toccare con mano.

Secondo Aristotele, per Talete tutto è pieno di misteriose forze vive; la differenza tra natura viva e materia inorganica non esiste. Il reale è unità, in quanto vivente.

Anassimandro

Nato a Mileto, egli fu probabilmente più giovane di Talete, perché Teofrasto lo presenta come «seguace» di Talete.

Probabilmente compie una razionalizzazione del mito del caos. L’arché è l’indefinito (ápeiron) illimitato, «eterno e fuori del tempo», che «circonda tutti i mondi» (Umgreifende – Karl Jaspers), infinito di grandezza qualitativamente indeterminata.

Anassimandro avvertì che la causa primaria e fondamentale non poteva identificarsi con alcun tipo particolare di materia; ma concepì l’arché come «causa naturale». Il movimento generatore dei mondi è la rotazione, il vortice. La terra è come un tronco di colonna al centro di un vortice, senza sostegno. Anassimandro proietta la ruota nel cosmo: modella sul movimento della ruota il suo sistema del mondo (Karl Joel), probabilmente perché la ruota dovette dare l’impressione della forza centrifuga.

Concezione ciclica della realtà: per ogni mondo è segnato il tempo della nascita, la durata, la morte. Un ciclo eterno di distruzione e di produzione esprime un ordine giusto e necessario, una legge cosmica in una serie di eterni, puntuali ricominciamenti. Per Anassimandro il male sta nella finitezza ontologica dell’esistente.

Fr. 1: «Tutti gli esseri devono, secondo l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia». L’ingiustizia consiste nella loro stessa generazione, nel distacco dal seno dell’essere infinito, e nella lotta successiva alla scissione dei contrari, in cui ognuno tenta di sopraffare l’altro. Esistere come distinto è colpa ontologica. Il tempo, giudice inesorabile, fa pagare agli esseri il fio, cioè li dissolve.

Un’osservazione acuta sull’origine dell’uomo: «mentre gli altri animali trovano rapidamente il cibo da soli, soltanto l’uomo ha bisogno di un lungo periodo di nutrizione materna, onde, se fosse stato fin dalle origini com’è ora, non avrebbe potuto sopravvivere» (F. Copleston, op.cit., I, pp. 47-48).

Anassimandro vedeva in ciò una ragione per affermare l’origine non umana, ma da altri animali, dell’uomo. Non spiega però come l’uomo sia sopravvissuto nello stadio di transizione (difficoltà perenne degli evoluzionisti). Precursore di importanti concetti in filosofia, Anassimandro fu anche un grande scienziato, iniziatore della geografia scientifica.

Anassimene

Il terzo filosofo della scuola di Mileto fu Anassimene; Teofrasto dice di lui che fu «seguace» di Anassimandro.

Per Anassimene l’arché sta all’universo in un rapporto identico a quello che intercorre tra l’anima e il corpo.

Fr. 2: «Come la nostra anima, un soffio impalpabile che pur ci regge, così lo spirito e l’aria circondano e vivificano l’universo».

L’anima-arché in questa concezione primitiva è come «un continuum materiale, carico di forza vitale, mescolato a tutte le cose, delimitato e rinchiuso in varie creature viventi. Le due concezioni di anima e materia prima sono ora fuse in una» (Francis Macdonald Cornford).

Quando le proprietà della vita verranno distinte da quelle della materia inanimata, i filosofi dovranno fare la loro scelta tra la realtà ultima come intelligenza o come materia.

«Questo inserimento dell’anima è inteso evidentemente non solo in senso fisiologico, ma anche in senso spirituale: vuol conferire alla divinità dell’ápeiron di Anassimandro la forza del pensiero indispensabile per governare l’universo» (Werner Jaeger)[4].

Aspetto importante della dottrina di Anassimene è lo sforzo di fondere la qualità (la molteplicità degli esseri) nella quantità (mediante processi di rarefazione e condensazione).

Eraclito

Fiorì a Efeso verso il 504 – 501. Aristocratico, scontroso e malinconico, Eraclito critica l’ignoranza presuntuosa e la polimazia. Attacca Omero, Archiloco, Pitagora e Senofane.

«Nella filosofia di Anassimandro i contrari sono in lotta tra loro e quindi costretti a pagare il fio della loro sopraffazione: Anassimandro considera, dunque, la lotta dei contrari come alcunché di disordinato, che non dovrebbe esserci e che turba la purezza dell’uno. Eraclito, invece, respinge questo punto di vista. Per lui il conflitto dei contrari, lungi dall’essere una macchia nei riguardi dell’unità dell’uno, è essenziale all’essere dell’uno. L’uno esiste solamente nella tensione degli opposti» (F. Copleston, op.cit., I, p. 65).

«La realtà è una ed è nello stesso tempo molteplice, e ciò non per semplice accidente, ma per essenza. È essenziale all’Uno e alla sua esistenza che essa sia Uno e Molti nello stesso tempo; che egli sia identità nella differenza» (F. Copleston, op.cit., I, p. 66).

Fr. 51: «Gli uomini non sanno che la discordia concorda con se stessa. È un accordo di tensioni opposte, come quello dell’arco e della lira».

L’intuizione più alta di Eraclito è quella dell’unità nella diversità e del mutamento come condizione di vita e di sviluppo dell’universo. Ogni cosa materiale è un’unità nella diversità e questo vale anche per ogni organismo vivente: Dio stesso è unità nella distinzione. Eraclito diede grande rilievo al divenire, e sostenne che il mutamento, il divenire sono essenziali per l’esistenza dell’uno. Parmenide affermò l’essere con l’esclusione del divenire, affermando che mutamento e movimento sono illusori.

«I due filosofi pertanto ci mostrano due tendenze tipiche: la tendenza ad esaltare il divenire e la tendenza ad esaltare l’essere. Platone tenta una sintesi delle due posizioni e di ciò che è vero in ciascuna. Egli adotta la distinzione di Parmenide tra pensiero e sensazione e dichiara che gli oggetti sensibili non sono oggetti di vera conoscenza, perché non posseggono la necessaria stabilità, essendo soggetti al divenire di Eraclito. Gli oggetti della vera conoscenza sono stabili ed eterni come l’essere di Parmenide. Essi però sono forme ideali esistenti di per sé e immateriali, ordinate gerarchicamente e culminanti nella forma del Bene» (F. Copleston, op.cit., I, p. 82).

Eraclito, Parmenide e Platone saranno criticati e inverati nella poderosa sintesi di Aristotele.

Dure sono le critiche di Aristotele ad Eraclito:

a) l’estremo mobilismo implica la negazione del principio di identità e di non-contraddizione.

«È impossibile che qualcuno mai concepisca che una cosa esista e non esista. Eraclito la pensa diversamente, secondo alcuni, ma non è necessario che si pensi tutto quello che si dice» (Metaphisica, IV, 5, 1010 a 13)

b) l’estremo mobilismo implica il monismo, e il monismo comporta l’annullarsi di ogni differenza e, dunque, conduce al nullismo.

«Se si dice che tutti gli esseri sono uno non si fa che ritornare all’opinione di Eraclito. Ormai tutto si confonde, il bene e il male sono identici, l’uomo e il cavallo sono tutt’uno. Ma allora non si afferma veramente più che gli esseri sono uno, ma che sono nulla» (Physica, I, 2, 185 b 19).

La concezione del Logos

Fr. 78 B: «La natura umana non ha intuizioni, le ha soltanto la natura divina».

Fr. 79 B: «Un uomo è puerile per Dio, come un fanciullo per l’uomo».

Fr. 41 B: «Esiste un’unica sapienza: quella di comprendere il Logos che governa tutto e in tutto».

Fr. 45: «I confini dell’anima tu non li potrai mai trovare, per quanto tu vada innanzi tanto profonda è la sua relazione al Logos» («La rappresentazione della profondità è sorta proprio per designare la caratteristica dell’anima, che è quella di avere una qualità particolare che non riguarda né lo spirito né l’estensione […] Con essa Eraclito vuol significare che l’anima si estende all’infinito, proprio al contrario di ciò che è fisico» – B. Snell, in Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, vol. I, Vita e Pensiero, Milano 19875, p. 81).

Fr. 27: «Dopo la morte attendono gli uomini cose che essi non sperano e neppure immaginano».

Fr. 32 B: «Uno solo, l’unico saggio, non vuole eppure vuole essere chiamato Zeus» («In nessun altro punto il modo in cui Eraclito intende il suo rapporto con la religione del popolo appare più manifesto di qui. Egli distingue tra usanze e idee che gli sembrano indegne e vergognose e che egli bolla senza risparmio, da una parte, e, dall’altra, l’idea religiosa del Dio supremo, il cui nome Zeus gli è sacro perchè suscita concetti puri e sublimi» – Werner Jaeger, op.cit., p. 193).

Mentre nei milesi al ‘principio’ primo divino non era attribuibile l’intelligenza, risulta invece abbastanza chiaramente che Eraclito gliela attribuisce (cfr. frammenti 41 – 78).

Dio è la legge, la ragione universale immanente al tutto: lega le cose in unità e ne determina il costante mutamento. La ragione dell’uomo è un momento di questa Ragione universale, o una contrazione e un incanalamento di essa. «Per Dio tutte le cose sono belle, buone e giuste, ma per gli uomini alcune sono ingiuste ed altre giuste» (Fr. 102).

Mettendo in rilievo la legge universale e la partecipazione dell’uomo alla Ragione, Eraclito aiutò a preparare il cammino agli ideali universalistici dello stoicismo. Una legge, promulgata da uno solo, è ancora legge? La volontà dell’unico Dio, nella sua perfezione unica, è invece la legge più salutare per tutti.

Fr. 33 B: «È legge anche obbedire alla volontà di uno solo».

È meglio obbedire a Dio che a qualsiasi maggioranza.

Per Eraclito il Logos è anche presente in ogni singolo io umano, in ogni anima in quanto partecipe della verità, e in questo senso i critici hanno avuto ragione nel vedere in Eraclito un precursore del Verbo del Vangelo di Giovanni, che pare che sia stato scritto a Efeso, la città di Eraclito.

L’uomo è in una posizione intermedia e intermediaria fra Dio e il mondo.

Fr. 82: «La più bella delle scimmie è turpe appena la si mette a confronto con la stirpe degli uomini», ma «il più sapiente degli uomini a confronto di Dio (Eraclito scrive Theos al singolare) apparirà come una scimmia, per sapienza e per bellezza e per ogni altra cosa» (Fr. 83).

Difficoltà e dovere della ricerca

Eraclito è veramente il filosofo che esalta la ricerca e ne descrive le difficoltà e le leggi. Egli disdegna «gli asini che si accontentano di un po’ di paglia e non apprezzano l’oro». La natura «ama nascondersi» (Fr. 123); dunque essa impone la ricerca.

«Se non speri, non troverai l’insperato, introvabile essendo questo inaccessibile» (Fr. 18). La ricerca della verità esige fatica: «i cercatori d’oro scavano molta terra, ma trovano poco oro».

Per Eraclito due sono i pericoli che ostacolano il cammino dell’uomo verso la consapevolezza, l’ignoranza degli «asini», che si accontentano di un po’ di paglia e disprezzano l’oro, e la polimazia o multiscienza dei falsi sapienti. Costoro esibiscono una erudizione minuziosa, varia e superflua, che sovraccarica la mente, ma non la rende capace di cogliere il senso riposto delle cose. Alla saggezza apparente di chi sa molte cose, ma non ne possiede l’intelligenza autentica, si oppone la ricerca filosofica, che è, sì, diretta a oggetti molteplici, ma tende costantemente a raccoglierli in unità, al di là delle apparenze immediate. È questa, la prima vigorosa critica dell’enciclopedismo, malanno e tentazione che vedremo rinascere sotto forme diverse e talora insospettate.

Vi è differenza fra la conoscenza incerta e mutevole dei sensi e la superiore certezza della ragione. I sensi sono cattivi servitori quando non ci fanno cogliere il divenire delle cose «secondo contesa e necessità».

«A tutti è comune la facoltà di pensare» (Fr. B. 113) e «a tutti è possibile conoscere se stessi ed essere saggi» (Fr. B. 116).

Ma la comune partecipazione al Logos non significa affatto immediatezza di possesso da parte di tutti: proprio per questo a ciascuno è imposto il dovere della «veglia» contro la tentazione del «sonno». La veglia è la ricerca vigile che non si ferma all’apparenza, ma cerca ciò che deve valere per tutti: la verità, e di essa si fa forte come una città ben governata si fa forte della legge. Il sonno è la rinuncia alla ricerca, lo starsene alle opinioni correnti, alle impressioni soggettive non comparate e non giudicate dalla ragione. L’alternativa fra sonno e veglia stabilisce il valore decisivo che la ricerca ha per il destino dell’uomo. Da essa dipende non solo l’orientamento del pensiero (nòesis), ma anche la saggezza di vita (phrònesis). Martin Heidegger parlerà di autentico e inautentico.

La condizione primaria per essere «svegli» è che l’uomo guardi in se stesso: «io ho indagato in me stesso» (Fr. 101), dice Eraclito.

Giudizio di Sertillanges sulla filosofia di Eraclito

Eraclito naturalista parla un linguaggio diverso da quello di Eraclito filosofo del Logos e uomo religioso. Vi sono come due ordini di pensiero inconciliati e inconciliabili tra loro.

Secondo Antonin-Dalmace Sertillanges[5], in Eraclito vi sono considerazioni molto arricchenti, benché pericolose e miste di errore; in particolare riprovevole è l’abuso dell’assoluto, di cui il relativo è presentato come l’illusorio succedaneo. Di alto valore è la ricerca dell’unità, la distinzione tra i fenomeni passeggeri e la legge permanente, tra la percezione sensibile e la ragione facoltà dell’universale, l’affermazione che quaggiù nulla è stabile e che tutto il visibile è in perpetua trasformazione.

La fine della scuola di Mileto

Con la caduta di Mileto nel 494 per la scuola ionica sopravvenne la fine.

Aristagora, ex tiranno di Mileto, persuade gli ioni d’Asia a ribellarsi alla Persia e ottiene aiuti da Atene. A Efeso i persiani sconfiggono la squadra navale greca e iniziano la repressione. Mileto fu presa e distrutta dopo due anni di resistenza. Fu l’inizio della prima guerra persiana.

LE SCUOLE FILOSOFICHE NELLA MAGNA GRECIA

Al primo nascere della filosofia nella Ionia fa riscontro una fioritura di scuole filosofiche all’altro estremo della zona di diffusione della civiltà greca: l’Italia meridionale. «Scuola italica», secondo la denominazione di Aristotele, è quella fondata da Pitagora. A Elea, nella provincia di Salerno, fiorisce la scuola eleatica, il cui fondatore è Parmenide.

Pitagora

Pitagora di Samo fondò a Crotone, nel sud dell’Italia, una comunità religiosa nella seconda metà del VI secolo a.C. Anche Pitagora era ionico e i primi membri della Scuola parlavano dialetto ionico. Pitagora muore nel 496, un secolo prima di Socrate, morto nel 399. Le origine della scuola pitagorica, come la vita del suo fondatore, sono oscure, anche per l’obbligo per i seguaci di non divulgare gli insegnamenti della scuola.

A lui si deve la metafisica del numero, la concezione della struttura razionale e matematica dell’universo, la celebrazione della scienza come strumento di purificazione morale e l’approfondimento di alcuni temi religiosi secondo le suggestioni dell’orfismo (celebre la storia della metempsicosi).

Pitagora non confuse l’arché con una causa materiale, lo confuse con la scienza del numero. Fondò l’ideale della conoscenza scientifica, essendo la scienza riduzione dei fenomeni alla legge matematica del loro comportamento (teoria che sarà poi di Platone e di Galilei). Ma nel fervore dell’intuizione identificò ogni altro aspetto della realtà (fisico, biologico, psicologico, etico) con quello matematico, che di un fenomeno ci dà l’aspetto numerico e quantitativo, nulla di più. Il limite dell’intuizione pitagorica è questo: le cose sono fatte da numeri e non semplicemente regolate da relazioni numeriche.

Al periodo di Pitagora risale la dottrina pitagorica dell’anima.

L’anima è principio di vita e di ordine del corpo. Suoi caratteri sono: la preesistenza, l’immortalità, la trasmigrazione, l’universale parentela tra i viventi.

La teoria pitagorica dell’anima è ambigua. Da un lato concepisce l’anima come «armonia del corpo», a somiglianza dell’armonia dei suoni emessi da uno strumento musicale; dall’altro, l’anima è definita «principio di vita e di movimento dell’essere vivente».

Nel primo caso l’anima, osserva Platone nel Fedone (p. 140 – 159), dev’essere pensata mortale: infatti, venuto meno lo strumento, anche l’armonia viene a cessare; l’altra concezione invece presuppone l’immortalità.

Una grave conseguenza, sfuggita anche a Platone, è che se si accetta la metempsicosi, la coscienza dell’identità personale non è più strettamente congiunta all’anima.

La scuola pitagorica congiunge l’ispirazione orfica e la ricerca scientifica. La filosofia è «sforzo verso la saggezza». I precetti della scuola sono raccolti in una specie di catechismo.

Qualche esempio.

«Non chiudere gli occhi stanchi al sonno, prima di ripensare tre volte a ciascuna azione della giornata: in che ho mancato? che cosa ho fatto di buono? che cosa ho omesso di fare?».

«Dà a chi lo chiede solo il consiglio migliore, perché cosa sacra è un consiglio».

«Tra gli amici si deve serbare fedeltà e avere tutto in comune».

La scuola pitagorica, aperta anche alle donne, così come appare a Metaponto e a Crotone, è insieme una scuola di ricerca scientifica, una fazione politica d’indirizzo aristocratico e un convento di contemplativi. Al di là del carattere composito, amalgama di elementi diversi della dottrina e al di là delle mistiche nebbie in cui rimane avvolta la concezione di Dio, alla scuola pitagorica si deve l’affermazione più energica possibile, e tutta ionica, per così dire, della saggezza come misura, della virtù come armonia, della funzione formativa e catartica della musica, nonché d’intuizioni precorritrici in campo astronomico. Infine, malgrado l’impasto mitico, il concetto orfico di anima, ripreso dai pitagorici, la sua connessione a una divina norma di giustizia e la distinzione fondamentale dell’uomo meramente sensibile dal suo vero io, che è sua missione perfezionare (il cammino della vita è sforzo verso la saggezza), sono gradini essenziali nello sviluppo della consapevolezza dell’uomo e del suo processo formativo.

La scuola s’irrigidì nel culto del maestro e nello sforzo di una fedeltà letterale e passiva, espressa dalla formula ipse dixit, assunta poi a designare il fenomeno di mediocrità intellettuale e di viltà morale di chi accetta acriticamente, senza motivata convinzione, una dottrina come se si trattasse di una parola d’ordine.

La scoperta dei numeri irrazionali segnò la crisi della scuola pitagorica.

Il numero per i pitagorici è solo razionale, tale cioè che si possa esprimere sotto forma di frazione. Senonché essi scoprirono la incommensurabilità del lato del quadrato con la rispettiva diagonale e la scoperta, tenuta segreta, sembrò incrinare la dottrina che tutto è numero.

Per i greci i numeri che noi chiamiamo irrazionali non erano considerati numeri.

L’influenza su Platone

  1. Preminente valore dell’anima come essenza reale e realtà spirituale e non ombra di un corpo come in Omero: l’uomo è la sua anima e non il corpo che la racchiude.
  2. La condotta e il destino dell’uomo sono problemi che esigono una fondazione metafisica e un prolungamento religioso.
  3. Struttura matematica del reale e, in un certo senso, della stessa vita morale (peras – ápeiron), come ad esempio la giustizia.

Parmenide

Nato verso la fine del 500 ad Elea, nel 450, ad Atene, a 65 anni, avrebbe ben potuto discutere con il giovane Socrate. Con lui la cosmologia tende a diventare ontologia.

I due testi più celebri:

Fr. 6 – «Ti tengo lontano da quella via su cui i mortali che nulla sanno, gente a due teste, vanno errando. Infatti è l’incertezza che nei loro petti dirige la mente errante: costoro sono trascinati sordi e ciechi a un tempo, sbalorditi: gente senza giudizio».

Fr. 7 – «Questo non potrà mai imporsi: che il non essere sia! … Una sola via resta al pensiero: che l’essere è».

Il rigore logico di Parmenide gli valse l’appellativo di «venerando e terribile» da parte di Platone (Teeteto, 183).

Parmenide: perché «venerando»

  1. Ha intuito il principio di non contraddizione. «L’essere è – il non essere non è».
  2. Ha scoperto che pensare vuol dire sempre pensare che qualcosa è e che l’essere è l’intuizione prima e fondamentale. Il pensare implica l’esistenza del pensato.

«È la stessa cosa pensare e pensare che è: perché senza l’essere non troverai il pensare» (Fr. 8, verso 34). Non c’è pensiero che non esprima l’essere. In fondo ad ogni nostro concetto c’è il concetto di essere.

  1. Critica l’idea del nulla e formula per la prima volta in tutto il suo rigore il principio di causalità: ex nihilo nihil fit.

Secondo il mito teogonico l’essere deriva da un non essere primitivo, da un Urgrund a partire dal quale l’essere si genera e si realizza progressivamente.

L’argomentazione di Parmenide è precisa.

Se una volta vi fosse stato il niente assoluto – idea che di per sé è priva di senso, inintelligibile – niente vi sarebbe eternamente, perché il niente non può produrre l’essere. Affermare il contrario è veramente una distruzione della ragione.

Ciò non è pensabile.

Alle stesse conclusioni perverrà nel ventesimo secolo il pensatore più antiparmenideo dell’Occidente, Henri Bergson, nelle celebri pagine dell’Evoluzione creatrice (1907). Per ottenere il niente assoluto bisogna sopprimere col pensiero non solo l’universo e tutto ciò che contiene – in particolare l’uomo che pensa l’universo – ma anche l’essere che non è l’universo, l’essere di Dio.

Ma il pensiero non può pensare sopprimendo la realtà del suo stesso pensare. Il nulla è dunque impensabile.

Maurice Blondel nel 1893 nell’Azione aveva anch’egli dimostrato che il niente non è mai pensato né voluto.

  1. Parmenide ha introdotto la distinzione fondamentale tra ragione e sensibilità, tra verità (alétheia – disvelamento) e apparenza (doxa).

Nella filosofia successiva da Platone in poi la distinzione diverrà di fondamentale importanza.

Parmenide: perché «terribile»?

(A tal punto che, se non si commette nei confronti di questo padre della filosofia il «parricidio», la speculazione filosofica si blocca).

  1. Il principio di non contraddizione avrà da Aristotele la più celebre formulazione e difesa e costituirà il caposaldo della logica di tutti i tempi. Sarà Aristotele e non Parmenide a coglierne le valenze logiche e gnoseologiche. Parmenide dà del primo e fondamentale principio logico un’interpretazione immobilistica e tautologica.
  2. Poiché una e onnicomprensiva è l’idea dell’essere, Parmenide credette che l’essere fosse unico e univoco. Da una premessa vera Parmenide trasse una conclusione assurda.

L’essere di Parmenide, malgrado l’astratta teorizzazione che l’eleate ne fa, è pur sempre l’essere del cosmo; ma di «un cosmo senza cosmo», perché svuotato di tutta la sua ricchezza.

Parmenide lo «impietra con l’occhio della Gorgone», dice con bella immagine Guido Calogero (cfr. Giovanni Reale, op.cit., I, p. 131, nota 23). Dalla tesi, per sé irrefutabile, secondo cui l’essere non può non essere, ex nihilo nihil fit, Parmenide tira arbitrariamente la conclusione dommatica che l’essere necessariamente esistente, preso assolutamente, unico e increato, è il mondo stesso nella sua totalità. E poiché l’essere preso assolutamente è increato e non può essere annichilito, il mondo, una volta identificato con l’essere assoluto, non ha bisogno di nessun altro essere per esistere.

Ma se il mondo è l’essere eterno e necessario senza restrizione e senza distinzione, come conciliare questo suo carattere col fatto del divenire e della evoluzione?

Se il mondo è ciò che esiste per sé, assolutamente e necessariamente, se è l’essere sussistente per sé, esso non comporta né genesi né distruzione; inizio e fine sono assolutamente impossibili così come è impossibile il divenire.

Ciò che comincia ad essere, vuol dire che prima non era e dunque non è l’essere assolutamente esistente – osserva Parmenide – né si può dire che l’universo sia prodotto da sé (autogenesi, autocreazione), perché ciò non si può né dire né pensare, essendo una espressione priva di senso.

Se l’universo ha incominciato ad esistere, se è in continua genesi, non è l’essere in senso assoluto.

Di qui la conclusione di Parmenide: se l’universo è l’essere nella sua assolutezza, il divenire, lo svolgimento, la genesi, l’inizio, la molteplicità sono apparenza e apparenza ingannevole: non sono.

Quel divenire che Parmenide respingeva e voleva negare al mondo, per poterlo ritenere l’essere in senso assoluto, ormai si impone a noi in maniera ineluttabile. Poiché l’universo è in genesi, il presupposto fondamentale di Parmenide si dissolve.

Se è vero che l’essere assoluto non può essere in genesi, il risultato immediato di quel che noi conosciamo dell’universo è che esso non è l’essere assoluto.

Le difficoltà insormontabili del monismo panteista mettono a nudo anche quelle del monismo materialistico, strettamente imparentate tra loro.

Contemporaneamente a Parmenide, dall’altra sponda del Mediterraneo, in Palestina, i teologi ebrei hanno insegnato che il mondo non è l’essere assoluto, che il mondo è in continua genesi, è nel divenire. Il mondo esiste, ma non è Dio. L’esistenza dell’universo è un fatto, ma è effetto di un inconscio feticismo cosmologico dire che esso è l’essere stesso. L’essere assoluto, l’assoluto, non è il mondo, ma è il creatore del mondo. Uno solo è l’essere assoluto, increato, imperituro, ma non è il mondo. Colui che può dire di sé «il mio nome è Io Sono» non è il mondo. Per i monoteisti ebrei e cristiani, prima, come poi per quelli mussulmani, ciò che Parmenide dice dell’essere riguarda Dio e non il mondo. Non è legittimo applicare al mondo il termine essere preso in senso assoluto.

  1. Parmenide rifiuta l’esperienza.

L’essere è il cosmo, ma non è il cosmo dell’esperienza. L’essere è l’universo materiale nella sua eternità e totalità, ma questo lo può comprendere solo la ragione. Alcuni filosofi svalutano, deprezzano l’esistenza dell’universo: l’universo non sarebbe che un’apparenza, un sogno, una rappresentazione.

La molteplicità degli esseri non sarebbe che una illusione. La diversità degli esseri, la spazialità e la temporalità, il divenire, tutto è pura apparenza. In realtà, non esiste che l’Uno, e la saggezza consiste nel ritrovare, valicando le apparenze, l’unità originale del tutto.

Il problema posto dall’esistenza dell’universo non è così soppresso?

Le metafisiche che insegnano questo urtano contro un certo numero di difficoltà. Esse rifiutano l’esperienza, esse ci dicono che l’esperienza, la quale ci propone una molteplicità di esseri, un divenire, delle nascite e delle morti, è falsa e illusoria; invece sarebbe verità l’insegnamento metafisico che professa la sola esistenza dell’Uno.

Queste metafisiche ci dicono che l’esperienza è illusoria, che l’esperienza ha torto, ma non ci dicono come accade che questa illusione dell’esistenza molteplice, diversa, temporale e spaziale, si impone a noi. Esse non ci spiegano il fatto di questa illusione tenace che si chiama esperienza. Esse ci insegnano il contrario dell’esperienza, ma non ci danno le ragioni per le quali dovremmo credere più alla dottrina iniziatrice che ci propongono che all’esperienza.

Perché, in fin dei conti, dal momento che c’è opposizione tra l’insegnamento di queste metafisiche e l’insegnamento dell’esperienza, per rinunciare a ciò che ci dice l’esperienza e per professare ciò che ci insegnano le metafisiche dell’Uno, le quali sono in contraddizione con l’esperienza, occorrerebbero delle ragioni. Ma non ci sono date.

  1. Il monismo professato da Parmenide fa di lui contemporaneamente e sotto aspetti diversi il padre dell’idealismo e del materialismo.

È materialista in quanto sostiene che l’universo fisico è il solo essere increato, eterno, imperituro, l’essere senza distinzione e senza restrizione. È idealista in quanto cancella il mondo dell’esperienza, del molteplice, del divenire, della genesi e della morte, annegando ogni problema nell’affermazione dommatica che l’Uno è ed è tutto.

Parmenide è idealista, a causa del suo punto di partenza: l’esperienza sensibile respinta come ingannatrice, l’io-penso preso come unico punto di partenza, l’esistenza del mondo esterno incerta. Sembra di ascoltare il linguaggio di Cartesio!

Il materialismo ha ricevuto in eredità da Parmenide la tesi secondo cui l’essere assoluto e unico è il mondo fisico.

L’idealismo ha ricevuto in eredità il corollario: il mondo è uno e il mondo dell’esperienza non può essere che illusorio.

Parmenide e Aristotele

  1. Aristotele critica Parmenide in nome dell’esperienza oggettiva che le filosofie monistiche respingono: il fatto dell’esistenza della molteplicità degli esseri, del divenire, della nascita, della morte è reale, di una realtà incontrovertibile. La filosofia nasce riflettendo sull’esperienza, mai rifiutando l’esperienza.
  2. Parmenide parla dell’essere senza distinguere la pluralità dei sensi del termine essere e usa questo termine in senso assoluto, aplòs o univoco, mentre ha un significato analogico e multisignificante, pollakòs.

III. Aristotele non accetta né il metodo, né le conclusioni di Parmenide. Tuttavia ha limitato il divenire al mondo sublunare, professando nei confronti del cosmo lo stesso insegnamento di Parmenide: esso non è generato, è eterno, imperituro, sfugge al divenire; malgrado la grandiosa affermazione aristotelica di Dio atto puro, la sua concezione è ancora legata alla divinizzazione del mondo, a una sorta di feticismo cosmico.

IL PLURALISMO

– Eclettico: Empedocle di Agrigento (492 – 430).

– Corretto dall’affermata unicità della Mente: Anassagora di Clazomene in Asia Minore (499 – 423).

– Materialistico: Democrito di Abdera in Tracia (460 – 370), contemporaneo di Socrate e Platone.

Il pluralismo cerca la spiegazione del divenire e della molteplicità degli esseri nell’azione di una pluralità di elementi:

  1. a) qualitativamente (Empedocle, Anassagora)
  2. b) quantitativamente (Democrito).

L’eleatismo nega la molteplicità e il divenire degli esseri; se l’eleatismo, che è la forma più coerente di monismo, conduce a conseguenze così contrastanti con quello che l’esperienza irrefutabilmente attesta, è necessario battere un’altra strada, capovolgendo il presupposto monista.

Empedocle

Il pensiero di Empedocle, eclettico e sincretico, non sintetico, è una conciliazione mal fatta di dottrine dissenzienti. Per Empedocle l’essere è immobile, se considerato nella totalità delle sue manifestazioni; non è immobile, se considerato nelle sue parti in perenne trasformazione. Empedocle accetta la dottrina orfica e pitagorica della caduta originaria e della metempsicosi.

Aria, acqua, terra e fuoco sono le radici degli esseri, forze divine elementari. Diversi sono i corpi perché le loro proporzioni numeriche e quantitative variano indefinitamente. I quattro elementi assumono aspetti diversi come quando il pittore, avendo mescolato in diverse proporzioni i pochi colori fondamentali, dipinge figure diverse.

Lo sfero, paradiso perduto ed escatologia, l’immobile uniformità quadripartita, è l’armonia divina originaria e l’attuato dominio dell’amore.

Le forze cosmiche antagonistiche che muovono il cosmo sono amore (filìa) e odio (neikós).

Quattro le fasi del ciclo cosmico: quelle estreme ed esclusive dell’odio e dell’amore e quelle caratterizzate dal prevalere dell’uno o dell’altro. Sono divini i principi universali dell’esistenza naturale; sì che Empedocle può essere giudicato politeista a causa del suo pluralismo ontologico, monista a causa della sua concezione dello sfero, dualista a causa dell’antagonismo fra odio e amore.

In Empedocle si ha scelta e sovrapposizione di tesi di diversa origine senza troppo curarsi delle loro compossibilità.

Tensione fra Empedocle naturalista ed Empedocle pensatore religioso

I punti fondamentali del pensiero religioso di Empedocle sono:

– visione interamente orfica del destino dell’anima;

– certezza mistica dell’essenziale affinità tra l’anima e la divinità;

– coscienza di una colpa che grava sull’anima e l’allontana dalla sua origine divina: il bisogno del ritorno al paradiso perduto come nostalgia struggente e purificazione, ascesi;

– la misura del livello raggiunto da una civiltà è data dalla verace adorazione di Dio, dal rifiuto dei sacrifici cruenti.

L’aporia di fondo: impossibilità di far rientrare nei ristretti orizzonti della filosofia della natura la concezione di un’anima concepita come strutturalmente diversa dal corpo, di un’anima che deve mantenere in qualche modo la propria individualità, perché possa espiare la sua colpa d’origine e perché possa godere il premio finale, quando si sia purificata.

Ma per sciogliere questa aporia occorre guadagnare la dimensione dello spirituale e dell’immateriale. Per questo guadagno occorre la «seconda navigazione» di cui parla Platone.

Gnoseologia

L’invito a confidare nei sensi è inteso in opposizione a Parmenide che sospetta di essi. Ma Empedocle precisa che si deve «rimanere desti» per opera dell’intelletto, al quale pertanto spetta la parte di giudice. Johann Goethe: «Ai sensi devi confidarti. Essi ti fanno vedere niente di falso se la mente ti tiene desto».

C’è l’intuizione che la conoscenza è una certa similitudine tra colui che conosce e la cosa conosciuta, un appropriarsi del conosciuto da parte del soggetto conoscente. La spiegazione data è però ancora rozzamente materialistica. La diversità delle sensazioni dipende dalle diverse dimensioni dei pori: sì che alcuni ricevono certi efflussi che emanano dai corpi, altri pori altri efflussi. Conosciamo ogni elemento con l’elemento corrispondente che è in noi.

Anassagora

Ionico di nascita (nacque a Clazomene nell’Asia Minore nel 498 a. C.), ateniese per formazione intellettuale, cosmopolita per convinzione. Pericle lo ebbe caro e si valse spesso dei suoi consigli; ma una volta il filosofo ebbe a dirgli: «Non bisogna trascurare la lampada, se si vuole che dia luce».

Anassagora si dedicò completamente all’interpretazione scientifica dei fenomeni naturali e, in particolare, dei fenomeni celesti. Avrebbe detto indicando il cielo: «Là è la mia patria».

Notevoli le sue osservazioni metereologiche. La sua ipotesi che il sole sia una pietra incandescente e la luna dotata di alture e di valli era estremamente rivoluzionaria per il suo tempo.

Accusato di empietà per le sue opinioni astronomiche, si ritirò esule a Lampsaco, dove morì nel 428 a. C. Fu un uomo straordinariamente dotto e amante del conoscere.

Scrisse un’opera in prosa dal titolo Della Natura di cui ci sono pervenuti alcuni frammenti particolarmente interessanti.

La panspermia

La dottrina di Anassagora degli elementi fondamentali qualitativamente diversi si allaccia direttamente all’osservazione medica di come il corpo possa mantenersi e svilupparsi con l’ingestione di determinate sostanze nutrienti.

Dal non-capello non può nascere un capello, né dalla non-carne la carne; invece capello e carne devono essere contenuti nel pane che mangiamo e così pure le ossa, i tendini, le vene, il seme.

Di qui la tesi della panspermia: tutte le cose constano di infinite particelle qualitativamente diverse e omeomerie. Ciò che differenzia un oggetto da un altro è la diversa quantità del loro rapporto. In ogni cosa esistono i semi di tutte le cose, ma in misura diversa.

Se tutto è già in tutto, nulla potrà venire da nulla. Un assoluto divenire e perire delle cose non esiste, esistono soltanto il miscuglio e la separazione delle sostanze che costituiscono l’avvicendarsi della natura. In origine tutte le cose erano insieme; la diversificazione fu originata dal movimento.

Ma qual è l’origine del movimento e come spiegare che il cosmo è ordinato?

Il principio materiale, di cui le cose sono fatte, non basta a spiegare le cose. Occorre ancora far conoscere l’agente che lo produce (causa efficiente o motrice) e lo scopo per il quale questo agente agisce (causa finale). L’origine del movimento è per Anassagora il Nous, l’Intelligenza divina.

La concezione dell’Intelligenza

Non ci sono soltanto sostanze, qualità, miscele e separazioni. L’uomo pensa tutte queste cose, ma il suo pensiero è già di per sé qualcosa di distinto e di diverso dalle cose che pensa. La realtà del movimento e dell’ordine dell’universo, l’attività stessa spirituale dell’uomo esigono a loro spiegazione una Mente.

L’arché è Dio, e Dio è Intelligenza. Con la sua concezione di Dio in quanto Intelligenza, Anassagora «orienta la filosofia greca verso una luce superiore» (Jacques Maritain).

Quali sono gli attributi del Nous?

È infinito; non gli manca nulla; è sovrano, autonomo; è l’essere puro e trascendente, «non misto», essere a sé, causa della natura distinta realmente dalla natura; è sapore che guida ogni cosa; spirito divino che dirige il moto dell’universo e lo origina; è separato per comandare.

Il giudizio di Aristotele

Anassagora, per il fatto che è stato portato a riconoscere, al di là degli elementi materiali del mondo, l’esistenza necessaria di un’Intelligenza separata, ordinatrice delle cose, è l’unico, secondo Aristotele, ad aver conservato la sobrietà in mezzo a tutti gli altri filosofi del suo tempo, ai quali il vino delle apparenze sensibili ha fatto girare la testa, e che «parlano a caso».

Aristotele però rimprovera ad Anassagora di ricorrere alla Mente solo quando si trova imbarazzato a dare una spiegazione naturalistica.

Secondo Werner Jaeger (op.cit., p. 251) è invece probabile che per Anassagora la garanzia per la razionalità del piano universale stesse certamente nello svolgimento meccanico, che nel Nous divino era prestabilito o anticipato in tutte le sue fasi.

Il limite della intuizione di Anassagora

Benché Anassagora avesse bisogno dello spirito quale causa movente, il Nous rimase per lui, pur non essendo misto, «la cosa più pura e sottile».

Secondo Cleto Carbonara (La filosofia greca. I presocratici, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1964, p. 86) «il pensiero del divino si affina, ma non riesce a sganciarsi dai suoi presupposti naturalistici».

L’atomismo democriteo

Meccanicistiche si dicono quelle teorie secondo cui tutte le trasformazioni che avvengono nella realtà sono dovute a uno spostamento di parti o particelle materiali le une rispetto alle altre; sicché anche i mutamenti qualitativi non sarebbero che una conseguenza di tali movimenti di aggregazione, disgregazione e spostamento di atomi.

Il meccanicismo estremo riduce il mondo corporeo a pura estensione diversificata dal movimento e le qualità ad apparenze soggettive.

Poiché non si può spiegare il moto se la realtà è concepita come tutta compatta, il vuoto è pensato come una realtà che penetra nel pieno.

Il vuoto è la ipostatizzazione del non essere.

Nel mobilismo eracliteo, a differenza del meccanicismo, tutto muta di continuo, ma nel mutamento ciò che vi è di essenziale rimane immutato (il Logos).

Aporia gnoseologica: sensismo assoluto o razionalismo matematizzante?

La conoscenza non è che un caso particolare di contatto tra atomi. Ad esempio, l’occhio vede perché è toccato dalle immagini delle cose, immagini formate da atomi più minuti che se ne staccano e vengono a colpirlo.

Obiezioni:

a) se si fa derivare l’intera conoscenza dalle sensazioni, è impossibile opporre in forma radicale senso e ragione e dichiarare «opinione» ciò che si prova mediante la sensazione e «verità» gli atomi e il vuoto che non si percepiscono con nessuno dei sensi.

b) Democrito non spiega perché certi atomi, toccandosi, diano luogo a qualcosa di così diverso da un contatto meccanico come una sensazione o un pensiero. Per Cicerone (De finibus, VI) tra i fatti più caratteristici della vita umana quali il sentire, il giudicare, il volere e i movimenti meccanici non c’è soltanto una differenza di grado, ma una differenza di natura. Non è assottigliando la materia che si può spiegare l’attività propria dello spirito.

L’assenza di finalità comporta il dominio di una causalità meccanica, necessaria e infrangibile.

Morale

I frammenti etici in alcune raccolte antiche portano il nome di Democrate, diverso quindi da quello del filosofo di Abdera.

In ogni caso vi è contraddizione tra un’etica del dovere e una metafisica materialistica che espunge l’idea stessa di finalità.

Se tutto è prodotto da una necessità meccanica, la libertà non esiste e la morale è impossibile.

Rilievi critici sul materialismo meccanicistico

1- Antonin-Dalmace Sertillanges: «Il materialismo è una dottrina che alle meraviglie visibili assegna spiegazioni imbecilli e alle meraviglie invisibili, quelle dello spirito, spiegazioni inesistenti».

2- Gli atomisti greci non sono assolutamente atei; essi pensano che gli dei non si occupino del mondo. Tuttavia l’atomismo antico fornisce uno schema di cosmologia atea. Ancora nel secolo XIX, quando si voleva proporre una cosmologia atea, fu all’atomismo greco che si fece ritorno.

3- Aristotele: introducono surrettiziamente il movimento degli atomi; lo danno per ovvio, ma non lo spiegano affatto: «pose il caso a padre degli esseri».

Se gli atomi sono paragonabili a lettere dell’alfabeto che differiscono solo per la forma, chi potrebbe mai da un indefinito numero di lettere trarre un’opera come la Divina Commedia o solo il più umile discorso che abbia un senso?

La pretesa di costruire dei corpi col movimento a-finalistico di corpi più piccoli non può essere presentata come una spiegazione della realtà.

L’atomismo fallisce perché non risponde alle questioni poste dall’esistenza stessa della materia e della sua organizzazione. Il mondo di Democrito giustifica prospettive che rendano la vita degna d’essere vissuta?

 Giudizio critico sulla filosofia presocratica

Per un giudizio critico equo sulla filosofia presocratica occorrono sensibilità storica e sufficiente penetrazione. Si deve considerare che il pensiero filosofico matura lentamente nella coscienza degli individui e dei popoli e che la potenza e l’originalità di quei pensatori acquistano rilievo dalla situazione culturale in cui essi elaborano le loro convinzioni e i loro tentativi.

Quali le più significative insufficienze della filosofia presocratica?

  1. L’identificazione dell’arché con una causa naturale di tipo materiale negli ionici. L’acqua, l’aria, l’apeiron àoriston, il fuoco non sono certo principi capaci di spiegare la realtà e di additare all’uomo i suoi compiti e il suo destino.
  2. L’identificazione pitagorica della metafisica o scienza della realtà in quanto tale con la matematica. Molti sono gli aspetti della realtà non riducibili a quello matematico.
  3. L’eraclitismo e l’eleatismo esasperano assurdamente la contrapposizione tra essere e divenire. Gli eraclitei sovrappongono motivi naturalistici a motivi spiritualistici, gli eleati concepiscono l’essere come aplòs e sboccano nel panteismo. Gli eraclitei travolgono l’essere in un flusso senza scopo e significato, gli eleati irrigidiscono l’essere nell’immobilità e negano la realtà del divenire.
  4. Il Nous di Anassagora è un’affermazione spiritualistica ancora brancolante. Il pluralismo di Empedocle è dominato da forze mistiche, da sentimenti umani proiettati nel cosmo.

L’atomismo disperde la realtà in un pulviscolo di atomi e nella cieca casualità della materia travolge l’uomo, non potendo giustificare prospettiva alcuna che renda la vita degna di essere vissuta.

Quali gli aspetti positivi?

– Nascita del metodo della ricerca filosofica.

– Contrapposizione metodologica di senso e ragione.

– Preludio della coscienza metafisica e teologica.

– Approfondimento dei supremi principi logici.

LA SOFISTICA

Il valore filosofico

La sofistica è l’espressione culturale e filosofica della crisi del mondo greco tra la metà del V secolo e la fine del IV. Nella sofistica bisogna distinguere almeno tre fondamentali tendenze: il relativismo scettico di Protagora e Gorgia («la grande sofistica»); l’individualismo, il superomismo e la teoria convenzionalistica dello Stato sostenuta con particolare virulenza da Crizia, Callicle e Trasimaco («la nuova sofistica»); infine, la dottrina della legge naturale come comando ed esigenza della ragione, professata, pur con forti zone d’ombra, da Prodico, Ippia di Elide, Antifonte, Alcidamante. Se quest’ultima corrente prelude, sia pure entro certi limiti, a qualche posizione socratica, la prima e la seconda esprimono in maniera evidente i tratti tipici della mentalità sofistica e troveranno proprio in Socrate il loro grande avversario.

Platone accosta idealmente i signori colti e raffinati della «grande sofistica», Gorgia e Protagora, ai «nuovi sofisti» della dissoluzione scettica dello Stato e della volontà di potenza, stabilendo tra gli uni e gli altri, pur così diversi, un rapporto di responsabilità e di continuità. Infatti sono proprio in Gorgia e Protagora le premesse gnoseologiche e metafisiche dell’immoralismo del superuomo di Callicle e compagni.

I sofisti furono audaci nello scoprire le difficoltà dei problemi, ma la loro genialità non era accompagnata e sorretta da un corrispondente sforzo di ricerca, esaurendosi nella violenza polemica, nel gioco dell’ipercritica fine a sé, nella facilità dello slogan, nella sottigliezza del paradosso brillante che brucia non solo i luoghi comuni, ma anche le possibilità costruttive del pensiero logico. Essi approdano ad un cinico pragmatismo, alla giustificazione dell’utile in quanto tale e al culto di quello strumento formidabile con cui si perviene al successo nelle relazioni interpersonali, nelle assemblee e nei tribunali: l’arte della parola. Se la verità non esiste e non è conoscibile, esiste però come fatto psicologico la persuasione e l’arte oratoria la promuove. Là dove non esistono o sono inaccessibili valori assoluti, l’utile dell’individuo o dello Stato ne prende il posto e diventa criterio di azione, suscettibile di tutte le variazioni e di tutti gli adattamenti possibili.

I sofisti elaborarono il loro pensiero in un periodo storico contraddistinto dalla vittoria sui persiani, dalla rottura dell’unità etnica, dall’allargamento degli orizzonti e dall’ordinamento democratico. Oggetto del loro insegnamento è la cultura adatta alla formazione dell’uomo politico.

Maestri di abilità polemica ed oratoria essi furono cultori della grammatica e della retorica.

Tesi della isostenia di tutte le argomentazioni: tecnica della persuasione come indifferenza al valore di verità della tesi da far valere (valore strumentale della filosofia in Gorgia).

I sofisti vanno oltre l’estremo oggettivismo dell’empirismo ionico e dell’idealismo eleatico. I risultati della speculazione naturalistica erano tali da eliderli a vicenda.

L’eleatismo contraddiceva l’eraclitismo, le ipotesi dei pluralisti cancellavano quelle dei monisti, la sovrapposizione di esigenze e principi divergenti ingenerava insoddisfazione e scetticismo. La sfida al senso comune e le sottigliezze degli eleati preparano le antilogie dei sofisti.

I sofisti si ricollegano non tanto ai filosofi naturalisti, ma prevalentemente ai poeti, in cui più diretta e profonda era la riflessione sull’uomo.

L’uomo subentra alla natura come centro e problema numero uno della speculazione sotto l’aspetto etico, politico, psicologico e gnoseologico.

La filosofia diventa bisogno che l’uomo ha di conoscersi. La filosofia, che con Talete è nata come tentativo di comprensione razionale del cosmo, tentativo di ritrovare il principio che spiega il tutto, ha finora trattato del cosmo e dell’essere inteso, esclusivamente e prevalentemente, come cosmo. Naturalmente anche l’uomo fa parte del cosmo e la filosofia naturalistica spiegava in un certo senso anche l’uomo, ma solo come cosa accanto alle altre cose, come oggetto e non come soggetto.

I filosofi presocratici come indagatori del problema uomo non andarono oltre il piano della sentenza intuitivamente colta ed espressa. E quei filosofi che in un certo senso andarono oltre poterono farlo sulla base della visione della vita che essi attinsero dalla fede orfica e non dalla loro dottrina della phisis, restando prigionieri di aporie irrisolte. È il caso di Pitagora e di Empedocle, in cui appunto la tensione tra la dottrina naturalistica e quella etico religiosa è evidente e non superabile.

Porre l’uomo al centro della riflessione filosofica significa chiedersi qual è l’essenza, il significato dell’uomo in quanto uomo, la sua natura; domandarsi che cosa l’uomo può conoscere e come deve agire in quanto singolo e in quanto membro di una comunità; stabilire in che cosa consiste l’areté umana, la virtù, ciò che fa essere l’uomo pienamente uomo; saggiare sistematicamente la tavola dei valori tradizionali: questa fu la grande opera che i sofisti iniziarono e che Socrate portò a compimento.

Con i sofisti la ricerca filosofica, prima prevalentemente cosmologica, diventa antropologica: l’uomo subentra alla natura come centro di speculazione.

La sofistica è la prima delle grandi rivelazioni dell’uomo a se stesso: ma, essendo la prima, è anche la più immatura; tutto ciò che nell’uomo vive si pone per lui allo stesso livello: passioni, sensi, opinioni, ragione. Di qui il relativismo dei sofisti, oscillante tra un sentimento di conclamata sufficienza (Protagora) e una più acuta e, in qualche caso, tragica coscienza scettica (Gorgia).

All’oggettivismo immediato dell’antica scienza subentra un soggettivismo del pari immediato. Il concetto dell’essere è, non altrimenti che nella più antica speculazione, ancora inarticolato.

Il lavoro dei sofisti fu utile per tre motivi:

– non si maneggiano invano con destrezza nozioni di ogni sorta, non invano se ne scrutano i mutui rapporti, sia pure a favore di un illusionismo interessato;

– non è neppure un piccolo vantaggio approfondire, anche se unilateralmente, l’apporto del soggetto all’elaborazione del vero. L’empirismo iniziale e così pure l’idealismo eleatico erano troppo oggettivi: il ritorno alle condizioni del pensiero era già, rispetto al «conosci te stesso», una specie di anticipazione;

– ci si può infine domandare se, mancando i sofisti e lo stato di dissoluzione in cui essi riducevano il pensiero greco, la vocazione di Socrate si sarebbe mai risvegliata.

Il negativo però prevale sul positivo: i germi di teorie che sorgeranno con altri contenuti culturali, ma con analoghi stati d’animo (fenomenismo, nominalismo, relativismo, agnosticismo, pragmatismo, problematicismo) sono presenti nel movimento sofistico, che con le sue sottigliezze brillanti corrodeva il costume senza migliorarlo, demoliva senza essere capace di costruire.

I grandi problemi diventano nelle mani dei sofisti temi di esercitazione in cui il paradosso brucia non solo il luogo comune, ma la possibilità costruttiva del pensiero logico.

Gorgia

Nato nel 480, dopo una vita felice, ricca di onori, morì a 109 anni.

Nasce a Leontini, in Sicilia, dove vi è una situazione vivace da un punto di vista culturale e sociale. Fu capo di una delegazione mandata ad Atene per chiedere aiuti alle città siciliane contro Siracusa; Gorgia ottenne un successo trionfale, anche se non immediato.

Gorgia riceve influssi da Empedocle, Zenone, Pitagora.

Da Empedocle assume un modo di scrivere retorico; Gorgia è stato uno dei creatori della prosa d’arte, il «Nestore degli oratori» (Platone).

Secondo Hermann Diels, Gorgia fu fisico, poi eristico, infine retore, passando dalla critica ai sensi, alla nullificazione dell’essere nell’apparenza, per trasformare l’apparenza in realtà mediante la persuasione.

Un’evoluzione per gradi così netti, in ogni modo, non è documentabile.

Ambivalenza del «logos» e insicurezza della «doxa»

Gorgia esamina il mito di Elena: per quale motivo Elena fu spinta ad abbandonare la famiglia?

1) Dalla violenza delle decisioni della divinità.

2) Dalla potenza del logos.

Il logos è ambivalente: può persuadere con facilità, può ingannare con suggestione. Chi non è privo di sensibilità si lascia vincere dalla parola, che «ha la virtù di troncare le paure, di rimuovere il dolore», creando nuove situazioni nell’animo umano. La parola, nella sua trasfigurazione artistica, riesce a far diventare esperienza personale i sentimenti altrui. La potenza della parola è per l’anima quello che è per il corpo la prescrizione di farmaci. Alcuni strappano alla morte, altri alla vita, altri eliminano alcuni umori.

3) Dal mondo delle suggestioni.

«Per mezzo della vista l’anima riceve un’impronta anche nel suo carattere». Il mondo delle suggestioni può esercitare la medesima influenza del logos, quindi Elena non deve essere condannata, ma compianta. Ma come riconoscere la verità nel logos ambivalente?

Palamede, re di Eubea, scoprì l’astuzia di Ulisse; per questo venne accusato ingiustamente e morì lapidato pronunciando la famosa frase «Verità, tu moristi prima di me». Palamede è accusato per supposizione, non per chiara conoscenza: perché questa si ha di ciò che è, non di ciò che non è, ma la verità non si può renderla manifesta con le parole. Si potrebbe conoscere tutto, ma non essere capiti.

Gorgia pubblicò un’opera, Intorno al non ente o intorno alla natura, nella quale scrisse: «Affermo che nulla esiste; se poi esiste è inconoscibile; se infine anche esiste ed è conoscibile tuttavia non può venir significato direttamente ad altri».

a) Nulla esiste: scetticismo metafisico.

Alcuni filosofi dimostrano l’unità dell’essere, altri la sua molteplicità: se ne deduce che una tesi vale l’altra, nulla esiste. L’esperienza conoscitiva dell’uomo è inoltre contraddittoria se il logos è ambivalente.

b) Se qualcosa esiste è inconoscibile.

Se l’essere è contraddittorio, contraddittoria è la conoscenza; si dice che tutte le cose pensate non esistono, quindi non è provato che ogni cosa esista.

c) Non può essere significata ad altri: scetticismo sociale.

C’è relatività individuale nell’esperienza, non è possibile l’identità di sensazioni in soggetti differenti, quindi l’esperienza è incomunicabile.

Viene usata la dimostrazione apogogica: data una serie di possibilità, tutte tranne una sono escluse come assurde.

Per Eugène Dupréel (Les Sophistes. Protagoras, Gorgias, Prodicus, Hippias, Ed. Du Griffon, Neuchâtel 1948), il relativismo di Gorgia è psicologico: secondo Gorgia la conoscenza è sempre combinazione di due elementi, di cui uno è fornito dal dato percettivo e l’altro è prodotto dal soggetto stesso. Gorgia è sostenitore di una morale dell’intuizione e di una morale della situazione: conoscere la misura dell’occasione è il fine della saggezza. Non c’è la virtù, ma ogni età e attività ha le sue virtù. Non si può insegnare la virtù, ma solo suscitare la passione della virtù. È Gorgia un artista, filosofo par occasion.

Protagora

Fu contemporaneo di Anassagora, Empedocle e Socrate. Nacque secondo la maggior parte degli autori nel 481 a.C. circa ad Adbera in Tracia, e sembra essere venuto ad Atene nella metà del secolo.

La premessa filosofica da cui parte è il sensismo radicale a cui applica il flusso eracliteo («L’anima non è nulla oltre le sensazioni»).

Non fu pensatore individualista, ma sociale quant’altri mai. La frase «l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono» non esprime una teoria della percezione e dell’apparenza bruta, ma implica una concezione sociologica, pragmatistica della conoscenza e del suo valore.

Delle due scienze di Parmenide, quella della phisis è vana, quella dell’opinione è legittima e feconda.

La tesi interpretativa di Platone (Teeteto): non filosofia dell’apparenza, ma gerarchia delle apparenze (ma partendo unicamente dalle apparenze non c’è modo di distinguere le migliori e le peggiori).

Per Protagora non c’è verità assoluta: tutte le sensazioni sono soggettive e quindi anche il vero è soggettivo.

La religione e la politica nella sofistica

La negazione sofistica della religione estetizzante della tradizione mitologica è negazione dei valori religiosi in Crizia, Prodico e Trasimaco, ma in altri è approfondimento dei valori religiosi congiunto al superamento della mitologia.

Euripide esprime l’intimo dissidio tra passato e presente, ragione e fede, mitologia e razionalismo.

Aristofane, senza proporselo, fa assumere alle sue apologie del passato il tono di una feroce parodia.

Secondo Prodico si divinizza ciò che è utile alla vita (pre-evemerismo); per Trasimaco gli Dei non badano agli uomini, mentre Crizia ritiene che la furbizia dei dominatori crei il terrore degli Dei; gli Dei sono creazione umana.

Anche nell’elaborazione del pensiero politico i sofisti presentarono aspetti e soluzioni originali.

Il greco si sentiva, più che un individuo, essenzialmente cittadino di una determinata polis.

Persino Platone e Aristotele continuarono a vedere nella polis l’ideale paradigma dello Stato.

I sofisti ebbero invece il merito di capire che i greci per salvarsi politicamente avrebbero avuto bisogno di ancorarsi ad una solidarietà panellenica. La pretesa autosufficienza delle poleis avrebbe significato in breve la fine della libertà per i greci.

Secondo Giuseppe Saitta (L’illuminismo della sofistica greca, Bocca, Milano 1938) nei sofisti si ha la prima grande affermazione di una legge naturale razionale, «il giustiziere di tutte le leggi positive».

Sofocle nell’Antigone pone il contrasto tra leggi eterne non scritte e leggi scritte.

L’affermazione di una legge originaria che è ragione e libertà, norma intima e superiore a cui tutto deve commisurarsi, ha una carica rivoluzionaria potentissima. Prodico, Ippia, Antifonte faranno valere un’intuizione morale dell’umanità implicitamente negatrice di tutte le disuguaglianze sociali e politiche, portando a chiara coscienza i motivi ispiratori della democrazia.

Allo stesso risultato, ma solo apparentemente, approdava il relativismo protagoreo come era chiaramente denunciato da Platone nel Teeteto (172 b).

Saitta (op.cit.) afferma che il soggettivismo pronto a legittimare qualsiasi principio e qualsiasi condotta origina «una statolatria democratica la quale nei suoi effetti non è dissimile dalla tirannia pura».

La nuova sofistica, rappresentata da Callicle e Trasimaco (Repubblica), segna la dissoluzione scettica della concezione dello Stato e teorizza la concezione dello Stato come volontà di potenza. Callicle esalta la volontà del superuomo e Trasimaco l’energia e l’accortezza di chi opera a proprio esclusivo vantaggio.

Si celebra la passione egotistica e si vede nella virtù una «nobile dabbenaggine», qualcosa di passivo.

Interpretazioni della sofistica

Non sono rimasti che scarsi frammenti degli scritti dei sofisti, a fronte dei quali si sono moltiplicate le ipotesi interpretative, raffinatissime, ma spesso infondate.

Alcuni hanno paragonato il movimento sofistico all’illuminismo in quanto la critica corrosiva dei sofisti verso il paganesimo può essere assimilata a quella degli illuministi verso il cristianesimo.

Giuseppe Saitta (L’illuminismo della sofistica greca, cit.) riprende la tesi di Eduard Zeller che aveva chiamato i sofisti gli enciclopedisti della Grecia e la trasfigura in chiave idealistica; la sofistica è illuminismo, ma anche idealismo perché dell’idealismo afferma, sia pure su di un piano empirico, il concetto di produttività dello spirito e il procedimento dialettico.

Ai sofisti manca la fiducia nella ragione, la volontà di rinnovamento politico e sociale e la volontà di divulgazione e di proselitismo. Erano troppo scettici per concepire una missione riformatrice del sapere.

Karl Joel: la pretesa di tutto discutere e di tutto volgere secondo il proprio intento esige una «sapienza professionale, vuota e superficiale».

Heinrich Gomperyz: i sofisti sono retori che fanno incursione nella filosofia; grammatici e filosofi, sono per metà scienziati e per metà giornalisti.

Nicola Petruzzellis: l’atteggiamento retorico dei sofisti è la conseguenza della disperazione teoretica della verità. Se la verità non è conoscibile, esiste però la persuasione come fatto psicologico e l’arte oratoria la promuove.

Figure di sofisti in Platone

La contrapposizione ideale tra Socrate e i sofisti è espressione di una situazione spirituale ed è presa di posizione critica: Socrate non è sofista e il socratismo è confutazione attiva della sofistica. Questa contrapposizione è il polo dei primi due periodi della produzione letteraria e filosofica di Platone miranti, il primo, alla difesa e all’illustrazione dell’insegnamento di Socrate e, il secondo, a una confutazione della sofistica.

Vi è una circolarità dialettica tra la rappresentazione del singolo sofista e la sofistica: l’individuo, pur con i suoi atteggiamenti propri, è espressione di un ambiente. Platone accosta a Gorgia, scettico ma signore colto e parlatore raffinato, Callicle, e stabilisce tra i due, pur così diversi, il rapporto di responsabilità. Platone ravvisa infatti le premesse gnoseologiche e metafisiche dell’immoralismo del superuomo di Callicle in Gorgia e Protagora. La stessa abilità e forza metodica delle tecniche non rapportate a precisi valori e fini etici si trasformano in arma insidiosa di dissoluzione. (cfr. Maria Teresa Antonelli, Figure di sofisti in Platone, Sei, Torino 1948).

 

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.

[1] Contemporary British Philosophy, a cura di H. D. Lewis, London 19612, p. 448.

[2] Una delle cose che più infastidisce è l’abuso del termine filosofia, sintomo questo, come ogni processo inflazionistico, di una caduta di valore, di una confusione estesa e profonda. L’uso della parola filosofia in un senso riduttivo, all’americana, per indicare un contesto di argomentazioni che serva a chiarire il senso di una qualsiasi decisione o iniziativa – si tratta di una formula di governo, del lancio di un prodotto o di un’iniziativa turistica – rivela una situazione di scollamento e di deteriorato impegno teoretico. A questo si accompagna spesso la crisi di identità di non pochi tra gli stessi professori di filosofia, soprattutto tra coloro che sono approdati all’insegnamento di quella disciplina da altri lidi e pertanto non sono adusi a commisurare le produzioni recenti che inondano le librerie a quelle dei grandi maestri del pensiero, i quali spesso sono del tutto assenti o ridotti a caricature odiose, non solo in certe facoltà universitarie, ma anche nell’insegnamento liceale. Si spiega allora come possa affiorare un tipo nuovo ed eccentrico di docente che insegna filosofia e sparla della filosofia, con un misto di masochismo e di civetteria, senza giungere mai alle dimissioni, che pur sarebbero rigorosamente consequenziali. E si sa che quando i grandi maestri tacciono e non si crede più al significato profondo ed autonomo della disciplina che si professa, allora si è più che mai esposti alla suggestione delle ideologie. La filosofia autentica in ogni tempo non si sottrae al dovere di render conto di se stessa, della sua presenza e del suo diritto a continuare ad essere. Tale dovere diventa più che mai imperativo nel nostro tempo.

[3] Nicola Petruzzellis, Storia del pensiero filosofico e pedagogico, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1966, pp. 21-22.

[4] Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1967 (prima ristampa), p. 52.

[5] Cfr. Antonin-Dalmace Sertillanges,  Il Cristianesimo e le filosofie, Morcelliana, Brescia 1954, vol. I, pp. 114-115.