Le piccole patrie che portarono a Roma

Del luogo di origine di Cornelio Nepote, che una volta era uno dei primi scrittori incontrati dagli scolari di latino, si sa solo che si trovava nella Padania. La notizia è data casualmente da Plinio il Vecchio , il quale trova strano che uno, il quale abita nella zona del Po, Padi accola, condivida la falsa opinione che l’acqua del mare del tratto fra le foci del Po appunto e dell’Istro (un fantomatico ramo istriano del Danubio) sia più dolce per effetto del contributo dei due fiumi. La notizia di Plinio in passato era occasione di qualche polemica tra filologia e campanilismo, per accertare la località precisa del luogo di nascita di questo autore: entravano in lizza soprattutto Pavia e Ostiglia, ma spesso finiva per prendere il sopravvento la candidatura di Milano, che non è situata propriamente nelle vicinanze del Po, ma già in antico era il centro dominante dell’Italia Settentrionale che dal fiume prendeva il nome, oggi risuscitato nel lessico politico. Infatti la designazione così generica di Plinio, che pure conosceva benissimo ed enumerava una per una le città del Nord Italia, è significativa proprio perché sottintende la concezione di una unità regionale. Il senso di questa comunità doveva essere presente nella coscienza generale già prima di lui: amico di Cornelio Nepote è Catullo, veronese e gardesano, che gli dedica il carme di apertura della sua raccolta di poesie. A sua volta Catullo è definito «conterraneo» dal comasco Plinio il Vecchio. Esisteva dunque una rete di rapporti e una circolazione di persone tra le località settentrionali. Cremona era sede di una fiera molto frequentata. Virgilio, nato nel borgo di Andes (ancora non localizzato, e anche questo è significativo), frequenta le scuole primarie a Mantova e le medie (allora si diceva «di grammatica») a Cremona, ma per le superiori (o «retorica») deve passare a Milano, prima di andare a Roma per il perfezionamento e la professione forense (che abbandonerà presto per la poesia). La mobilità, fisica e/o culturale, supera dunque i confini della regione: il padano Nepote è in rapporti amichevoli ed epistolari con Cicerone; Virgilio, che non amava la vita pubblica, va con tre amici a stabilirsi in Campania (uno di essi, Quintilio Varo, è cremonese, un altro, Tucca, genericamente cisalpino), per vivere là l’esperienza della sodalità epicurea. A sua volta Marziale, per sfuggire alla vita affannosa della capitale, si ritira per qualche tempo in Emilia e nel Veneto. Anche chi non si muoveva dalla terra natale, teneva gli occhi aperti sulla situazione al di là dei suoi confini: Gellio racconta delle reazioni alle notizie della guerra tra Cesare e Pompeo nella lontana Tessaglia. Quelli poi che si danno al commercio o all’amministrazione dei beni pubblici hanno occasione di intessere rapporti con gli stranieri, come Plinio il Vecchio con gli Spagnoli. L’attrazione di Roma, per chi voleva far carriera o comunque affermarsi, era naturale. Ma questo non significava dimenticare o snobbare la piccola patria. Erennio Severo vuole avere nel suo studio i ritratti dei suoi concittadini illustri. Plinio il Giovane trova che non è necessario, come faceva lo zio, l’autore della Naturalis Historia, cercare fenomeni naturali in paesi lontani, perché se ne trovavano anche nel Comasco, o come facevano i grandi storici, celebrare le gesta di eroismo dei personaggi eminenti, perché ne poteva documentare anche sulle rive del Lario, da parte di gente assolutamente comune, destinata all’ anonimato (e questa attenzione alle piccole patrie è importante anche perché apre qualche finestra sulla vita quotidiana delle persone, che non entrano nella storia). Nessun dissidio sorgeva dunque fra la cittadinanza originaria e l’orizzonte nazionale. Forse la facilità di adattamento di questi settentrionali a genti e ambienti diversi nasceva anche dal fatto che il Nord Italia era esso stesso un crogiolo di etnie e culture: coabitavano Celti e Insubri, Greci e immigrati d’ogni sorta. Dice bene Strabone , uno storico-geografo greco del I sec.a.C.: Eneti, Liguri, Insubri, ma insieme Romani. Dunque essi non rinunciavano alle loro caratteristiche. Asinio Pollione, che era un personaggio piuttosto astioso, rimproverava a Livio la sua patavinitas. Il giudizio era forse politico, ma anche linguistico e letterario: Pollione era un atticista, dunque un purista amante della concisione, cui non poteva piacere lo stile di Livio, che Quintiliano giudicherà denso e fluente come il latte. Probabilmente lo scrittore di Padova assumeva deliberatamente movenze regionali, pressappoco come ai nostri tempi uno scrittore finissimo e di fama nazionale, come Cesare Angelini, esibiva con una certa civetteria nelle conversazioni e alla radio il suo bellissimo accento lombardo. Decisamente politica è la critica al medesimo Livio, che veniva attribuita ad Augusto, di essere pompeiano, cioè legato alle identità della vecchia repubblica. I settentrionali si erano trovati divisi al tempo della guerra civile, ma avevano fama di essere repubblicani nel senso migliore, cioè amanti della libertà. Tacito racconta che, quando i provinciali andavano a Roma per i loro affari o in delegazione, non sapevano applaudire al momento giusto le esibizioni teatrali di Nerone (alle quali invece i residenti nella capitale si erano servilmente abituati) e perciò venivano spesso bastonati dalle forze dell’ ordine. La fedeltà ai valori repubblicani non dispiaceva agli imperatori intelligenti, fosse calcolo politico o convinzione: Augusto, in occasione di una visita a Milano, lodò i milanesi perché tenevano in onore la statua di Bruto. E Bruto era l’uccisore di Cesare, del quale il principe si diceva erede e successore, ma del quale non continuava la politica orientaleggiante proprio in nome delle virtù repubblicane. Augusto aveva capito che in queste risiedeva la forza dell’impero. Ma quello che per lui era un insincero programma politico di restaurazione morale, per i settentrionali era ancora una convinzione condivisa. Più di un secolo dopo Plinio il Giovane lodava l’alta e diffusa moralità di centri come Brescia e Padova. Ora la severità dei costumi era stata, anche se in qualche misura mitizzata, la caratteristica dei romani antichi, i quali con la frugalità e l’impegno, con il senso civico e il disinteresse personale, avevano costruite le fortune della loro città. Facile era dunque stabilire l’equazione “moralità = antichi romani”, per cui i settentrionali potevano rivendicare per sé la qualifica di veri romani dei tempi nuovi. Con questa convinzione i provinciali entrano nel grande gioco politico, portando al centro, almeno nel primo tempo, le loro qualità di energia, dedizione, onestà. Probabilmente l’ingresso delle forze di periferia fu una delle ragioni della lunga durata dell’impero romano, se si pensa alle follie e all’incapacità di molti regnanti, alla corruzione e all’inerzia della capitale, dove la regola di governo era offrire alla piazza cibo e divertimenti (panem et circenses, annonam et spectacula). Quando anche le energie del contributo settentrionale si affievolirono al contatto col potere, che logora moralmente, intervennero altre regioni, anche più lontane dal centro, dalla Spagna all’Africa. La condizione dello stato romano si può immaginare come la concentricità di tre cerchi di diametro diverso, che non si escludono a vicenda: la regione, la nazione, l’impero. È da notare che il periodo di predominio politico delle diverse regioni è quasi coincidente con quello culturale, dalla Spagna all’Africa, da Seneca a Frontone. Il momento magico della Padania si colloca tra I sec. a.C. e I d.C.: si sostanzia dei nomi di Catullo, Virgilio, Livio, i due Plini, forse anche Tacito, per tacere dei minori o meno noti, come Vario e Cinna, e dei dotti, come Remmio Palemone e Asconio Pediano e lo stesso Nepote. Si tratta di una percentuale non piccola dell’intera letteratura latina. L’apporto del neoterismo, del quale fu caposcuola Catullo, andò ben oltre i confini della regione e del tempo. Cicerone considerava la Padania un ambiente favorevole agli studi. A Verona fioriva la pittura. Quella emersione di autori non fu una fioritura nel deserto. Essa fu preparata dall’azione della scuola. Lungimiranti capi locali e personaggi eminenti delle singole città avevano chiamato dall’esterno insegnanti e grammatici, attirandoli realisticamente con alte paghe. La diffidenza verso l’astrattezza e le vanità non abbandonò neanche i loro successori dei secoli a venire, quando ormai i settentrionali erano arrivati ai più alti gradi politici. Plinio il Giovane, che è un personaggio di primo piano, console, principe del foro, membro e delegato del consiglio imperiale, non esita a disertare la cerimonia di inaugurazione di un consolato per correre in campagna a studiare un modo diverso di conduzione delle sue terre, per rimediare alla crisi dell’agricoltura. La necessità della presenza della società nello stato era ancora viva nella coscienza dei romani del Po.

Giornale di Brescia, 28.11.1999.