Le problematiche socio-economiche alla luce della “Laborem Exercens”

Noi economisti impegnati nel sociale abbiamo molto, moltissimo da imparare da questo insegnamento pontificio.
Perché? Una prima risposta fondamentale la si trova laddove si sottolinea la crisi dell’etica del lavoro. E’ evidente che se non esistono motivazioni essenziali al lavoro, cade un po’ tutto l’insieme di ragnatele produttive e sociali. Una volta che sia in crisi l’etica del sacrificio, una volta che sia in crisi – come lo è – il consumismo, quali sono le motivazioni al lavoro?
Ecco quindi l’essenzialità di una sottolineatura della spiritualità del lavoro e del senso proprio, cristiano, che si deve dare a questa attività dell’uomo.
Ma aggiungerei di più; non sarei qui come economista se credessi che l’economia, al pari delle altre scienze sociali, fosse qualcosa di neutrale, come sotto sotto ci hanno portato a credere certi cultori della scienza economica che hanno per molto tempo cercato di presentare questa particolare scienza dell’uomo come una realtà “naturale”: come esiste una relativa certezza e precisione nelle scienze fisiche così esisterebbe nelle scienze sociali. Due più due fa quattro: il salario deve commisurarsi alla mera produttività del lavoro, ritenuta una categoria tecnica, un fatto tecnico, che discende da certe combinazioni di fattori produttivi. Basta usare il calcolatore ed ecco che salta fuori il giusto salario!
In realtà, noi non abbiamo mai pensato o creduto che l’economia potesse considerarsi, legata com’è a comportamenti dell’uomo, cioè di un essere irripetibile e con dignità trascendente (come si legge nell’enciclica), un fatto neutrale.
E’ scienza nel senso che ricerca certe causalità, ma sono ipotesi di comportamento, che partono quindi dall’uomo, dalle sue preferenze e dai suoi valori. Le scienze sociali e l’economia si costruiscono a partire da orientamenti che vengono espressi per la costruzione di certi progetti a favore dell’uomo.
L’economia è e deve essere a servizio dell’uomo; questi orientamenti noi li troviamo in questa nuova enciclica papale, la quale offre la visione umana del lavoro capace di ispirare i modelli più diversi. La Chiesa in questa enciclica, come già in altre, non sceglie fra i sistemi economici; si trovano sì delle osservazioni sul capitalismo, sul collettivismo, ma la Chiesa si mantiene libera nei confronti dei sistemi economici in modo da poter optare per l’uomo.
Dice infatti il Papa che un sistema sociale, un sistema economico, è moralmente legittimo solo se si struttura in modo tale da dare la priorità al lavoro umano, e quindi all’uomo rispetto al capitale, rispetto al processo di produzione.
L’uomo nei sistemi capitalistici è strumento, fattore di produzione; in questi sistemi si tende a sottolineare la dimensione oggettiva del lavoro (il Papa distingue tra dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro), cioè si tende ad esaltare la tecnica, il consumismo, le risorse materiali, a scapito molto spesso dell’uomo. Aggiunge parimenti il Papa che nei sistemi collettivistici l’uomo è nient’altro che la risultante dei rapporti economici.
L’enciclica offre degli orientamenti per costruire dei progetti economici e sociali che vadano a vantaggio dell’uomo e, soprattutto, sottolinea la necessità di preservare il carattere personalistico del lavoro. L’uomo in quanto persona deve essere l’unica e vera variabile indipendente del sistema, cioè qualche cosa che si deve preservare ad ogni costo, a prescindere dai limiti o dalle condizioni in cui si svolge la vicenda umana. Non il salario, non il profitto, non tanti altri feticci.
E come preservare il carattere soggettivo del lavoro? Ecco che il Papa rimanda qui alle comunità cristiane. Siamo noi che dobbiamo declinare queste affermazioni essenziali, questi principi, questi orientamenti nel concreto svolgersi della nostra vita quotidiana.
Ci sono però, anche importanti conseguenze in termini di prassi e di filosofia economica. In questa sede si proverà a fornire soltanto alcuni stimoli di discussione perché qui l’opinabile è certamente molto ampio e rilevante.
Il Papa riafferma la necessità che a principio ordinatore dei sistemi economici ci sia l’uomo che lavora, che è persona. Naturalmente qualcuno dirà: ma ci voleva una nuova enciclica per dire questo? Certamente non è nulla di nuovo, in altre encicliche era affermato questo stesso orientamento. Bisogna però dire che le stesse attese durano tuttora, cioè che a tutt’oggi questo grande orientamento non è stato declinato nelle realtà che ci circondano: quindi, è un invito a superare i ritardi.
Bisogna anche dire che si sono affermate delle civiltà materialistiche che hanno esaltato, ed esaltano, la dimensione oggettiva, ma non quella soggettiva del lavoro.
Aggiungerei poi che ci sono le attese, ci sono le inesperienze del terzo mondo, il quale è bene che non si faccia catturare né da un sistema né dall’altro, ma costruisca nuove realtà economiche a partire da questi principi fondamentali ed innovatori.
In termini di prassi e di filosofia economica c’è la sottolineatura evidente della strumentalità della ricchezza, della necessità quindi della sua subordinazione a finalità etiche; il profitto non può essere, potremmo tradurre, il metro assoluto di efficienza. Non esiste un’efficienza con la “e” maiuscola: l’efficienza è sempre qualcosa di relativo. Bisogna cioè precisare i fini, gli obiettivi per i quali si deve giungere a mettere in campo sforzi e risorse per il suo raggiungimento. E i fini e gli obiettivi possono essere molti, non necessariamente la massimizzazione delle risorse materiali!
Il Papa poi chiaramente sottolinea il suo “no” a certe mitizzazioni delle tecniche, del progresso, delle crescite quantitative, a certe sacralizzazioni e, come già in altri pronunciamenti, ha messo in guardia nei confronti dei modelli di importazione che uccidono le civiltà indigene.
Il Papa sembra prospettare la necessità di marciare verso un’economia che sia più solidaristica, meno feticistica, un’economia che cerchi di privilegiare risorse e scambi all’interno delle famiglie e delle associazioni: la persona, la famiglia, le associazioni, gli enti locali. Un’economia attenta all’ambiente, quindi all’ecologia, un’economia che sia imperniata su imprese responsabilizzate, cioè su imprese che non siano configurabili, alla maniera liberistica, come mera coordinazione di fattori produttivi. No, l’uomo è persona e non può essere configurato alla stessa stregua delle risorse materiali, che pure sono necessarie alla produzione perché si abbiano certi prodotti e certi beni.
L’enciclica è critica verso i sistemi economici che privilegiano l’economicismo, cioè l’economia come fatto naturale, che talvolta fa dire e fa scrivere che la disoccupazione e le emarginazioni sono tutto sommato il portato “naturale” delle leggi economiche. I più illuminati fra gli economisti classici giungevano a dire: l’economia ha certi modi di funzionare che producono anche delle storture (queste storture sarebbero i milioni di disoccupati o di emarginati), ma è solo in un momento successivo che la politica deve intervenire per lenire il male, mediante iniziative nel settore della beneficenza, dell’assistenza. Non può però essere questa la nostra impostazione, secondo cui si lascia correre l’economia secondo sentieri spontanei e, come la storia dimostra, molto spesso squilibrati (squilibri territoriali, squilibri settoriali fra agricoltura ed industria, squilibri alla fin fine personali), per poi cercare di correre ai ripari!
Occorre costruire un sistema economico che abbia al suo interno le stesse correzioni equidistributive, cioè che raggiunga delle finalità tali da salvaguardare i diritti legittimi soprattutto dei meno abbienti, che non si rifaccia quindi ad un economicismo che legittima povertà.
Il Papa afferma inoltre, usando termini innovativi, che “esiste un datore di lavoro indiretto”. Io tradurrei: esiste una responsabilità della politica economica nel garantire un posto di lavoro per tutti (e questo discende dalla centralità dell’uomo). Se infatti noi poniamo al centro della vicenda economica l’uomo, allora la garanzia del lavoro non può non essere prioritaria. E si badi bene: occupazione e non posto di lavoro difeso ad oltranza, campanile per campanile. Esistono delle regole, delle necessità per far funzionare l’economia, che richiedono una certa flessibilità ed elasticità: si può quindi parlare di mobilità delle persone, dei lavoratori, ma questa mobilità non può una volta di più essere concepita come un fatto tecnico, cioè come mera necessità del meccanismo produttivo. Va invece inserita in un disegno di salvaguardia dell’uomo lavoratore; non si può, ad esempio, trasferire brutalmente le persone se non si garantisce la casa, il trasporto, l’ambiente.
Ecco la responsabilità soprattutto degli enti locali, di chi fa politica economica in termini reali.
In parallelo a tale sottolineatura, vi è nell’enciclica anche un “sì”, un “sì” alla rivalutazione del momento umano e sociale della produzione.
Una volta di più: se a produrre è l’uomo, l’uomo non può essere considerato alla stregua di un mero agente materiale della produzione, sarà semmai il capitale ad essere considerato come tale e ad essere remunerato in maniera sufficiente, perché i frutti del monte produttivo devono andare in ultima analisi al lavoro.
Quindi “rivalutazione del momento umano e sociale della produzione” vuol dire che la lprofessionalizzazione e la responsabilizzazione abbiano a ricevere un giusto ed adeguato posto nel mondo produttivo. Bisogna che siano eliminati i posti senza sbocco ed occorre che ci sia in ultima istanza la condivisione del potere aziendale.
Occorre anche che ci sia un innesto del meccanismo di ridistribuzione dei redditi e delle ricchezze nello stesso momento produttivo. E mi spiego: se – come ho già detto in precedenza – prima si produce in qualche modo e poi si rattoppa, si finirà col rattoppare sempre male e non ci sarà mai un reale miglioramento nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze. Se, invece, si riuscisse a mettere in atto una programmazione la quale faccia sortire certi obiettivi produttivi e quindi certi beni prioritari rispetto ad altri, ecco che chi produce fruirebbe poi di beni e di servizi che vanno a vantaggio dei bisogni reali dell’uomo e non già dell’accumulazione fine a se stessa. Si tratta cioè di innestare il meccanismo della qualità della vita, in sostanza, nello stesso momento produttivo.
Occorre inoltre che la famiglia (parlavamo prima della centralità dell’uomo, ma è come dire centralità della famiglia) divenga unità e soggetto di gestione di bisogni quotidiani. Questo significa che deve essere attuato un meccanismo tale da distribuire redditi e servizi in funzione della famiglia, in funzione delle comunità locali.
Noi abbiamo spesso lamentato la decadenza e l’oblio di certi valori, abbiamo fatto anche battaglie, ad esempio, sui problemi delle famiglie che si sfasciano nel divorzio. Occorre però agire in termini concreti, al di là della preghiera che noi crediamo da sempre necessaria, per salvaguardare la persona umana, la famiglia, le comunità. Ora è necessario che la produzione vada a rafforzare soprattutto il tessuto sociale e comunitario, partendo dalle necessità della famiglia.
Una volta di più si giunge alle questioni cruciali della casa, dei trasporti, dell’ambiente, dei beni d’uso comune che sono quelli che salvaguardano alcuni valori che noi diciamo di propugnare nella vita economica e sociale e nella vita politica. Va dunque costruito un meccanismo tale da migliorare il rapporto tra famiglia e lavoro, e in generale tra risorse e bisogni reali della famiglia e delle persone.
Nel contesto di tali problematiche il Papa fa comunque emergere un’importante affermazione: la necessità che l’uomo si senta sempre (è un’espressione dell’enciclica) “di lavorare in proprio”. Non sia cioè sottoposto o soggetto a prestazioni banali e stressanti, che mortificano la dignità della persona umana. In sintesi il Papa pone l’istanza della “partecipazione”. Una parola che purtroppo con tutte le varie interpretazioni, ritardi e assenze, ha finito con lo svuotarsi di significati operativi, ma che in realtà è sul tavolo delle vicende dei sistemi economici, siano essi dell’est come dell’ovest, perché, se c’è una causa sottostante il disagio dei lavoratori tanto dell’est come dell’ovest, questa risiede nella scarsa partecipazione ai meccanismi decisionali che presiedono ai momenti produttivi e, quindi, alla definizione della qualità di vita nella quale poi ci troviamo tutti i giorni.
C’è l’esigenza, in una società che diventa sempre più complessa dal punto di vista organizzativo e tecnologico, in una società che noi vogliamo che sia e rimanga democratica e che pertanto si basa sul consenso, in una società che richiede uno stretto legame tra quanto si accumula e come il sovrappiù che si accumula viene distribuito, di creare meccanismi in cui la partecipazione e la corresponsabilizzazione dei lavoratori alle scelte produttive sia reale e tangibile. Certo l’economia non può essere gestita col voto, non si può decidere col voto se il tornio debba essere nella sala A o nella sala B. L’esigenza di un’unità di comando va preservata, ma deve essere coordinata con l’esigenza di promozione dell’attività lavorativa, perché una realtà fatta di prestazioni banali, stressanti, mercificate, anonime, per cui i lavoratori diventano bambini nella fabbrica mentre si pretende che siano adulti nella vita civile, è qualcosa che difficilmente può durare in una società in cui cresce sempre più la cultura delle masse.
E tale partecipazione è esigita su più piani, anche sul piano di dare contributi concreti alla cosiddetta accumulazione, cioè alla quantità di risorse che vanno destinate all’investimento e alla creazione dei posti di lavoro, e quindi alla garanzia di un avvenire per i nostri figli. Oggi è soprattutto il risparmio dei lavoratori che tende a crescere e questo risparmio non può più essere consumato dall’inflazione, ma va salvaguardato e indirizzato invece verso il capitale di rischio.
Quindi quando il Papa (qualcuno dice scoprendo cose del passato) fa riferimento alla partecipazione agli utili o all’azionario popolare, certo non scopre delle cose nuove. Queste proposte sono già state avanzate dal sindacato di matrice cristiana negli anni ’50 e se allora non decollarono fu, io credo, perché c’erano dei rozzi regolatori della vicenda economica: ad esempio l’inflazione, se appena accennava, la si curava con la disoccupazione, e c’era un meccanismo economico molto più rigido e chiuso. Erano altri tempi.
Non dico che si debba contare necessariamente ed unicamente su queste proposte, ma oggi c’è la necessità di legare l’accumulazione al consenso, alla migliore distribuzione dei redditi e delle ricchezze.
E ciò pur senza negare che non è poi così necessario essere proprietari per codecidere. Una volta la proprietà era tutto, oggi chi è proprietario molto spesso non è gestore delle cose. Non è quindi tanto un problema di proprietà; è soprattutto, direi, la diversa strutturazione del potere che deve consentire a chi è sempre stato oggetto (per cui è stato marxianamente etichettato come “forza lavoro”) di diventare – dice il Papa – “soggetto”. Anche queste proposte, magari definite da qualcuno “passatiste”, possono contribuire ad un miglioramento della situazione economica generale, e possono contribuire a una certa sperimentazione che vada al di là dei dogmatici confronti tra statici modelli capitalistici, comunisti, socialisti, che molto spesso o presentano aspetti radicalmente negativi, come nel caso del socialismo reale, o non sono stati ancora riempiti di tutte quelle necessarie ricette che noi vorremmo verificare alla luce dei valori nei quali crediamo.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 19.10.1981 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.