L’educazione a Roma

INDICE CAPITOLO III

  1. La civiltà romana e il progressivo influsso greco
  2. L’eclettismo pedagogico di Cicerone
  3. Seneca «morale» e Quintiliano «maestro»
  1. La civiltà romana e il progressivo influsso greco

Il primo problema che si deve risolvere a proposito dell’educazione romana è quello della sua esistenza, vogliamo dire della sua esistenza come tipo di educazione originale, indipendente sotto qualche aspetto fondamentale dall’educazione arcaica e da quella che fiorì nella Grecia classica, poiché, appunto, s’è detto e ripetuto da alcuni che l’educazione romana si riduce, nell’epoca più antica, a un’educazione primitiva, e nell’epoca più moderna a un tipo simile a quella greca. Su questa scia alcuni pedagogisti, da Gellért Rauschen a Gotthilf Heinrich Von Schubert, da Giovanni Battista Gerini ad Antonio Martinazzoli, a Luigi Credaro, hanno sottovalutato l’educazione romana e quindi non hanno colto le linee maestre e la visione unitaria di un tipo d’educazione che merita un suo posto, accanto all’educazione greca e all’educazione cristiana. Noi siamo, in sostanza, del parere di Cicerone (Tusculanae disputationes, I, 1), il quale apprezzava l’originalità dei romani, che, «nell’assumere dai greci, furono dei perfezionatori, e ciò in ogni campo di cui ritennero occuparsi».

I greci si compiacevano di ammirare e conseguire l’universalità della scienza, la speculazione teoretica e l’arte; il popolo romano invece era piuttosto incline alle cose pratiche, preferiva abbandonare agli altri la teoria e tenere per sé l’azione. Solo molto tardi, quando gli influssi greci si faranno sentire profondamente, il romano si concede anche all’otium letterario. Se in Grecia sono sorti i più grandi sistemi filosofici e scientifici dell’antichità e le più belle creazioni artistiche, a Roma è stato creato il diritto. Mentre Platone pensa alla sua repubblica ideale, i romani iniziano il progressivo sviluppo di una repubblica reale che conquisterà il mondo. Così, se nell’antichità ai greci spetta il primato nel campo della scienza, della cultura e della bellezza artistica, ai romani spetta quello nel campo dell’organizzazione giuridica della vita sociale e politica. Il fatto che la civiltà romana s’è dedicata soprattutto alla produzione di forme giuridiche e politiche socialmente utili piuttosto che a indagini speculative o a produzioni eminentemente estetiche attesta che essa è una forma di cultura diversa e autonoma, originata da una differente mentalità.

L’indole diversa dei due popoli si rivelò fin dai loro più antichi contatti. I greci consideravano i romani come barbari rozzi e ignoranti, e i romani più tradizionalisti per molto tempo ritennero i greci dei visionari, privi di senso pratico. Nei romani l’ambizione maggiore era quella di ordinare la propria esistenza individuale in modo che ciascuno sia in grado di servire degnamente la repubblica, partecipando attivamente alle sue conquiste e alla sua opera di incivilimento e di organizzazione dei popoli vinti. La dedizione dell’individuo allo Stato era sancita nelle Leggi delle XII Tavole: salus publica suprema lex esto (la salvezza del popolo deve essere la legge suprema)1.

Il popolo romano, creatore del diritto, tende ad armonizzare il senso dell’autorità e il bisogno della libertà individuale. Per il singolo l’esigenza di veder rispettata la propria libertà e il proprio diritto è condizione stessa dell’esistenza dello Stato; il rispetto per le istituzioni non è superstizioso omaggio verso immobili forme di vita esteriore, ma doveroso ossequio alla majestas populi, che di volta in volta adegua le istituzioni ai propri bisogni. Riguardo agli altri popoli, i romani non hanno, come afferma Hegel, «spezzate e uccise le vitali individualità degli spiriti dei popoli e steso sul mondo colto un gelido dominio»; il segreto dell’unità che Roma seppe dare saldamente ai vari popoli sta proprio nel fatto che i romani, anziché reprimere violentemente i caratteri differenziali di ogni gente, hanno spesso sapientemente usato, a vittoria ottenuta, una longanimità che permetteva la valorizzazione e l’assimilazione delle energie e delle qualità tipiche dei vinti. Contrariamente ai greci, che se ne meravigliarono, Roma ebbe simpatia per gli altri popoli, fu pronta ad ammettere gli stranieri nella sua comunità. «Essa sola – scrive l’egizio Claudiano – accolse i vinti nel suo seno e abbracciò il genere umano sotto un sol nome» (De consulatu Stilichonis, 150).

La praticità del popolo romano si nota anche nella vita che conduce. Il lavoro non è per esso, come per i greci, un mestiere da schiavo o comunque disonorevole: è un dovere dell’uomo, non una disgrazia. La leggenda di Cincinnato insegna alle generazioni future la laboriosa semplicità dei costumi primitivi. Dalla serenità del lavoro campestre trae ispirazione la più bella poesia del mondo latino, quella di Virgilio. E anche più tardi il popolo romano sarà pronto a trasformare le sue legioni armate in legioni di lavoratori capaci di fecondare con la vanga sterminate province. Un popolo di agricoltori e di giuristi, di conquistatori e di colonizzatori, con il suo temperamento e la sua civiltà ben definita, non poteva non determinare il sorgere di una sua propria forma d’educazione.

Nei primi secoli del suo sviluppo la società romana era una società contadina. L’educazione romana, in origine, è un’educazione da contadini, una iniziazione progressiva a un modo di vita tradizionale, che fa leva sul mos maiorum, sull’esperienza e la saggezza degli antenati e degli anziani, sull’unità della famiglia, sulle virtù tipiche della frugalità, dell’austerità, del gusto per il lavoro assiduo e ben fatto, del civismo.

Dal periodo originario dell’educazione romana antica fino alla metà del secolo III a.C., il carattere dei romani si formava essenzialmente nella famiglia. La familia romana era la cellula economico-politica su cui poggiava la vita stessa della comunità, costituiva un’entità religiosa in cui si celebrava il culto degli antenati e del focolare; su di essa dominava l’autorità del pater familias. Il padre era a un tempo padrone e sacerdote, giudice e geloso custode delle tradizioni morali e religiose di cui egli stesso era il primo suddito. Perciò egli era anche il maggior educatore dei suoi figli: «Suus cuique parens pro magistro, aut cui parens non erat maximus quisque et vetustissimus pro parente (A ciascuno il genitore faceva da maestro o, chi non aveva più padre, degli uomini anziani e illustri ne tenevano luogo)», secondo il detto di Plinio. Nell’attività educativa era coadiuvato dalla madre, che aveva in Roma un ufficio più rilevante che in Grecia, come ricordano i noti episodi di Coriolano e, in età storica, di Cornelia, la madre dei Gracchi. L’elogio più alto della donna romana e della sua dedizione alla compagine familiare è così scolpito in una lapide trovata in Trastevere: «casta fuit, domum servavit, lanam fecit (fu fedele al marito, filò la lana custodì la propria casa)». Nel Dialogo degli oratori, che alcuni attribuiscono a Tacito, altri a Quintilliano, l’autore rievoca con nostalgia profonda la vita familiare in cui il fanciullo romano cresceva e, in particolare, il rapporto madre-figlio. «Il figlio nato da giuste nozze non era educato nella stanza di una nutrice mercenaria, ma nelle braccia e nell’amoroso grembo della madre, la cui gloria era quella di dedicarsi alla custodia della sua casa e alla cura dei suoi figli. La madre moderava con non so qual santa verecondia gli studi e i lavori del fanciullo, nonché le sue ricreazioni e i suoi giochi».

L’indirizzo dell’educazione paterna era ispirato a pochi principi fondamentali e volto unicamente alla pratica. I figliuoli dovevano crescere con tutte le virtù e le qualità morali e civili che avevano progressivamente accresciuto la potenza dello Stato romano e rappresentavano quanto di meglio avevano tramandato gli antenati. Non bisognava tradire l’exemplum dei padri, e il dovere di tutti era di porsi come modello per i posteri. Le virtù erano soprattutto la pietas, intesa nel senso di rispetto filiale ai genitori e di devozione alla divinità, la constantia o forza d’animo e fermezza, e la gravitas, che era l’austerità e serietà di vita, il senso dell’onore e della dignità. Ma a esse si aggiungevano l’aperta lealtà, la fides, il coraggio fisico, la dedizione allo Stato, la laboriosità e la semplicità della vita, la modestia, la giustizia, l’onestà nelle relazioni economiche con gli altri cittadini, la prudenza e l’abilità nel maneggio degli affari pubblici e privati. Il figlio è affidato alle cure della mamma fino all’età di sette anni. Il carattere del fanciullo si forma nell’atmosfera della disciplina familiare, che era rigida, ma non oppressiva, perché in essa si vivevano spontaneamente tutti gli atti più solenni che segnavano il ciclo della vita, dalla nascita alla morte. Qui il fanciullo apprende anzitutto il culto delle tradizioni, la venerazione per gli antenati, la devozione alla patria e alle credenze religiose avite. L’educazione morale era particolarmente efficace, perché invece di essere affidata a uno schiavo o a un pedagogo di professione, come in Grecia, era diretta dal padre in persona, che il figlio seguiva dovunque, fin dalla prima adolescenza, nel lavoro come nelle attività pubbliche. Perciò l’educazione, al contrario di quanto avveniva in Grecia, ha un precoce indirizzo professionale, perché il ragazzo, che vive in costante comunione col padre, vien posto subito nella condizione di osservare, d’imparare e di allenarsi a tutte le attività a cui sarà chiamato più tardi nella vita2.

L’istruzione elementare doveva essere parte integrante della formazione del cittadino, anche se assai povera di contenuti culturali. I giovani dell’aristocrazia rurale, anche nei primi secoli, si avviavano, con la guida del padre o di suoi competenti amici, allo studio e alla pratica dell’agronomia, dell’arte militare e della scienza giuridica. Per suscitare nei figli il culto delle virtù tradizionali la famiglia usa, tra l’altro, il mezzo efficacissimo della narrazione, più o meno trasfigurata dalla leggenda, degli eventi più importanti della storia antica di Roma. È la madre che racconta dapprima ai figli le vicende del passato: Muzio Scevola, Orazio Coclite, gli Orazi e i Curiazi, Clelia, Virginia, Lucrezia, Cincinnato, su su fino ad Attilio Regolo; questi sono i fatti che i fanciulli e le fanciulle romane sentono spesso esaltare e le figure che sono additate alla loro imitazione. Gli eroi glorificati dai greci erano semidei o uomini particolarmente favoriti dalla protezione divina, e quindi il loro esempio poteva apparire difficilmente imitabile; in Roma gli eroi erano invece uomini in carne ed ossa, sorretti solo ed esclusivamente dalla loro fermezza, dal loro coraggio e dalla loro forza d’animo, e perciò il loro esempio aveva maggiore efficacia pratica, in quanto si presentava con un carattere più umano e nel raggio delle possibilità di chiunque3.

La civiltà romana, elaborata in maniera indipendente, ai margini del mondo greco, con il progredire della sua espansione, viene a essere integrata nell’area della civiltà greca. Gli antichi stessi ne ebbero coscienza e Orazio espresse questo fatto fondamentale con i versi famosi: «la Grecia, vinta, a sua volta vinse il suo selvaggio vincitore, e portò la civiltà delle arti al rozzo Lazio». Vi fu un processo simultaneo e solidale, d’immensa portata: la romanizzazione dell’Oriente ellenistico e la ellenizzazione dell’Occidente romano. Da allora non esiste una civiltà ellenistica separata da una civiltà latina, ma una cultura ellenistico-romana. Naturalmente, mutando con le conquiste la scena politica e la struttura economica delle società, a poco a poco i romani cominciarono a subire il fascino di un’arte e di un pensiero più vasto e profondo e a sentire il bisogno di una cultura più elevata. L’influsso delle scuole greche si fece allora gradatamente sentire e si iniziò anche a Roma una vera e propria organizzazione scolastica. Il ludi magister o litterator insegna a leggere, a scrivere e a far di conto. In seguito compare il grammaticus, che ha a sua disposizione la letteratura greca e l’incipiente letteratura latina e alla sua scuola si formano i ragazzi dai dodici-tredici anni fino ai sedici, allorché, abbandonata la praetexta, essi indossavano solennemente la toga virile ed entravano ufficialmente a far parte della repubblica come cives e come milites. Da ultimo il contatto sempre più stretto con la cultura ellenica diede origine, per i giovani oltre i sedici anni, alle scuole di retorica, in lingua greca e latina. In esse il rhetor insegnava l’eloquenza, arricchendo notevolmente, da un punto di vista culturale, il curriculum degli studi. Il successo del nuovo tipo di scuole non fu ottenuto senza contrasti. Il loro carattere prevalentemente formalista e intellettualista, il loro legame con la sofistica greca e un certo scetticismo relativista che sembrava diffondessero, le faceva diventare pericolose alla gioventù romana. Già nel 155 a.C. il Senato aveva allontanato tre filosofi greci molto loquaci, e tra essi Carneade, venuti in Roma a perorare la causa della patria in qualità di ambasciatori. Nel 92 a.C. i censori emanarono un decreto con cui si condannavano tali scuole, i loro maestri e i frequentatori, accusati, al dire di Aulo Gellio, d’introdurre novità «contrarie ai costumi e ai precetti dei maggiori». Invano, poiché proprio in quel secolo non solo venne di moda il frequentare le scuole retoriche, ma i più abbienti inviavano i loro figlioli a compiere gli studi in Oriente, specialmente ad Atene e a Rodi.

  1. L’eclettismo pedagogico di Cicerone

Lo scrittore in cui la paideia greca e la tradizione romana si fondono senza forzature e si adattano reciprocamente è Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), l’uomo nuovo di Arpinate che stimava i valori del vecchio mondo latino, espressi – e, a dire il vero, esagerati – dal conservatorismo di Catone il Censore (234-149 a.C.), ma vedeva nell’aprirsi della vita e della cultura romana alle attrattive del sapere, della bellezza, della civiltà greca qualcosa che avveniva non a caso, ma per un naturale bisogno di trasformazione del costume e di slargamento di orizzonti.

Cicerone seppe per primo piegare la lingua latina a esprimere concetti nuovi e a fornire al mondo romano un panorama di tutta la filosofia. Egli non è un mero compilatore di notizie come Diogene Laerzio ed anzi la scelta delle fonti (non solo excerpta [passi scelti], ma anche opere integrali come risulta, a esempio, dalle Epistulae, II, 2 e XIII, 32), l’ordinamento della materia e la personale espressione artistica attestano un’autonomia ricca di pregi, come ha ben dimostrato Robert Philippson contro detrattori dell’Arpinate. Cicerone non è certo Platone, ma la sua voce non è priva di una sua nobile risonanza umana e civile. «Fra le inevitabili amplificazioni dell’avvocato – ha scritto Ettore Paratore – avvertiamo il brivido dell’universale».

Il limite intrinseco di ogni eclettismo, oscillante fra posizioni non sempre conciliabili, caratterizza anche il pensiero di Cicerone, rigorosamente coerente solo su pochi capisaldi, come a esempio nel respingere il materialismo atomistico e l’epicureismo. Ma Cicerone è uno degli uomini che hanno esercitato un influsso incalcolabile nella storia della cultura e nell’educazione4, per cui non si può eludere il problema del che cosa ha reso possibile una presenza così costante ed efficace. Cicerone ha esercitato una influenza decisiva nelle epoche più diverse in primo luogo perché «ha diffuso e reso familiari quei principi dell’eguaglianza umana e di una legge razionale, naturale, criterio di valutazione del diritto positivo, che doveva, collegandosi col cristianesimo, esercitare un’azione fortissima sullo spirito nelle età successive» (Adolfo Levi, Storia della filosofia romana, Sansoni, Firenze 1949, p. 98).

L’Arpinate ha dato espressione al concetto di humanitas5, destinato a esercitare una suggestione vastissima. Humanitas per Cicerone significa cultura dello spirito, formazione armonica dell’uomo, dominio delle tendenze inferiori, ordine interiore, misura della saggezza (De finibus, V, 65, 66 e 67), disposizione attiva a cercare il «verum simplex sincerumque (ciò che è intimamente vero e schiettamente sincero)», a uniformarsi all’honestum, al bello morale. Humanitas è fermezza «in periculis et laboribus», dedizione al bene comune, armonia interiore dell’animo che si manifesta negli atteggiamenti pratici; è quella formositas in cui eccelleva anche il brutto Socrate, cioè la bella strutturazione della vita che fa l’uomo «ornatu ad actionem aptus (nella disposizione conveniente a ogni azione)», che rende piacevole la presenza di colui che agisce come personalità etica, socievole, urbana. I contenuti della humanitas sono così indicati nella loro complessità e convergenza, ma Cicerone nel De officiis (par. 126) ci ammonisce a non irrigidirne e impoverirne il concetto, giacché le sue connotazioni sono fra quelle cose che cogliamo intuitivamente, ma non riusciamo a formulare con facilità in parole.

Dal punto di vista pedagogico Cicerone celebra il valore di quelle arti per virtù delle quali l’adolescente è formato all’umanità («ab eis artibus quibus aetas puerilis a humanitatem informari solet» – Pro Archia, III), identificandole in primo luogo con i capolavori dell’arte, della letteratura, della filosofia della Grecia e con quel tipo di cultura giuridica e storica idoneo a formare l’uomo e il cittadino che i tempi esigono. L’identificazione, opportuna e coraggiosa in quel momento storico, in altre e assai lontane epoche si farà assai spesso drastica, unilaterale, paradigmatica e perciò antistorica. Allora l’educazione classica degenererà in mito classicistico, in scuole di pseudo-umanità, in culto idolatrico del latino e del greco, in cieca e sdegnosa ripulsa di altri valori, di civiltà ed esperienze nuove e diverse, ignorando le quali si ignorano svolgimenti essenziali per un’autentica educazione all’umanità.

Nel De oratore Cicerone delinea un nuovo tipo di vir bonus, il quale dopo aver assimilato ciò che di più vitale poteva offrire il pensiero greco, esce dalla scuola e si cimenta nei dibattiti del foro e dei comizi, efficiente nella vita pratica, pubblica e privata, capace di porre la propria personalità a servizio dello Stato e del diritto. L’educazione dell’oratore ciceroniano si fonda, oltre che sopra la genialità naturale, sopra un profondo e meditato sapere giuridico, sulla lettura dei poeti, degli scrittori, degli storici, sopra la dottrina delle«forme» e dei «momenti» del discorso, e più ancora nell’efficacia di una robusta ispirazione interiore. Infine la filosofia è intesa come il più alto strumento di perfezione della personalità del retore e il più potente aiuto all’acquisto della virtù civile e umana. In pratica Cicerone fu talvolta nelle sue orazioni un flagellatore del costume degenere di molti giovani patrizi (Orationes in Catilinam, II); però (Pro Celio) riconosce che ai giovani del suo tempo non si possono applicare i rigidi criteri della vecchia disciplina. La virtù dei Camilli, dei Fabrizi, dei Curi «non è più nei nostri costumi», e bisogna concedere qualcosa alla propria epoca. Ciò non significa a ogni modo che ai giovani si debba lasciar fare tutto quello che vogliono. Tra l’antico autoritarismo e la sfrenata licenza v’è, per Cicerone, un ragionevole giusto mezzo. Egli ritiene necessario lasciare ormai più libera l’adolescenza e non pretendere ch’essa sia dominata da un’autorità severa e intrattabile, «purché si serbi, anche in questo, una prudente moderazione». Cicerone si rivolge direttamente alla gioventù, sia pure attraverso il figlio a cui la dedicò, con il De Officiis, l’opera in cui, trattando dell’intera impostazione della vita, l’intenzione educativa si fa esplicita e sa parlare un linguaggio abbastanza persuasivo, perché psicologicamente vicino a chi è buono e onesto senza per questo pervenire alla perfezione morale. Chi non è perfetto, ma s’impegna a vivere secondo una volontà buona, cerca di armonizzare non solo la parola e l’azione, ma anche la condotta morale e il comportamento esteriore.

Occorre portare ordine e misura nell’esplicazione di tutte le singole attività e nella totalità della vita dello spirito che deve presentare armonia e quindi costanza e unità. Le virtù costituiscono l’honestum, il bello morale, che si deve ricercare per sé, non per considerazioni utilitarie. L’honestum si manifesta all’esterno come il conveniente (decorum), che suscita nelle persone con le quali si vive e di cui è doveroso considerare il giudizio, un senso estetico di approvazione. Questa convenienza o adeguatezza a un modello armonico e unitario riguarda non soltanto la natura razionale dell’uomo in generale, ma anche quella dell’individuo, se essa non è in contrasto con la prima, altrimenti non darà mai alla vita costanza, coerenza, unità. Cicerone insiste sulla giustificazione dell’esigenza che ciascuno, pur comportandosi in conformità con la natura umana, sia fedele a quella sua individuale. La formazione della nostra personalità dipende sia da condizioni che sono in balia del caso, sia dalle nostre decisioni volontarie; occorre che le seconde si conformino soprattutto alle disposizioni proprie alla nostra natura. L’uomo deve poi conformare la propria condotta alla sua età, alla sua condizione sociale, deve ricercare il conveniente (decorum) nel contegno e nei movimenti del corpo, nel modo di parlare, di vestire, nell’abitazione.

Siccome gl’individui umani sono stati fatti gli uni per gli altri, l’uomo è l’essere più utile e dannoso all’altro uomo e anche i più potenti non possono prescindere dall’aiuto degli inferiori, sicché la vera utilità del singolo è inseparabile da quella della totalità sociale di cui fa parte; perciò l’utile e l’onesto sono indissolubilmente connessi e anzi coincidono.

  1. Seneca «morale» e Quintiliano «maestro»

Il più alto contributo alla pedagogia romana è venuto da due spagnoli, Seneca e Quintiliano. Lucio Anneo Seneca (5-65 d.C.), nativo di Cordova, non è mai solo filosofo, ma come Miguel de Unamuno e José Ortega y Gasset nel secolo XX, è scrittore affascinante. Nessuno più di lui è lontano dagli scrittori che vanno in cerca di stile e di pezzi di bravura (Ad Lucilium epistulae morales, 114) e nel contempo, proprio per questo, è inimitabile nel suo stile nervoso, in cui il rigore scientifico si accompagna all’ispirazione poetica e alla più schietta partecipazione al dramma dell’uomo. È stato ben detto, con frase lapidaria, che «Seneca parte dallo stoicismo, ma non vi rimane» (Concetto Marchesi); infatti lo supera, umanizzandolo. Egli scrive con il respiro, con l’anima tesa all’eroismo, che sa difficile, e al dolente disinganno. Seneca, quali che siano le sue debolezze, «non lascia orfane le sue idee», bensì si lega a esse in vita e in morte, e tutto quello che dice lo muta in questione personale, in un «mea res agitur», e ha l’accento della sincerità.

L’esitazione su alcune prospettive metafisiche e gnoseologiche serve ancor più a mettere in evidenza la forza delle verità postulate a fondamento della vita morale, messa così al riparo da incertezze capaci di alimentare la sofistica delle passioni: la prima è che «prope est a te Deus, tecum est, intus est (Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te)» e senza Dio nessun uomo può essere buono (Ad Luc.,91, 1-2); la seconda consiste nel riconoscimento dell’umana dignità, «homo res sacra homini (l’uomo è una cosa sacra per l’uomo)» (Ad Luc.,106, 11). Dante colse bene la personalità e il magistero del filosofo con un solo aggettivo: «Seneca morale» (Inferno, IV, 141), e dunque maestro nello schiudere orizzonti luminosi alla vita etica dell’umanità. Adempiendo a questo ufficio, soprattutto nel suo capolavoro Lettere morali a Lucilio, Seneca ha consegnato ai posteri verità semplici ma efficaci.

Egli vuole che si studi per la vita e non per la scuola: «non scholae sed vitae discimus». Preferisce che si segua la via dell’esemplificazione piuttosto che quella delle prescrizioni astratte, e ritiene che il maestro stesso debba imparare insegnando («docendo discitur»), senza dimenticare che la scuola ha uno scopo morale, la formazione della coscienza dell’uomo e del futuro cittadino. La semplice erudizione non basta a formare la personalità. «Che giova numerare gli anni di Patroclo o di Achille, sapere su quali mari andò Ulisse? Meglio è se m’insegnate a non errare nella vita. Voi m’insegnate l’accordo delle note musicali: insegnatemi piuttosto l’accordo di me con me stesso, perché vi sia coerenza nel mio agire. Voi conoscete che cosa sia la linea retta, ma non sapete cosa nella morale sia retto».

Il sapere puramente formale è dannoso, perché dà orgoglio al maestro e presunzione agli scolari, e in tutti isterilisce l’anima6. L’educando non va mai né umiliato né adulato: non bisogna costringerlo a pregare supplichevolmente, né accontentarlo quando pretende con insolenza; né gli manchi il rimprovero ogni volta che farà male. «Non c’è nulla che renda più irascibile che un’educazione molle e infarcita di moine: proprio per queste ragioni i figli unici, con i quali si è più indulgenti, e gli orfani, che hanno maggiore libertà, sono più maleducati degli altri. Non sarà in grado di resistere alle avversità colui al quale non si è negato nulla» (De ira, II, XXI, 6). Anche il corpo non deve essere trascurato nelle diverse fasi della crescita e dell’evoluzione intellettuale: non viviamo per il corpo, ma non possiamo neppure vivere senza di lui. Occorre, dunque, praticare un’intelligente educazione fisica, non per fare dell’atletismo, ma per ottenere quella salute che ci aiuti a meglio adempiere ai nostri doveri. Al consueto acume sono ispirate le sue riflessioni sulla lettura. Le letture casuali, indiscriminate, errabonde denunciano la dispersione interiore, l’instabilità psichica. Le letture sono necessarie per non rinchiudersi nel proprio angusto mondo. Non basta, però, attingere dagli altri; bisogna giudicare quel che ci è offerto e imparare a fare scelte oculate. «È di peso la soverchia quantità dei libri: dici che non hai la possibilità di leggere tutti i libri che hai; dunque, ti basti averne quanti ne puoi leggere» (Ad Luc., 2).

Non bisogna soltanto leggere, né soltanto scrivere, ma contemperare insieme l’una e l’altra attività. Bisogna imitare le api che suggono il nettare per assimilarlo e secernere il miele. Tutto ciò che non è assimilato può restare nella memoria, non nello spirito (Ad Luc., 84). La sincera e assidua vigilanza su noi stessi, quell’introspezione per cui i più sfuggevoli moti dell’animo vengono colti al loro primo apparire, ci mette in grado di vincere il male prima che esso manifesti la sua forza (De ira, c. 11, 3). Quel che importa è di essere e non di apparire virtuosi.

Seneca ammonisce Lucilio di rifuggire da ogni singolarità, da ogni apparenza che possa attirare la curiosità del volgo. L’ostentazione di vita austera propria dei cinici gli riusciva tremendamente antipatica e insopportabile. Bisogna evitare la trasandatezza nel vestire, il portare i capelli lunghi, la barba incolta, il conclamare l’odio al denaro, il dormire per terra. È l’interno quel che conta: l’esterno non deve urtare il popolo. Non splendore di vesti, ma neppure sordidezza. Facciamo in modo di seguire una condotta migliore, ma non contraria a quella del volgo. Nostro proposito è di vivere secondo natura. Ed è contro natura tormentare il proprio corpo, odiare la più semplice pulizia, desiderare lo squallore, cibarsi non tanto di vivande semplici, ma di disgustose e ripugnanti. Se la brama di cose delicate è lussuria, fuggire le cose comuni e consuete è pazzia (Ad Luc., 5, 1-5). Dovunque noi siamo, possiamo attendere alla nostra elevazione spirituale: «da ogni angolo della terra è lecito slanciarsi verso il cielo» (Ad Luc., 31, 11).

È questione di buona volontà. Bisogna balzare in piedi e plasmare se stesso in modo degno di Dio. Per Seneca il problema morale è un problema di energia volitiva. Nell’intimo dell’anima bisogna creare una forza personale contro le forze naturali e sociali che ci premono o ci urtano da ogni parte. Per questo in patria o in esilio, in città o in campagna, si può sempre lavorare. Dall’esilio della Corsica, Seneca scriveva alla madre: «Finché mi sia concesso tener sempre nell’alto quest’anima mia che tende alla contemplazione del suo mondo, non m’importa del fango che calpesto» (Ad Helviam, IX, 1-2). E nell’ultimo tempo della sua vita, in quelle lettere a Lucilio che possono essere considerate come l’espressione più matura del suo pensiero morale e quasi il suo testamento spirituale, scrive: «Viaggi e mutazioni di luogo a nulla giovano. Animam debes mutare, non coelum!» (Ad Luc., 28, 1).

Seneca avvertì l’impegno, la vocazione alla guida, ma invece di concludere per un Seneca che sa insegnare e poi si comporta come può, noi preferiamo l’immagine di un Seneca che per allievo ha innanzi tutto se stesso, in uno sdoppiamento frequente ed inevitabile nelle cose dello spirito, per cui ogni predica, ogni incitamento, ogni suggerimento, è fatto prima a se stessi, e poi agli altri. «Mi sono ritirato, o Lucilio, non solo dagli uomini, ma anche dalle cose e anzitutto dalle mie cose: sto trattando gli affari dei posteri. Scrivo cose che possano giovare a loro: affido alla carta salutari ammonimenti, come preparati di utili medicamenti, dopo averne sperimentata l’efficacia sulle mie piaghe; le quali se non sono del tutto guarite, non si estendono più» (Ad Luc., 8, 2). «E non è detto che il nostro io abbia le malattie meno gravi o sia il più facile alla persuasione, il più docile al sacrificio, il più pronto all’eroismo» (Giuseppe Scarpat, La lettera 65 di Seneca, Paideia, Brescia1965, pp. 38-39).

Senza dubbio manca a Seneca quell’attrattiva sublime e inconfondibile che agli scrittori cristiani viene dal contenuto stesso del loro messaggio, la cui essenza positivamente religiosa trascende l’orizzonte del grande spagnolo, «Seneca ci si mostra sulla via del cristianesimo per la sua filantropia, per la sua concezione di una fratellanza universale dell’uomo, per la sua deplorazione del malcostume e della sensualità volgare, e per altri tratti della sua etica: ma ciò non toglie che da san Paolo lo separi un abisso. Tra gli autori pagani, a ogni modo, egli è certamente da collocare, anche per le idee, in un luogo particolarmente elevato» (Raffaello Del Re, Introduzione alle operette morali di Seneca, Zanichelli, Bologna1971, vol. I, p. XXIV).

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Marco Fabio Quintiliano (35-96 d.C.), spagnolo di Calagurris, figlio di un maestro di retorica, a Roma discepolo di Domizio Afro, dovette essere grande e nobile patrono, se Marziale lo chiama «gloria della toga romana»; ma più ancora che a questa attività e agli onori pubblici di cui fu insignito, Quintiliano deve la sua fama alla sua attività di insegnante7 e alla sola, ma vasta e importante, opera giunta fino a noi, l’Institutio oratoria (La formazione dell’oratore), scritta negli ultimi anni quando era ormai libero dall’insegnamento, che aveva professato per vent’anni consecutivi, a partire dal 69, per incarico dell’imperatore Vespasiano, con uno stipendio di Stato di centomila sesterzi annui. A Quintiliano mancò, senza dubbio, la consapevolezza delle ragioni politiche che concorrevano alla deprecata decadenza della retorica nel suo tempo: retorica dilettantistica e accademica, cavillosa e declamatoria, anche perché la progressiva perdita della libertà uccide l’oratoria politica e l’affermarsi dell’apparato burocratico nell’amministrazione soffoca l’eloquenza forense. Ma Quintiliano è grande per i suoi contributi in campo pedagogico, per la sua riflessione critica, ordinata e acuta, su un’esperienza diretta e per tanti aspetti esemplare, per cui egli può dire onestamente: «io non insegno agli altri, se non quello di cui sono convinto» (III, 6, n. 65). L’Institutio oratoria traccia un piano di educazione e di cultura che s’inizia con l’infanzia e procede fino alla formazione del perfetto oratore; nella sua opera Quintiliano oltrepassa di continuo il compito di tracciare la didattica specifica dell’oratoria per affrontare i problemi pedagogici fondamentali e mettere in luce le condizioni e i metodi che favoriscono o ostacolano il processo educativo. L’istruzione, per Quintiliano, deve cominciare per tempo. La disposizione a imparare è naturale al figlio dell’uomo come il volo per gli uccelli o la corsa per il cavallo. Gli ingegni sono ineguali, ma non c’è nessuno che con lo studio e l’impegno non possa conseguire qualche risultato. Manca più spesso non la natura, ma la sollecitudine educativa (I, 1, nn. 1-3). Occorre vigilare sull’efficacia educativa del primo ambiente del fanciullo, quello della famiglia e dei suoi compagni di gioco e di scuola. Un malvezzo contratto negli anni più teneri rimane attorno all’animo anche nell’età adulta: «un bambino è come la lana che difficilmente lascia il primo colore che le si dà». Così, a esempio, certi difetti di pronuncia difficilmente si perdono, se non si correggono dai primi anni (I, 1, nn. 4-5). L’ingegno umano è «agilis et velox», aperto a molteplici interessi, ma assai difficilmente persevera in un’unica occupazione, senza lo stimolo e la guida dell’educatore. Occorre esercitare l’intelligenza senza affaticarla eccessivamente; per questo è opportuno far seguire allo studio brevi pause e alternare una disciplina all’altra. Giochi, gare, premi sono espedienti didattici utili se aiutano il fanciullo a non nutrire avversione per lo studio. Soprattutto nella prima età l’apprendere sia giocoso; occorre imparare senza provare fastidio dello studio, interessando la sensibilità del bambino, il suo desiderio di essere valorizzato, premiato (I, 1, nn. 20-24). Nell’insegnamento del leggere e dello scrivere, i fanciulli prima «formas discant (conoscono le forme)», poi conoscano «litterarum nomina et contextum (i nomi delle lettere e il contesto)». Bisogna risalire dalla figura delle lettere al nome e non viceversa, né abbandonarsi a una successione appresa mnemonicamente (per questo sarà bene variarne l’ordine); i fanciulli possono appropriarsi delle lettere dell’alfabeto giocando a comporre parole con lettere di avorio. Quintiliano insiste sulla necessità di scrivere bene e velocemente, perché lo scrivere stentatamente arresta la vivacità dell’intelligenza («ipsum tardior stilus cogitationem moratur»). Un’esecuzione ritardata disperde l’onda incalzante d’un pensiero o d’un sentimento (I, 1, nn. 24-37). Per leggere bene, la condizione prima è comprendere quello che si legge. Non si devono permettere né modulazioni effeminate, né accenti teatrali o cantilene. Pause a tempo e senso, intonazione appropriata e naturalezza, ecco quel che ci vuole. Non si devono leggere solo cose letterariamente belle, ma anche ciò che è moralmente elevato, capace cioè di nutrire lo spirito e sviluppare il carattere (I, 8, nn. 1-4, 8, 17). Chi legge deve abituarsi a padroneggiare quegli atteggiamenti sconvenienti che tradiscono imbarazzo e disagio, come il tenere gli occhi a terra, il contorcere le labbra, eccetera. Scrivere, comporre è un esercizio utilissimo perché ci impone uno sforzo di coordinamento, di controllo, di ripensamento personale di quanto abbiamo appreso. Non si deve «far selva», cioè buttar giù tutto alla rinfusa, né lasciarsi andare a scrivere «verba in labris nascentia», che non vengono da un’intima convinzione. Anche qui occorre non aver fretta e lavorare a scrivere bene. Nel momento produttivo del pensiero, quello che scriviamo ci piace («omnia enim nostra dum nascuntur placent»), ma bisogna cautelarsi con una revisione attenta, a mente serena. Le riserve di Quintiliano sul dettare appunti (non sul dettato come strumento di verifica della correttezza ortografica e di arricchimento lessicale) sono tutte da sottoscrivere: chi è impegnato a scrivere sotto dettato non si preoccupa di comprendere, chi detta deve concentrare il suo pensiero in frasi brevi che spesso risultano poco chiare, il docente rischia di scadere nel dogmatismo delle formulette e il discente nel pappagallismo. E poi è innegabile che il fascino d’una vera lezione svanisce: «secretum in dictando perit» (X, 3, nn. 2-22).

Chi studia o scrive desidera silenzio e solitudine, ma è bene che impari pure a lavorare in condizioni meno favorevoli, a non fare lo stizzito per un nonnulla. La concentrazione bisogna procurarsela, ma con una disciplina che non presti orecchio alle molteplici occasioni dispersive. Il silenzio non è il vagabondaggio della fantasia. Allo studio dobbiamo riservare le ore migliori, quelle in cui ci sentiamo liberi da altre cure, «freschi e rinfrancati» («integri ac refecti», X, 3, nn. 22-30).

«Pars studiorum longe utilissima est emendatio (la parte di gran lunga più utile agli studi è la correzione degli scritti)». Si corregge per aggiungere, togliere, cambiare. L’esagerato, il superfluo, il ricercato va tolto senza indulgenza per il nostro amor proprio. Dare connessione logica e unità anche di stile a quanto è stato scritto è opera impegnativa, ma di grande efficacia per la maturazione di chi si esercita in essa. Bisogna anche qui evitare l’errore opposto di chi, chirurgo maldestro, a forza di tagliare, taglia anche ciò che è sano. Sono nati morti quegli scritti «fatti a pezzetti e senza vigore, e divenuti peggiori per troppa cura». La lima è fatta per forbire, non per consumare («ut opus poliat lima non exterat»). Anche su altri aspetti concreti del fare scuola, Quintiliano ha fatto osservazioni difficilmente contestabili. La correzione degli elaborati, ad esempio, esige delicatezza. L’eccessiva severità deprime, la pedanteria irrita e paralizza. Chi corregge non deve essere contrariato o indispettito, ma usare modi cortesi e graditi, perché lo sforzo del discente di specchiarsi, per così dire, nei propri difetti costa dolore a chi lo compie («Remedia, quae alioqui natura sunt aspera, molli manu leniantur (i rimedi, che altrimenti sono duri per natura, siano mitigati con mano leggera)»). E i rimedi opportuni non mancano: è bene lodare alcune cose o parti dell’elaborato, dar ragione d’una correzione, illustrare e compiere uno spunto offerto dal discente inserendo qualcosa di nostro e così via (II, 4, nn. 10-14).

L’interrogazione è un aspetto non secondario della lezione. Il sapere di essere interrogati impegna i giovani ad approfondire le osservazioni dell’insegnante, a leggere direttamente i testi e a sforzarsi di capirli da soli, a sapersi esprimere e a dar prova del proprio discernimento (II, 5, nn. 13-17).

Come avviare i giovani a fare da sé? Così come fanno gli uccelli coi loro piccoli: prima li imboccano nel nido, poi insegnano a spiccare un breve volo, e, una volta sperimentate le forze, li abbandonano «libero caelo» a se stessi. Una traccia («brevia quaedam vestigia»), uno schema è un aiuto per chi comincia, ma un aiuto di cui bisogna cercare di fare ben presto a meno. Per questo sarà bene alternare il metodo di offrire una traccia e quello di non offrirla affatto, in modo che gli studenti possano progredire «suis viribus sine adminiculo», con le proprie forze e senza alcun appoggio (II, 6, nn. 2-7). All’inizio è comprensibile ed anche opportuno pensare con l’aiuto di quegli autori che ammiriamo, imitandoli; ma non bisogna fermarsi lì. Anche chi non eccelle deve proporsi più di emulare che di imitare i grandi modelli. «Nihil autem crescit sola imitatione (invece nulla cresce con la sola imitazione)»: e questo è vero in ogni campo, dalla pittura alla storia. Chi turpemente si propone l’imitazione o il plagio in quanto tali, finirà inevitabilmente col fare la caricatura dell’autore idolatrato e col lasciarsene sfuggire il significato profondo (X, 2, nn. 1-21).

L’istruzione deve essere domestica, privata, particolare o in comune? Per rispondere bisogna sgombrare il terreno da una pregiudiziale di ordine morale: dicono che nelle scuole si corrompono i costumi, ma guasta può essere anche la famiglia e il maestro disonesto è tale anche quando va in casa del discepolo. I cattivi esempi e le indulgenze eccessive dei genitori rovinano i figli, favorendone la licenziosità, la presunzione parolaia, l’infiacchimento morale e fisico. Ragazzi di tal genere «soluti ac fluentes», trasandati e cascanti, «non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas adferunt (non apprendono questi mali dalle scuole, ma li portano nelle scuole)». L’ideale è che i fanciulli e i giovani siano istruiti ed educati insieme ai loro coetanei, alla scuola in comune, con un maestro che goda la fiducia dei genitori. Il maestro degrada il suo ufficio a quello di pedagogo se si occupa dell’istruzione di uno solo. Una piccola comunità di allievi impegna il docente a dare il meglio di sé, a parlare con animo e tono ben più elevato, così come aiuta gli allievi a vincere la timidezza pusillanime e la vana presunzione, difetti ambedue fortemente antisociali. L’ambizione è un difetto, ma il confronto con gli altri nella scuola in comune è uno stimolo efficace. I successi scolastici, l’amicizia tra condiscepoli che si traduce in aiuto per chi s’attarda o abbisogna di recupero, il freno alla presunzione che nasce dal confronto con gli altri sono vantaggi reali della scuola in comune. Sono da fuggire perciò non le scuole, ma le scuole sovraffollate, che impediscono ogni serio lavoro ed un rapporto personale ed affettuoso tra discente e docente (I, 2, nn. 1-31). Sulla memoria, a cui Agostino dedicherà il libro X delle Confessioni, si sofferma Quintiliano per valutarne la funzione nell’apprendimento. «Niente come la memoria aumenta, se se ne ha cura, niente d’altra parte si deteriora, se si trascura». Lo sforzo di ricordare obbliga a riflettere, ad assimilare (e a questo titolo è un coefficiente della formazione del carattere morale). La memoria dà vivacità all’intelligenza e, se si è nutrita di elevati pensieri, può chiamarli a raccolta al giusto momento per illuminare e incoraggiare. L’esercizio dovrebbe essere quotidiano, perché è disdicevole per chi parla in pubblico «ad libellum respicere», riguardare di continuo lo scritto. Non è che si debba saper tutto a memoria, ma procederà sicuro nella lezione o nel tribunale o in un’assemblea chi, fissata bene nella mente la sostanza di un argomento, si abbandona poi all’improvvisazione. Nell’imparare a memoria una cosa occorre esercitare più sensi se si vuole ritenerla più facilmente. È bene pertanto leggere ad alta voce quello che si vuol ritenere in modo che la memoria sia aiutata dal duplice congiunto movimento del dire e dell’udire. Quintiliano tenta anche la spiegazione d’un fatto «mirabile a dirsi»: la notte finisce con l’imprimere bene nella memoria ciò che si è studiato durante il giorno. Perché? Forse perché cessa quella tensione eccessiva che, affaticando la mente, era di ostacolo a una perfetta assimilazione (XI, 2, nn. 40-49 e nn. 1-10, 17-37, 39).

Quintiliano raccomanda nel modo più vivo di studiare l’animo del discente con delicata attenzione. Per badare a tutti con successo, è necessario limitare il numero degli scolari, ognuno dei quali ha interessi diversi, qualità diverse. È compito del precettore rilevare la differenza degli impegni e dei temperamenti: v’è in ciò un’incredibile varietà e le forme degli animi sono appena meno numerose di quelle dei corpi (II, 8, n. 1). Dosare bene gioco e lavoro, senza sovraccarico e senza lasciar insinuare l’abitudine all’ozio, fa sì che i fanciulli si sentano capiti e si manifestino anche con serena immediatezza. La sensibilità educativa di Quintiliano condanna apertamente le illusioni e i danni del precocismo: spesso colui che fu o apparve molto precoce, non giunge a dare frutti maturi e somiglia a certe erbe che biondeggiano con le loro spighe vuote (I, 3, n. 5). Invece non v’è età – osserva Quintiliano – così debole in cui non si apprenda «quid rectum pravumque sit (cosa sia bene o male)». La denuncia della dilagante eppure legalissima, brutale usanza di battere con verga e staffile i ragazzi è vigorosa e sentita. È segno di impotenza, di viltà e di bassezza d’animo approfittare della debolezza di chi non può difendersi (I, 3, nn. 11-17). D’altra parte, deve far orrore ogni adulazione di chi ha bisogno del nostro aiuto per conquistare la sua umanità; i ragazzi sono distolti, infatti, da ogni serio impegno, se non possono aprir bocca senza esser lodati per tutto ciò che metton fuori («supervacua enim videntur cura ac labor parata quidquid effuderint laude» – II, 2, n. 10). L’educando ha invece bisogno di essere rafforzato in ciò in cui è debole e corretto dove tende a esagerare unilateralmente. L’educazione non solo asseconda le inclinazioni, ma le integra e le armonizza nel modo più degno e più bello.

NOTE

  1. Sul piano della vita pubblica, Roma non ha mai ammesso l’immoralismo machiavellico di tipo spartano. Tutto è dovuto alla salvezza della patria, ma non tutto è permesso: bisogna rispettare la legge della morale, della giustizia e del diritto. Sappiamo, a esempio, di quali minuziose precauzioni fosse circondato il rito della dichiarazione di guerra: i sacerdoti feciali, arrivati alla frontiera del nemico, invocavano gli dei e il buon diritto a testimoni della giustizia della causa romana (Livio, I, 32, 6-14). Non si pretende sostenere che la politica romana sia stata né sempre né per lo più morale, ma in fondo essa cerca il riferimento a qualche valore morale e l’ipocrisia stessa è un omaggio reso a un ideale che pure dovrebbe avere valore di norma.
  2. Il pater familias romano si sforzava di adempiere con profonda coscienza il compito di educatore; quale differenza con la noncuranza o l’incompetenza dei padri greci, come ci sono apparsi nel Lachete di Platone. A questo proposito bisogna rileggere il bel capitolo che Plutarco consacra alla cura usata da Catone il Censore per l’educazione di suo figlio: scrive che sorvegliava da vicino il suo sviluppo, facendogli da maestro in tutte le materie di insegnamento, e sottolinea con quale gravità e quale rispetto per il fanciullo si svolgeva questa educazione. «Maxima debetur puero reverentia (si deve al fanciullo il più gran rispetto)» ripeterà a sua volta Giovenale (XIV, 47). Cogliamo qui uno dei tratti fondamentali della tradizione romana. Certamente il vecchio Catone è un reazionario e il suo comportamento non è privo di una certa esagerazione pubblicitaria; ma questo magnifico zelo per l’educazione del figlio, «del quale desiderava fare un capolavoro, formandolo e componendolo sullo stampo della perfetta virtù» (Plutarco, Cato maior, 20-42), si ritrova ugualmente in molti altri padri di famiglia romani, a cominciare dal suo contemporaneo Paolo Emilio, le cui tendenze filelleniche ne fanno come il rappresentante dell’educazione «moderna» di fronte al tradizionale Catone. La stessa preoccupazione è in Cicerone, che sorveglia l’educazione del figlio e dei nipoti (Cicerone, Epistulae ad Atticum, VIII, 4, 1), e in Augusto (Svetonio, De vita Caesarum, II, 64, 5).
  3. «Naturalmente l’amore della gloria non è estraneo all’anima romana, ma l’impresa per essa non ha mai il carattere di un gesto individuale; è sempre strettamente subordinata, come al suo fine, al bene e alla salute pubblica. L’eroe romano, si chiami Orazio Coclite, Camillo, Menenio Agrippa o Ottaviano Augusto, è l’uomo che, in circostanze difficili, con il suo coraggio o la sua saggezza, ha salvato la patria in pericolo. Siamo lontani dall’eroe omerico, dall’estro piuttosto folle, come per esempio Achille, questo disertore che con il suo broncio porta l’esercito acheo sull’orlo della rovina, e che non ritorna al combattimento se non per vendicare un lutto personale, la morte di un suo amico» (Henri-Irénée Marrou, op. cit., p. 314).
  4. I libri eruditi di Varrone erano consultati per discussioni scientifiche; gli scritti ciceroniani divennero patrimonio delle persone colte, alle quali trasmisero una conoscenza non soltanto superficiale della filosofia greca. «Sul cristianesimo latino non vi fu forza, accanto alla Bibbia, che abbia influito più efficacemente di Cicerone, né più durevolmente abbia indotto allo sforzo del confronto interiore. Per Agostino l’Hortensius fu stimolo a una conversione radicale, e quando sant’Ambrogio volle scrivere un’etica cristiana per il clero, non trovò di meglio che rifondere cristianamente l’opera sui doveri di Cicerone. A partire dall’età carolingia gli scritti filosofici di Cicerone trasmisero anche al medioevo l’eredità del mondo antico, contribuirono poi a ispirare l’ideale umano del rinascimento, e sempre fornirono le armi alla lotta di liberazione degli spiriti. Essi sono un elemento ineliminabile della cultura occidentale. Il neo-umanesimo e la riscoperta di Platone posero naturalmente Cicerone nell’ombra. Ma se Federico il Grande definì il De officiis «le meilleur ouvrage de morale qu’on ait écrit et qu’on écrira» e ne apprezzava il valore pedagogico a tal segno da promuoverne la traduzione in tedesco, giova chiedersi se non giacciano sopite in quest’opera energie che possano avere ancor oggi funzione vitale» (Max Pohlenz, L’ideale di vita attiva secondo Panezio nel De officiis di Cicerone, Paideia, Brescia 1970, p. 17).
  5. Per i romani la formazione armonica dell’uomo nella sua totalità era stata, fino allora, ben lontana dai loro intenti. Non ancora si era coniata la parola humanitas, ma humanus fu l’attributo onorifico che si diede a chi sapeva elevarsi al di sopra della durezza contadina della generazione precedente. Come per i greci, questo nuovo ‘uomo’ si contrappone in certa misura – naturalmente in modo inconsapevole – al ‘cittadino’ dell’età anteriore. L’humanitas ciceroniana ha intonazione diversa dalla virtus romana, designa più l’atteggiamento umano della vita privata, la civiltà dei rapporti sociali, per lontano ch’essa rimanga da ogni mollezza.
  6. Seneca disprezza ogni apparato sistematico come ogni sottigliezza, ogni «curiositas vana, inanis, illicita», qualsiasi «verborum cavillatio» che porta non solo a perdere tempo prezioso, ma anche a imparare tante cose inutili («supervacua»). La «nimia subtilitas» (Ad Luc., 88, 43) è un’arma troppo sottile per essere utile: è inutile per migliorare i costumi ed è anzitutto strumento inservibile per raggiungere la verità, anzi essa è decisamente contraria alla verità, perché è fine a se stessa. Per la verità bisogna combattere con più semplicità. Si deve usare la logica, ma aborrire i tranelli, i giochetti logici, il verbalismo. Per Seneca filosofare significa apprendere a vivere virtuosamente, è «studium virtutis per ipsam virtutem», cioè mediante la pratica della virtù (Ad Luc., 89, 7); «facere docet philosophia, non dicere (la filosofia insegna a fare non a parlare)». La saggezza esige il dominio di sé, non l’impossibile impassibilità, perché d’impassibile non c’è che il morto.
  7. «Io mi figuro Quintiliano su la cattedra; ha il fare bonario di un uomo serio che non vuole, né permette i clamori e l’indisciplina comune al suo tempo. Ma non è arcigno, poiché il suo atteggiamento è paterno e gli scolari debbono essere i figli del suo spirito. Ama che siano vivaci, che siano stimolati dall’emulazione, li corregge senza asprezza e risentimento, li incoraggia e non li umilia degli errori che fanno. Nel farsi amare c’è il segreto per ottenere tutto, e la sferza sia bandita. Li vuole conoscere a uno a uno per assecondare le parti buone, per reprimere ogni eccesso; li vuole tra loro collegati per amicizia, poiché sa che sui banchi della scuola si contrae con i compagni una quasi parentela che ha del sacro. Quello che poi immensamente gli preme è la virtù; e dice chiaramente che l’istruzione sarebbe il nostro malanno, se ci guastasse e se dovesse poi servirci come arma micidiale per gli altri. Non si abbandona mai al capriccio o al caso, ed il suo metodo graduale non soffre salti o lacune. È costante senza esigere troppo, tollera la fatica e non dà a vedere che gli scolari gli sono di noia. L’elogio lo misura con saggia discrezione; non lo vuole scarso, perché piuttosto irrita, non lo vuole esagerato, perché allora rende presuntuosi. Si presta volentieri e con piacere nel rispondere alle domande, e qualche volta le provoca lui, se vede dei timidi. Nelle lettura che fa degli storici si esalta senza fanatismi dinanzi alle azioni oneste ed eroiche; sicché i giovani si sentano spronati a imitarle; e dove ha da biasimare lo fa senza grosse parole. Bada bene a non leggere pagine scabrose o che possano offendere minimamente il buon costume. Non vuole il linguaggio antiquato, ma quello di buon uso, e dove si ha da prendere la consuetudine come norma, osserva bene che per consuetudini si ha da intendere l’uso dei migliori, non l’uso della plebaglia. Abituato all’ordine, alla chiarezza, alla misura mira a formare il senso della correttezza e della convenienza, perché si abbia la dignità e non la caricatura. Conosce nel ben pettinato e pingue maestro ille pexus pinguisque doctor il tipo del pedante. E non sdegna allora di richiamare qualche ricordo delle sue letture: “Ho letto in Tito Livio che eravi un maestro che raccomandava ai suoi scolari di rendere oscuro tutto ciò che dicessero, raccomandando la cosa imperativamente; da qui, continua argutamente, quell’ammirabile forma di elogio: è tanto bello! neppur io l’ho capito: tanto melior: ne ego quidem intellexi”. Sa di un’altra pedanteria che è in uso tra i dotti, quella cioè di non volere, non si capisce per quale maligna emulazione, servirsi delle definizioni date prima da altri, per l’ambizione di darne una loro, portando semplicemente la variazione nelle parole; mentre quando s’è già trovato ciò che v’ha di meglio, il cercare altro è un voler trovar peggio: cum reperto quod est optimum, qui quaerit aliud, peius velit. Tuttavia egli non si lega interamente alle regole che sono di carattere generale, né si ritiene impedito di dire il suo sentimento dopo di avere esposto quello dei grandi scrittori, “poiché, non mi sono – come egli afferma – attaccato superstiziosamente alla setta di alcuno: neque enim me cuiusquam sectae, velut quadam superstione imbutus addixi”. E quell’indipendenza che rivendica per sé, la rivendica pure per gli scolari, i quali non debbono credere di essere abbastanza istruiti, se artis libellum edidicerint, e di potersene stare tranquilli attenendosi per così dire ai decreti dei tecnici». (Domenico Bassi, Quintiliano maestro, Le Monnier, Firenze 19332, pp. XXVI-XXVIII).

Nota finale. I materiali riportati provengono dalle bozze di una storia del pensiero pedagogico battuta a macchina e divisa in capitoletti, che si interrompe al capitolo X: «Il realismo pedagogico dell’età moderna». I testi sono stati scritti dal prof. Matteo Perrini in data non precisata, probabilmente negli anni Ottanta del Novecento. Il capitolo qui riportato è il terzo. Il curatore Filippo Perrini è intervenuto in minima parte, modificando frasi con terminologie desuete e verificando, per quanto possibile, le citazioni. Un ringraziamento va al prof. Gian Enrico Manzoni che ha rivisto la traduzione di alcune citazioni in latino.