L’eredità della Bibbia da Dante e Leopardi

Corriere della Sera, 1 ottobre 2013

«I cattolici hanno un grande rispetto per il Libro sacro, perciò se ne tengono a debita distanza», ebbe a dire uno scrittore francese, Paul Claudel, che peraltro era cattolico. E se a un editore odierno arrivasse il corposo manoscritto della Bibbia, cosa direbbe il suo consulente? «Occorre sfrondarla drasticamente, ma c’è abbastanza sangue e sesso per farne un best-seller» (l’osservazione spiritosa è di Umberto Eco). Le due battute toccano con mano leggera due problemi seri e due condizioni della nostra cultura: la scarsa conoscenza della Bibbia e il suo notevole peso letterario, sia come valore intrinseco sia come fonte cui si sono alimentati per due millenni lettori e scrittori. La rimozione del «grande codice» della cultura occidentale, per usare la formula di Northorp Frye giustamente fortunata, non rappresenta solo una perdita di erudizione o una violazione della storia libresca della cultura: la conoscenza e coscienza della radice giudaico-cristiana, fondativa della nostra civiltà, non meno forte di quella classica e razionalista, renderebbe forse meno smarrita l’identità dell’Europa di oggi, meno scandalosa l’indifferenza per le persecuzioni subite dagli ebrei e dai cristiani ieri e oggi, e fors’anche meno desolante il degrado morale e intellettuale dell’Italia odierna. Ma la forza della verità finisce per riportare a galla quanto si è cercato di affondare e mettere in ombra.

In cosa consiste l’ombra, nel campo ristretto della storiografia letteraria di casa nostra? Nel negare o minimizzare il retaggio biblico dei nostri autori oppure nel chiuderlo entro il ghetto del genere «letteratura religiosa» in senso stretto: vite di santi, prediche, testi edificanti e trattati teologici. Salvo poi considerare questo genere sostanzialmente estinto con il tramonto del Medioevo con un colpo di coda del secolo buio della Controriforma. A lungo hanno agito i pregiudizi laicisti delle scuole liberal-massone prima, socio-marxista poi.

Può sopravvivere la nostra letteratura senza quei testi? Proviamo a immaginare di asportare dall’antologia dei nostri grandi scrittori le opere «religiose» in senso stretto: via Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi, via i due santi senesi Bernardino e Caterina, via il teatro gesuita barocco e il Saul di Alfieri, via gli Inni sacri di Manzoni… Il corpo della letteratura italiana potrebbe forse sopravvivere anche se monco per queste amputazioni. Ma proviamo a seguire l’altra via, quella cioè di levare dal corpo dei nostri capolavori, quelli di forte ispirazione religiosa o in ogni caso intrisi di echi biblici; salterebbero non solo il poema di Dante, la Gerusalemme di Tasso, o i Promessi sposi di Manzoni, ma anche testi usciti dalla penna di scrittori che poco amavano sacrestie e acquasantiere; il Decameron di Boccaccio, il Principe di Machiavelli, certi Canti di Leopardi. Non semplici mutuazioni, queste, ma ferite mortali agli organi vitali della nostra letteratura, ai suoi veri classici, antichi e moderni, devoti e increduli. Senza quei testi, la nostra splendida letteratura verrebbe declassata in serie B. Soprattutto, la mancata conoscenza del sostrato scritturale vieta o impoverisce la comprensione di testo, di un quadro, di un concerto. La lacuna si va gradualmente colmando. Gli studi sulla eredità biblica delle letterature moderne, da tempo sviluppati nei paesi di tradizione protestante dove il contatto con il Testo sacro fu più stretto che da noi, si vanno da tempo estendendo anche nell’area italiana. Ma l’opera sistematica cui ha messo mano la Morcelliana non ha precedenti, né in Italia né fuori. Si tratta di sei volumi che passano in rassegna le tracce del Libro sacro nostri scrittori dal Medioevo ai giorni nostri: s’intitola La Bibbia nella letteratura italiana e rappresenta l’ideale complemento del Mito nella letteratura italiana, l’altra opera collettiva di mole, che ha tracciato il panorama complessivo delle riprese e reinvenzioni della mitologia greco-latina nei nostri scrittori. L’opera è scandita in quattro volumi che passano in rassegna il riuso della Bibbia dagli autori medievali ai contemporanei, più due che seguono invece la fortuna di figure e temi vetero e neo-testamentali. Sono usciti finora quattro volumi, mentre sono in preparazione gli ultimi due (quello sul Sei-Settecento e quello sui Vangeli). Un’opera così impegnativa riesce solo se gli ideatori (Raffaella Bertazzoli e il sottoscritto), trovano un editore coraggioso e decine di generosi collaboratori, di diversa età e di diversi atenei, italiani e stranieri. Ma l’opera può ben dirsi bresciana, non solo perché l’editore e il curatore sentono quotidianamente i rintocchi della campana di Tone e Batista, ma perché una schiera di studiosi di casa nostra vi hanno profuso energie: Rosaria Antonioli, Maria Belponer, Donatella Fedele, Ennio Ferraglio, Ottavio Ghidini, Alessandra Giappi, Franca Grisoni, Elena Maiolini, Massimo Migliorati, Elisabetta Selmi. L’eco nazionale ed estera è stato finora unanime nell’apprezzamento. Ricordando l’elegante aforisma di san Gregorio Magno («Scriptura sacra cum legentibus crescit, legentes crescunt cum Scriptura sacra»), mi sembra che il pregio di quest’opera, che indaga il lievito sacro dei testi profani, stia nel far crescere chi la legge e chi la scrive.