L’età della pensione e la saggezza antica

Anche gli antichi Romani desideravano tanto l’età della pensione? A leggere Plinio il Giovane sembrerebbe proprio di sì. Plinio è avvocato, senatore, consolare, proprietario terriero: é «tirato da tutte le parti» (com’egli dice) da mille occupazioni, processi politici e privati, sedute in Senato, consulti dell’imperatore, noie amministrative, problemi economici (di cui é esperto) altrui, gestione delle proprietà di famiglia sparse per tutta la Penisola. Affronta tutte queste incombenze con senso del dovere civico, da antico romano e da manager settentrionale, ma crede che la sua vocazione vera sia la letteratura. Per questo aspetta con ansia l’età in cui potrà ritirarsi dignitosamente dagli affari e dedicarsi agli studi prediletti. Intanto se ne procura qualche anticipazione sfruttando i “ponti” festivi nelle sue ville e pregusta la felicità di quel vivere libero, descrivendo la giornata di pensionati gloriosi, che egli invidia. Il ritratto tipico é quello di Vestricio Spurinna, che era stato console e generale, ed aveva riportato in Germania una vittoria tale, che gli aveva meritato il trionfo. La sua giornata da pensionato è scandita secondo un ritmo regolarissimo. La mattina la passa su quella specie di divano, che serviva per leggere e studiare, ma con intervalli igienici. È ancora presto (l’ora cambia secondo le stagioni) quando va a passeggiare per tre miglia. Passeggiando conversa di cose serie con gli amici o si fa leggere un libro. Tornato a sedersi, si alza di nuovo per fare sette miglia in carrozza con la moglie o con un amico ma, prima di rientrare a leggere o a comporre (scrive anche poesie), fa ancora un miglio a piedi. A mezza giornata il bagno, poi l’esposizione al sole ed infine il pallone. Questo gioco, osserva Plinio, combatte la vecchiaia (era un suggerimento di Galeno). Prima dell’ora di cena (che Spurinna ritarda un po’, nonostante che questo appaia l’unico pasto importante nelle ventiquattr’ ore) ancora il divano. La cena è curata ma sobria, accompagnata da letture questa volta piacevoli e magari da comici, e si prolunga fino a notte senza che gli invitati se ne accorgano, tanto è gradevole questo stare insieme. Con un tale tenor di vita Vestricio Spurinna è arrivato alla bella età di settantasette anni in perfetta efficienza fisica e mentale. Plinio approva questa vita da pensionato, così intelligente ed equilibrata, e la augura anche a se stesso (per ironia della sorte, morirà invece mentre è impegnato nel suo incarico più gravoso, il governo della Bitinia). Non avrebbe invece approvato il comportamento di Lucullo, che ai tempi di Cicerone era stato proconsole in Asia e aveva governato tre province insieme e condotto per anni con la massima severità una durissima guerra contro Mitridate; ma, ritiratosi dagli affari pubblici, si era abbandonato a quella vita dispendiosa di piaceri (consentitagli dalle enormi ricchezze accumulate durante la carriera politica e militare), per la quale è rimasto famoso ed addirittura proverbiale. Di parere diverso da Plinio è il suo ex maestro Quintiliano, il quale sa bene che ad un certo punto l’avvocato deve ritirarsi soprattutto per ragioni fisiche. Al suo tempo, senza microfoni, gli oratori (ed i cantanti!) avevano bisogno di «salute, voce e polmoni», com’egli si esprime. Ma il ritiro dai tribunali non deve significare inattività o rifugio nel privato. L’avvocato in pensione può dedicarsi a scrivere di storia (che allora aveva valenza politica e pedagogica) o prestare consulenza giuridica o comporre opere di retorica (la disciplina di sua competenza); ottima cosa sarebbe per lui circondarsi di giovani, per condurre con loro una scuola privata e gratuita di perfezionamento: è onorevole, egli osserva, insegnare quello che si sa (anche allora l’insegnamento non doveva godere di troppo prestigio sociale). Una scuola di questo tipo è, ricorda lo stesso Quintiliano, quella dell’uso antico. Ma proprio lui era stato stipendiato dall’imperatore e probabilmente poteva vivere la pensione senza preoccupazioni economiche, dedicandosi alla composizione della sua grande opera retorica. Sorte quasi uguale era toccata al tempo di Augusto al grammatico Verrio Flacco, che per la sua fama era stato chiamato a Palazzo con la paga annua di centomila sesterzi, per istruire i nipoti dell’imperatore, ma con la clausola che non avrebbe più accolto alunni privati. Svetonio, che ci fornisce questa informazione, non dice come Verrio passasse il suo tempo una volta esaurita la mansione ufficiale, ma si può immaginare che stesse almeno economicamente bene. Non la stessa sorte toccò ad altri colleghi prima e dopo di lui; ad essi non fu neanche possibile mettersi in pensione. Celebri sono i casi di personaggi indirettamente famosi, come il maestro di Orazio, Orbilio, che aveva guadagnato più fama che soldi e finì povero in una soffitta, o Valerio Catone, il caposcuola dei neoteroi, che era costretto ad abitare in una baracca. Sappiamo anche di Opio Carete, obbligato ad insegnare fino a tarda età, quando non era neanche più in grado di camminare e di vedere. Pompilio Andronico che si era dedicato più allo studio che all’insegnamento (anche perché non sapeva tenere la disciplina), si ridusse a vendere, per sopravvivere, un suo ponderoso libro di ricerche sugli Annali di Ennio (e meno male che trovò un compratore!). Queste ultime informazioni aprono uno spiraglio sul modo di vivere l’età della pensione nelle classi inferiori, delle quali abbiamo poche notizie. È presumibile però che, in assenza di un qualsiasi embrione di previdenza sociale per loro (altro sarà per i giovani), la condizione dei vecchi espulsi dal mercato del lavoro fosse tutt’altro che buona, se non vivevano all’interno di una famiglia bene organizzata. Così vanno a confondersi con la massa dei diseredati di ogni sorta, sui quali spesso si colgono accenni nei poeti satirici (che sono realistici) e negli storici. Già nel quinto secolo a.C. l’ex console Tito Larcio lamentava che in Roma convivessero due città diverse, una delle quali dominata dalla povertà e dalla necessità. Molto più tardi Sallustio denuncerà il fatto che, mentre i padri combattevano in guerra per l’arricchimento dei capi, le loro famiglie venivano cacciate dal podere rimasto incolto, con le conseguenze facilmente immaginabili. Non era sempre così per i veterani, i quali spesso attraverso il servizio militare miglioravano la loro condizione economica e sociale. Notissimo è il fatto dell’assegnazione a loro delle terre confiscate, una sorta di buonuscita in natura. Della quale peraltro non tutti sapevano approfittare con saggezza, perché non è facile abituarsi al duro lavoro dei campi. Meri, nella nona Bucolica di Virgilio, va a portare i capretti al suo padrone, che è appunto un veterano, ma abita in città, ossia considera la sua proprietà una rendita passiva. Così si perde la moralità del lavoro come fonte del diritto al riposo e subentra l’idea della gratuità di tutto. È significativo a questo proposito l’epigramma 47 del libro decimo di Marziale, che delinea il quadro di una vita serena, quale potrebbe essere la pensione di una condizione medio-bassa: un podere fertile, l’armonia col prossimo, la salute, un tenore di vita sobrio, una mente tranquilla. Ma tutto questo è visto come reso possibile da una condizione economica ereditaria, non dal frutto di una vita di fatiche: res non parta labore.

Giornale di Brescia, 24.1.1999.