L’Europa di fronte al Coronavirus

Tematiche: Europa

Davide Gasparetti: Nella consapevolezza della complessità e ampiezza del tema “L’Europa di fronte al Coronavirus”, credo che la prima domanda possa contenere due temi che fanno da sfondo al dibattito in corso in Europa e che le chiedo di commentare. La prima questione riguarda lo sforzo “per la formazione di una viva coscienza europea”(rif. Romano Guardini), tanto più necessaria per prendere decisioni comuni in momenti di crisi. La seconda questione, evidentemente collegata e conseguente alla precedente, riguarda come si possono prendere decisioni di carattere economico e politico che facciano sentire ai cittadini l’unità e la solidarietà dell’Europa. L’Europa appare divisa da egoismi nazionali, dai tecnicismi della Commissione e dalla burocrazia. Allora, professore, l’Europa sembra senza un vero, profondo, solidale e umano orientamento. È così?

Massimo Bordignon: Dal mio punto di vista il problema è più di carattere istituzionale. Innanzitutto c’è una cosa su cui è bene riflettere, ovvero che i cittadini europei sembrano essere molto più avanti dei propri governi, anche quando si tratta di prendere decisioni su temi che riguardano, ad esempio, la solidarietà. C’è un rapporto che viene pubblicato ogni sei mesi che si chiama ‘eurobarometro’, col quale vengono chieste ai cittadini europei le loro opinioni su che cosa dovrebbe fare l’Europa. Su tutta una serie di temi fondamentali su cui si discute da tempo e su cui si pensa che i Paesi dovrebbero fare uno sforzo maggiore di coordinamento – parlo di cose come il controllo delle frontiere, l’immigrazione, la difesa comune e anche la solidarietà fra Paesi – scoprirà che i cittadini sono generalmente più favorevoli – di quanto non siano i governi. E credo che questo sia uno dei problemi fondamentali: cioè, la ragione per cui è così difficile prendere decisioni in Europa è che le decisioni vengono prese non da un organismo che rappresenta veramente l’Europa e che ha come constituencies proprio i cittadini europei, ma dai rappresentati politici dei Paesi (i primi ministri che siedono nel Consiglio), che sono politici perfettamente legittimati, ma che difendono fondamentalmente le posizioni dei singoli Paesi. Quando poi questi Paesi prendono decisioni sono anche soggetti alle pressioni, ai gruppi di interesse, a organizzazioni interne, a burocrazie, che rendono molto difficile assumere una visione squisitamente europea. Quindi, il primo punto è che i cittadini sono avanti ai propri governi; il secondo è che, ovviamente, abbiamo dei problemi particolari in Europa, anche nel riuscire ad arrivare a prendere delle decisioni condivise o comuni, che derivano dal fatto che bisogna costruire un demos a livello europeo. Uno dei problemi è per esempio quello della lingua diversa, per cui anche tutto il dibattito mantiene caratteristiche interne nazionali, rendendo difficile avere visioni che travalicano i temi nazionali. Come si costruisce il demos europeo? Come si fanno passi avanti rispetto a questa situazione? Io penso che l’unica soluzione sia riportare il dibattito politico a livello europeo: invece che avere la Commissione a metà fra organismo politico e organismo tecnico, il Parlamento europeo che rappresenta gli interessi dei cittadini, ma che a sua volta ha poteri limitati di intervento, mentre tutte le decisioni vengono prese di fatto dagli Stati Nazionali, dovremmo avere un ribilanciamento di queste decisioni per cui le stesse, anche di carattere politico, in maniera più forte vengono attribuite all’Europa. In termini economici vuol dire, ad esempio, fare davvero un bilancio europeo: per esempio, di fronte ad un’emergenza, poter decidere direttamente e senza mediazioni se spendere delle risorse immediatamente piuttosto che aspettare di raggiungere compromessi. Noi in Europa abbiamo questa difficoltà al momento: c’è una divisione fra quelli che vogliono difendere le policy e le politics. Le policy, cioè le decisioni di politica, vengono prese sempre più spesso a Bruxelles tramite i meccanismi di interazione tra Commissione, Parlamento, Consiglio, mentre le politics sono rimaste molto nazionali: andiamo a votare dei partiti che discutono molto con riferimento a temi nazionali. Questo problema può creare disorientamento tra le persone o problemi di legittimità nei confronti dell’Europa, ma penso che la soluzione non sia quella di ritornare allo Stato nazionale o di riportare anche le policy a livello nazionale. Penso che la soluzione sia quella di portare le politics a livello europeo, cioè avere una decisione franca politica, con partiti europei che difendono posizioni diverse democraticamente con i cittadini. È questo il modo di creare il demos, piuttosto che aspettare che gradualmente tutti siamo in grado di parlare una lingua comune, di intenderci o di superare i vincoli legati alla frantumazione dei sistemi nazionali. Quindi sì, c’è il problema di mettere insieme 500milioni di persone che parlano lingue diverse, ma la soluzione c’è ed è superare questi assetti istituzionali che continuiamo a portarci dietro, che rendono l’azione dell’Europa meno incisiva e che danno l’impressione di una disorganizzazione, di una mancanza di solidarietà.

Davide Gasparetti: Veniamo ora ad un tema tecnico, ma di grande impatto sull’opinione e la vita dei cittadini europei. Un tema che si può sintetizzare in una sola parola “debito”. Il debito ha un grande impatto sull’opinione e la vita dei cittadini europei. La crisi da Coronavirus richiede un’importante risposta fiscale. Come si può finanziare un tale sforzo senza peggiorare le condizioni dei Paesi dell’area euro già fragili prima della crisi, e in particolare, quindi,l’Italia? Ci sono diverse opzioni, ma quali possono essere accettate sul piano politico? E queste opzioni saranno, purtroppo, a carico ancora delle giovani generazioni europee?

Massimo Bordignon: Innanzitutto, bisogna considerare che c’è già stata una fortissima reazione europea ed è avvenuta attraverso la BCE, che ha aumentato un programma già in corso di finanziamento, di acquisto di titoli pubblici, residuo del Quantitative Easing lanciato a suo tempo da Draghi, portandolo sostanzialmente a un livello pari a oltre mille miliardi di euro. Prima della crisi, il debito pubblico italiano sul PIL era il 130% (cifra molto elevata che pesa sulle tasche dei cittadini attuali e anche sulle future generazioni). A seguito di questa crisi, probabilmente, quel debito andrà dal 130 al 160%, quindi una cifra elevatissima, insostenibile. Ma la realtà è che, a seguito degli interventi che sono stati fatti in passato, il 20% di questo debito è detenuto dalle Banche Centrali nazionali. Quando la banca nazionale detiene il debito del proprio Paese, quello che succede è che questo debito, di fatto, è puramente nominale. La Banca Centrale detiene i titoli di stato, il governo paga gli interessi su questi titoli alla Banca Centrale, la quale prende questi interessi e li restituisce al tesoro. Quindi, il nostro “vero” debito, quello che sta sul mercato, è il 100% del PIL, o poco più, non il 130. Adesso noi arriveremo a 150, ma il debito che verrà tenuto dalla Banca Centrale, o meglio dal sistema delle banche europee, sarà circa il 30%. Quindi, alla fine, il rapporto debito/PIL non aumenterà, o aumenterà in misura abbastanza limitata. Questo è un grosso vantaggio, ma non è sufficiente: il debito, anche se non esiste, di fatto c’è, viene computato e potenzialmente, se in futuro un’inflazione dovesse ricominciare a crescere, la Banca Centrale sarebbe costretta a ritirare moneta e, quindi, a vendere questi titoli. Bisogna, quindi, fare delle altre azioni: ciò che sarebbe stato ideale fare – e ciò succederebbe se ci fosse un governo centrale o un bilancio centrale del debito – sarebbe stata un’emissione di debito, magari anche una perpetuity (titoli che vengono emessi a lunghissimo periodo) , in forma di eurobond  perché questa è una crisi gigantesca che colpisce l’attuale generazione, ma che deve essere distribuita su più generazioni, perché è come l’equivalente di una guerra in termini di effetti economici e le guerre non le finanzia soltanto la generazione corrente. Questa sarebbe, quindi, la soluzione ideale e, se si potessero emettere delle perpetuities e venissero acquistate dalla Banca Centrale, il Paese non dovrebbe mai ripagare il debito addizionale per fronteggiare la crisi, ma pagherebbe solo degli interessi estremamente bassi. Probabilmente, non arriveremo a questa soluzione. Arriveremo, io credo, a un complesso di soluzioni che vanno un po’ in quella direzione: da una parte ci sarà un ricorso al fondo salva stati (MES) – utile soprattutto a un Paese come il nostro, perché significa che invece di pagare ciò che ancora paghiamo, perché abbiamo uno spread positivo nei confronti degli altri Paesi, pagheremmo sostanzialmente meno – naturalmente con condizionalità che verranno ridotte e arrivando all’unica accettabile, cioè il fatto che, in seguito a un prestito di soldi a tassi di interesse bassi, questi vadano spesi solo per fronteggiare la crisi; dall’altra ci saranno interventi da parte della Banca Europea degli Investimenti (BEI), ci saranno interventi attraverso il bilancio europeo e, in maniera più limitata, ci saranno anche degli eurobond sottoforma dell’emissione di titoli garantiti da tutti i Paesi, per un periodo limitato, che andranno a sostenere i Paesi in questa crisi. L’insieme di tutti questi interventi, che non sono stati ancora presi, ma sono tema di un dibattito in corso, ci consentirà di uscire da questa crisi in condizioni non così peggiori, non con un debito insostenibile, come si potrebbe immaginare. Ma come si può affrontare un debito elevato sul PIL? Come si fa a ridurre il debito? Ci sono due strade: la prima è pagare tassi di interesse bassi, la seconda è avere una crescita economica più elevata. I tassi di interesse saranno tenuti bassi dalla BCE per i motivi già detti, mentre la crescita dipende solamente da noi: ci sono vincoli strutturali in questo Paese, dalla burocrazia alle dimensioni troppo piccole delle imprese, dalla bassa produttività alla scarsa diffusione delle nuove tecnologie, che non si può pensare che li risolva l’Europa. Spero che questa crisi, da questo punto di vista, ci dia una mano (abbiamo imparato, per esempio, che una banda larga accessibile a tutti i cittadini ci serve, e ci serve subito, ecc).

Davide Gasparetti: A questo proposito, vorrei chiederle: al di là delle soluzioni che sono state messe in campo in termini emergenziali, tutti ci stiamo chiedendo come sarà questa uscita dalla crisi determinata dal Coronavirus? In particolare, lei prima citava alcune situazioni italiane che rappresentano criticità. Vorrei aggiungere l’aspetto della buona funzionalità della nostra struttura pubblica: quando vengono prestati dei soldi, ci si aspetta che vengano spesi bene e velocemente. Quindi, un problema di credibilità che il nostro Paese ha è legato proprio a questo aspetto: in questo momento, forse, abbiamo una struttura pubblica disomogenea su tutto il territorio nazionale, non in grado di essere motore di crescita e sviluppo. Inoltre, gli economisti usano spesso due immagini per evidenziare l’uscita da una crisi economica: la forma grafica della lettera V (che significa sia un’entrata sia un’uscita veloce dalla crisi), oppure la lettera grafica U (cioè ingresso in crisi, lunga stagnazione e lenta ripresa). Le crisi che abbiamo avuto nel passato, nella storia dell’economia, fra cui la più recente è quella del 2008, ci possono essere di aiuto per capire come usciremo da questa crisi, oppure no?

Massimo Bordignon: Dalla crisi del 2008 siamo usciti male, con una forma a U, anche per problemi strutturali interni e perché è stato fatto un errore, che spero non venga ripetuto in questo caso: c’è stato un consolidamento troppo rapido. Siamo arrivati a una situazione già preoccupante con scarsa crescita e debito alto e, invece di tagliare la spesa corrente, sono state tagliate, soprattutto, quelle componenti di spesa che più servono alla crescita. Per motivi politici, di fronte ad una situazione di crisi, se bisogna ridurre le spese e rimettere in ordine la fiscalità, piuttosto che tagliare gli stipendi, non si investe più. Ma non investire, alla lunga, significa non permettere al Paese di crescere. Quindi, una cosa sicuramente essenziale è garantire che, anche nel periodo successivo alla crisi, non si facciano gli errori del passato e si sostengano, invece, gli investimenti. È un errore che è stato fatto pesantemente nel nostro Paese, ma anche in tutta Europa: c’è stata una caduta del livello degli investimenti e questa è la ragione per cui l’Europa non sta crescendo o cresce a livelli bassi. L’uscita a V o a U da una crisi dipende da diverse cose: siamo più in grado di uscire a V tanto più siamo in grado di mantenere inalterato il potenziale produttivo dei Paesi. Quindi, quello che stanno facendo i Paesi in questo momento va sostenuto e integrato. Bisogna fare in modo che le imprese non falliscano a causa della crisi. E siccome per le imprese non fallire significa continuare ad avere accesso al credito, pagare gli stipendi, essere sostenute, bisogna mantenere il potenziale produttivo intatto, costi quel che costi. Ricordo un’altra esperienza del 2008: abbiamo perso il 25% della capacità produttiva e non è più tornata. Mi aspetto quindi che questa ripresa sarà più a V del passato perché è legata a un caso particolare che colpisce sia la domanda sia l’offerta, ma, una volta che il problema sarà risolto (trovando un vaccino o con medicinali efficaci), la ripresa dovrebbe essere rapida, più rapida del passato, perché quella che abbiamo avuto nel 2008 è stata una crisi finanziaria molto forte che ha messo in luce una serie di problematiche che sono state, in parte, risolte. Questa crisi, però, avrà degli effetti di lungo periodo perché approfondisce, purtroppo, evidenze che erano già presenti: la globalizzazione, questa fortissima integrazione dei mercati che c’è stata in passato, mi aspetto che sarà meno importante in futuro rispetto al passato. Abbiamo imparato, in questi giorni, che quando ci sono mercati perfettamente integrati, può essere efficiente per un’impresa avere prodotti fatti in Paesi lontani, ma se si blocca il commercio e si bloccano le possibilità di movimento di merci e persone, ci si accorge che l’elemento non arriva e l’impresa si ferma. Quindi, andremo a costruire catene di valore molto più corte, l’integrazione si ridurrà, le pressioni protezionistiche già presenti si accentueranno ancora di più. Perciò, sarà molto più importante che in passato difendere il mercato unico europeo e sostenere la domanda interna europea, perché non ci sarà una domanda esterna che possa sostituirla, come è stato in passato. Bisogna assolutamente la crescita verso più produzione interna e domanda interna rispetto al passato.

Davide Gasparetti: Per concludere, vorrei riportare il nostro colloquio sul piano politico ed istituzionale, ricollegandomi alla prima domanda, dove si sottintende che si possono trovare soluzioni condivise se vi è una presa di coscienza collettiva come Paese insieme all’Europa. Invece, noi in Italia constatiamo che la crisi del coronavirus ha messo in luce la fragilità del sistema istituzionale, aprendo in Italia un conflitto fra regioni e Stato. Le regioni, a 50 anni dalla loro nascita, si sono trovate impreparate a gestire un evento imprevedibile come una pandemia globale. La risposta è stata troppo spesso una conflittualità quasi muscolare, in particolare da parte delle regioni del nord Italia. Davvero pensiamo, in questo modo, di preservare l’unità nazionale? Di avere una credibilità come Paese in sede europea? O pensiamo di risolvere i problemi globali con soluzioni a scala locale? Se a queste domande si ritiene di rispondere no, dobbiamo immaginare per il futuro nuove riforme istituzionali per l’Italia, senza ritorni a derive centraliste o esasperati muscolari localismi?

Massimo Bordignon: Penso che ciò che è successo in questo caso abbia messo in luce che il nostro apparato istituzionale non funziona bene: abbiamo fatto una riforma importante nella direzione del decentramento nel 2001, con l’introduzione del titolo V, ma sono rimasti irrisolti moltissimi temi, fra cui diverse proposte di riforma costituzionale per rivedere l’attribuzione delle competenze alle regioni o per la ricostruzione interna (abbiamo un’area forse troppo vasta di funzioni concorrenti, ci sono confusioni di ruoli,…). Io penso che una qualche revisione sarebbe importante. Non è facile, perché molte proposte vengono respinte dai cittadini, come ad esempio una del 2016 che conteneva una clausola di interesse nazionale che, forse, avrebbe potuto consentire una migliore organizzazione degli interventi anche in questa emergenza ed un rapporto più corretto tra centro e periferia. L’esperienza attuale del Coronavirus, però, mostra che ci sono elementi differenziati che devono essere presi in considerazione: è vero che da un lato c’è stata una pluralità di interventi, una sorta di caos istituzionale (con il governo che inseguiva e cercava di bloccare delle decisioni prese a livello regionale) e che una pandemia, invece, richieda risposte condivise e un comportamento molto più omogeneo sul territorio, ma dall’altro lato alcune delle esperienze più interessanti che sono avvenute e, forse, daranno un vantaggio all’intero Paese per affrontare il virus, sono venute anche da iniziative di tipo locale (penso, per esempio, al caso del Veneto: è chiaro che la regione si è affidata a consulenti di alto livello a livello locale e ha risposto al virus in maniera molto diversa rispetto alla Lombardia o altre regioni). Su questo tipo di esperienze stiamo costruendo adesso anche una risposta a livello nazionale: probabilmente, alcune delle cose che sono state sperimentate localmente verranno adottate in generale da altre regioni, soprattutto nel momento in cui cominceremo a riaprire un pochino l’economia, cioè a consentire di riprendere le produzioni. Quindi, io non arriverei al punto di riportare tutto in mano allo Stato centrale, perché la soluzione centralistica l’abbiamo già sperimentata in passato, non funziona e rischia di essere solo una spinta verso il basso. Un po’ di gradi di autonomia devono essere mantenuti, anche perché uno dei potenziali vantaggi dell’autonomia è quello di trovare risposte più adeguate a livello del territorio e di sperimentare risposte diverse che possano poi essere utilizzate a livello nazionale.

Nota: testo non rivisto dall’Autore.