L’indifferenza nella letteratura italiana del Novecento

Tematiche: Letteratura

Il tema a cui stasera desidero interessarvi è quello dell’indifferenza, vista e studiata attraverso le correnti culturali e letterarie presenti in Italia fra ’800 e ’900, e in particolar modo, naturalmente, nel nostro secolo. Fra le presenze narrative del ’900 alcune si imperniano precisamente sull’indifferenza; perciò rivisiteremo questo tema soprattutto da un punto di vista strettamente letterario: non è quindi una prospettiva morale o di giudizio sociale quella che dovete attendervi da me nel rivisitare questo tema, anche se dalla stessa constatazione letteraria e dalla stessa constatazione storiografica emanano, bon gré-mal gré, delle valutazioni e dei giudizi di indole sociale e di indole spirituale, di indole morale, religiosa o irreligiosa che sia, i quali si riverberano poi di necessità sul significato e sulla portata stessa propriamente letteraria e poetica delle opere da cui questo tema viene svolto.

Naturalmente anche il tema dell’indifferenza non nasce d’emblée nella letteratura italiana: come tutti i temi, o gran parte dei temi e delle tematiche, nasce e si sviluppa con accezioni sufficientemente variate attraverso un corso di decenni, qualche volta addirittura attraverso un corso di secoli. Lo ritroviamo più o meno presente in alcuni punti della tradizione letteraria. Per esempio nel romanzo italiano e straniero del ’700 l’indifferenza si connota come uno degli elementi propulsori del meccanismo interno psicologico dei personaggi, in funzione soprattutto sentimentale, amorosa ed erotica. In questa accezione particolare troviamo qualche presenza anche tra noi. Parini dedica un gruppo di favole al tema dell’amore, e fra gli altri punti allude anche all’indifferenza. Naturalmente è un’indifferenza che non sollecita nessun altro risvolto, se non appunto quello di indole sentimentale e amorosa; entra cioè nel meccanismo della psicologia dell’innamorato e produce, come una reazione dell’altra parte, dolore o raffreddamento reciproco. È evidente cioè che qui l’indifferenza non è che artificio erotico, che Parini riporta, secondo il suo solito, a quel gioco delle passioni che la sua formazione di indole sensistica gli aveva suggerito e che lo aveva indotto a sviluppare.

In filosofia, in lato sensu, come si sa, indifferenza significa per definizione il porsi di fronte ad un oggetto senza che l’anima ne provi o desiderio o repulsione. In ascetica il termine ha una accezione tutta particolare. Nell’ascetica seicentesca significa, per esempio in sant’Ignazio, la rinunzia ad ogni scelta, per rimettersi totalmente nelle mani di Dio. Poi, naturalmente, dal campo ascetico religioso, in cui l’indifferenza assume un significato e un valore positivo, affermativo, in quanto rinunzia dell’uomo di fronte a Dio, passiamo ad altri atteggiamenti. Nel ’700 ci troviamo di fronte alle reazioni della forma mentis del neoclassicismo, che si rivelano anche nel primo Manzoni. Nel Manzoni dei Sermoni, nel Manzoni epicureo, come egli si definisce, quello del carme In morte di Carlo Imbonati, l’indifferenza significa apatia, cioè abbandono al senso della vita senza volontà di resistere al male, pur giudicando il male per quello che è.

Se cerchiamo alcune definizioni dell’indifferenza nella successiva pubblicistica e nella letteratura, possiamo richiamare la definizione in uso in certa pedagogia dell’Ottocento, come quella del Tommaseo, che definisce l’indifferenza come “stato e disposizione dell’animo che non propende né per l’una né per l’altra parte”. Quando il Tommaseo enuncia questa definizione, ci pone il problema dell’indifferenza su un piano o di partecipazione o di non partecipazione o, a dir meglio, di neutralità morale, che ha le sue diramazioni e un suo sviluppo anche nella letteratura più o meno contemporanea a questa sua definizione. Per esempio, e qui non può non cadere un tale esempio, in Manzoni noi possiamo trovare un riscontro di questa particolare versatilità della coscienza di un uomo nella rappresentazione del prudente opportunismo di don Abbondio.

Don Abbondio, come sappiamo, usa una sua personale tattica nei confronti del mondo. Scrive Manzoni: “Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro che egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte”. Don Abbondio, noi diremmo, era soprattutto un pavido, ma uno dei risultati significativi appunto della paura è proprio l’indifferenza. Quando avviene che il pavido, l’egoista chiuso in sé arriva al livello dell’indifferenza nei confronti della vita, nei confronti del prossimo? Quando passa dallo stato di paura allo stato di sicurezza. Allora, quando è sicuro di sé, l’egoista diventa indifferente verso tutto e verso tutti. E anche questo passaggio, questo trapasso, Manzoni lo illustra con l’estrema, penetrante, direi dilaniante chiarezza che gli è propria. Ma in questo modo, e questa è la prima considerazione che possiamo fare, il senso morale si svuota e a poco a poco noi arriviamo a quel risultato che era stato previsto già due secoli prima niente meno che da Pascal, il quale aveva dedicato un apposito capitolo delle sue Pensées all’indifferenza. Infatti Pascal notava come coloro stessi che sono trepidi nelle faccende più effimere sono del tutto incuranti ed indifferenti (lo traduco alla meglio) nei confronti di problemi ben più importanti, come per esempio l’ipotesi di un’eternità di bene. E, continua, quel medesimo uomo che passa tanti giorni e tante notti nella rabbia e nella disperazione per la perdita di una carica, o per qualche immaginaria offesa al suo onore, è ancora quello che sa di dover perdere con la morte ogni cosa senza inquietarsene e senza commuoversi. Mostruoso, soggiunge Pascal, vedere nel medesimo cuore e nel medesimo tempo tanta sensibilità per le minime cose e una così strana insensibilità e perfetta indifferenza per le cose più grandi.

Questo tema dell’indifferenza, sempre nello stesso ambito francese, si sviluppa con la stessa carica negativa conferitagli da Pascal anche nell’Ottocento romantico. Troviamo, per esempio, il saggio Dell’indifferenza in materia di religione di un celebre saggista allora cattolico, cioè Lamennais, saggio che fu tradotto da Manzoni, almeno nella prima parte, sotto lo stimolo del suo padre spirituale, Monsignor Tosi. Diceva Lamennais: “Il secolo più malato non è quello che si appassiona per l’errore, ma quello che disdegna la verità”, cioè quello che non ha nessun interesse e nessuna preoccupazione per la verità. Lamennais metteva il dito proprio sulla piaga scottante e sul rischio terribile rappresentato dall’indifferenza, sia pure dall’indifferenza in materia di religione. In sostanza, augurava Lamennais, meglio l’eresia, meglio l’avversione, meglio la negazione di ascendenza e di estrazione settecentesca libertina, e ancora seicentesca, piuttosto che l’indifferenza religiosa che era susseguita. Questa, in breve, è la peripezia che la situazione sul nostro vocabolo, sul nostro tema, subisce nel periodo ottocentesco romantico, notevolmente evoluto.

Prima di venire ora alla letteratura italiana e alle testimonianze del tempo nostro, dobbiamo renderci conto, necessariamente in modo sommario, delle svariatissime linee e confluenze che intervengono a costituire la problematica dell’indifferenza nel corso della nostra letteratura novecentesca. Dovremmo tracciare quindi un consuntivo molto rapido di talune linee di pensiero e di cultura, che vanno dal nichilismo slavo al decadentismo e all’estetismo e, più vicino a noi, dal surrealismo all’espressionismo, dal naturalismo all’esistenzialismo, sia pure mantenendo il discorso sempre sullo sfondo della nostra attività e della nostra rappresentativa letteraria. Un problema isolato dell’indifferenza ancora non si enuclea dal complesso di pensamenti, di suggestioni, di attrazioni che si sviluppano specialmente in campo filosofico o nella riflessione speculativa sulla letteratura né all’orizzonte europeo, né all’orizzonte italiano. Ci avviciniamo, invece, maggiormente a questo tentativo di enucleazione del tema dell’indifferenza con gli inizi della nostra letteratura del primo Novecento, specialmente tramite l’opera e la testimonianza di alcuni narratori di primissimo rilievo dei primi decenni del secolo in Italia: Svevo, innanzitutto, poi, cronologicamente parlando, Pirandello e finalmente Federico Tozzi, un terzo grande, illustre narratore dei nostri tempi.

Anche qui occorre procedere per gradi. In Svevo, in Tozzi, in Pirandello noi non abbiamo la chiara enunciazione del problema, in quanto essi non si pongono di fronte al problema con una coscienza o reattiva o collaborativa ormai esplicitata. Abbiamo, ripeto, un tentativo, di volta in volta, di approssimazione verso una meta che ancora non si saprebbe talvolta neanche denominare.

Analizziamo, per sommi capi, l’opera del primo di coloro che abbiamo citato, Svevo. A cominciare da Una vita e dal suo primo protagonista, Alfonso Nitti, Svevo rappresenta un individuo minato interiormente da un sostanziale disinteresse verso la vita, senza che egli nemmeno sia conscio del proprio male e sia in grado di speculare sul proprio male. Sostanziale disinteresse che si chiude, come ci è noto, col suicidio del personaggio stesso. Alfonso Nitti è un personaggio ancora dibattuto dall’esistenza (non a caso Svevo intitola il suo romanzo Una vita), la vita anzi lo tenta, c’è nella sua vicenda il risvolto affascinante della vita, degli amori, del possesso, della ricchezza… che vorrebbero possederlo, che egli ambisce ad avvicinare, che egli ambisce a conquistare. Ma naturalmente in lui c’è un germe di sconfitta, cova qualcosa che lo porta al polo opposto. E l’insegnamento, anzi, che egli trae dall’esperienza è l’insegnamento della sconfitta. Quando accetta la sconfitta e si decide all’atto risolutivo, cioè al suicidio, in quel momento stesso si rende conto della insignificanza delle ambizioni, dei sogni, delle speculazioni e delle suggestioni che aveva sofferto, in una parola della inanità della vita. E allora, nel momento stesso della morte, arriva a una sorta di inconscia indifferenza di fronte al problema della vita e di fronte al problema delle passioni in generale.

Una situazione analoga è quella che si verifica, sia pure per altro tramite, nel romanzo, o nei romanzi più noti di Svevo, cioè in Senilità e nel suo protagonista Emilio Brentani, e nella figura di Zeno Cosini, protagonista di quello che forse è il capolavoro di Svevo, La coscienza di Zeno. E anche qui siamo su una posizione relativamente agnostica rispetto alla autentica consapevolezza del problema e alla penetrazione nella inettitudine a vivere e nella abulia più sofferta che conscia. Un barlume di autocoscienza, con la relativa possibilità di distacco dalle passioni, si verifica soltanto nel terzo e conclusivo romanzo, La coscienza di Zeno. Noi sappiamo che Zeno è il personaggio che, a differenza degli altri personaggi di Svevo, riesce ad arrivare dove si era prefisso, cioè alla conquista della ricchezza, e si ritiene ormai guarito da quella che egli chiama una malattia immaginaria, che è la malattia stessa della vita. Il terzo “eroe” di Svevo cerca cioè di obiettivare le sue deficienze e si adegua, con l’impulso di una consapevolezza finalmente acquistata, al rito avvilente della società in cui egli vive. E tuttavia il tono de La Coscienza di Zeno non si risolve soltanto in un acquisto soggettivo da parte di un grande scrittore, ma è un qualcosa che ormai collima con la situazione storica nella quale Svevo compone il suo romanzo. L’autore, di fatto, rivela la crisi che contraddistingue la società di cui Svevo stesso partecipa, a partire dall’epoca del Decadentismo, e alla stregua, e ancor meglio forse, di un saggio speculativo, mette in evidenza qualcosa di nuovo che riscuoterà poi vastissimi echi nella produzione letteraria seguente: la problematicità e la enigmaticità del reale. Comincia in tal modo la crisi della personalità umana, una crisi che è tipica della letteratura, e particolarmente della narrativa del ’900, sia pure con diverse sfumature e con differenti soluzioni a seconda dell’andamento dei tempi.

Un cenno a parte, a questo proposito, dovrebbe essere fatto circa il teatro. Abbiamo una vasta rappresentanza teatrale che collabora a questo sdoppiamento, che in sostanza è una sorta di inizio di eversione e di annichilimento della personalità umana con un risultato di distacco, di disinteresse e, finalmente, di indifferenza di fronte ai problemi reali. Per la prima volta, contrariamente alla tradizione e romantica e fin naturalista, e fin verista, l’uomo si distacca dalla problematica, fino allora angosciosamente sofferta, fin nell’intimo più segreto, più recondito, che il reale, e la coscienza sulla stessa, gli avevano proposto. Fra gli elementi che contribuiscono nel teatro, anche nel teatro (ma il teatro è particolarmente indiziario in questo momento) a questa maturazione, a questa evoluzione, nel senso che a noi interessa, potremmo ricordare in campo strettamente italiano, lo stesso D’Annunzio con l’immoralismo sfrenato e determinato, programmatico, di una parte almeno della sua produzione teatrale. Si pensi a opere in cui l’immoralismo per definizione precede addirittura l’a-moralismo e l’immoralismo novecentesco alla Gide; si pensi, per intenderci, a un dramma come Più che l’amore di D’Annunzio. Però è soprattutto in un maestro del teatro, e non solo del teatro del Novecento, cioè in Pirandello, che finalmente la disintegrazione della personalità con tutta la sua conseguente irradiazione sul distacco che si opera fra l’uomo e le cose, fra l’uomo e la società, fra l’uomo e i suoi stessi sentimenti si verifica fino in fondo. In Pirandello noi vediamo come il dramma della alterità dell’individuo, all’interno del personaggio stesso, si sviluppa nelle forme più varie, più suggestive, e anche più arrischiate, più tentanti.

Di Pirandello, tuttavia, vorrei ricordare, nel senso che a noi preme, qualche testimonianza di prosa. Nel romanzo intitolato Quaderni di Serafino Gubbio operatore, l’autore mette idealmente in scena un operatore cinematografico che si immedesima nella tecnica e nella forma di traslazione morale della macchina da presa al punto da divenire totalmente distaccato, indifferente di fronte alla realtà, per quanto tragica sia. Si assiste addirittura alla scena di un uomo che è divorato vivo dalle belve a cui doveva accudire, scena che l’operatore cinematografico riproduce con perfetta indifferenza di fronte alla tragedia che si svolge davanti ai suoi occhi. Si presentano anche altre scene non meno cruente, non meno dilanianti, ma l’interessante, ripeto, è che questo Serafino Gubbio sia ormai capace di staccarsi totalmente dalla realtà, dal dramma umano, dalla tragedia umana e sia in grado di guardare come si guarderebbe una scena effigiata, o come si guarderebbe un dipinto. Quindi totale disinteresse, il primo passo verso quel distacco completo che si verificherà sostanzialmente alla fine della parabola, non dietro ad un’immaginaria macchina da presa, ma di fronte alla realtà stessa, a contatto con i nostri problemi, coi problemi della nostra coscienza. In questo senso molta parte del teatro del tempo si mette più o meno al seguito di Pirandello: il teatro del “grottesco”, con Chiarelli, Cavacchioli, Luigi Antonelli e soprattutto Rosso di San Secondo. E avremo in questo senso delle punte molto spinte che anticipano talvolta il teatro dei nostri tempi, per esempio il teatro esistenzialista, da Anouilh a Sartre a Camus, oppure anticipano addirittura il teatro recentissimo come quello di Beckett, il teatro dell’assurdo, dove ormai il tema stesso dell’indifferenza, come valore o disvalore da dibattere, viene meno a favore di una desolata agnostica incapacità, ormai definitiva, di cogliere i problemi di fondo della vita e della realtà.

Qualcosa del genere si verifica nello stesso senso, nella stessa linea di distacco dalla vita, di allontanamento dalla problematica dell’esistenza, anche in alcuni aspetti dell’opera del terzo grande narratore che ricordavo, cioè Federico Tozzi. Di Tozzi noi potremmo discorrere a lungo. Ci basti ricordare un’opera che è stata pubblicata di recente, postuma naturalmente, di frammenti, più o meno abilmente riconnessi ad opera del figlio Glauco, curatore delle opere di Tozzi. Quest’opera è il primo romanzo che Tozzi ha scritto, è intitolato Adele, è stato pubblicato nel 1982. In questo romanzo noi assistiamo al travaglio, e al trapasso soprattutto, della coscienza di una donna, di una ragazza, di nome Adele, la quale, pur avendo tutte le chance per riuscire nella vita e per essere felice (è ricca, ha trovato l’uomo che la ama e che è una persona positiva da tutti i punti di vista) tuttavia sente fluire, scorrere via da sé, il senso, il gusto della vita, fino a cadere in una totale inerzia, indifferente di fronte all’esistenza, e a scivolare così, come potrebbe scivolare dentro una palude, nell’esigenza conclusiva del suicidio senza neanche un cenno di reazione drammatica, e men che mai tragica. È un suicidio simile a quello di colui che si lascia inghiottire da una palude, senza neanche un minimo tentativo di reagire a questa attrazione malefica e tragica.

A proposito del problema dell’indifferenza, negli stessi anni di Tozzi noi abbiamo avuto un amico di Tozzi, Giuseppe Antonio Borgese, che intenzionalmente si impegnò su posizioni analoghe, da un punto di vista soprattutto di etica politica e di partecipazione umana, collettiva, sociale. Borgese scrisse, oltre che poesie, anche un romanzo, che è stato ripubblicato con molto interesse in tempi recenti, intitolato Rubè. Il personaggio di Rubè, un avvocato meridionale che capita al nord, un piccolo borghese intellettuale, vuole essere rappresentativo della stessa inerzia della coscienza italiana nell’immediato dopoguerra, cioè della incapacità italiana di una scelta di indole collettiva, pubblica, politica o in un senso o nell’altro. È la personificazione della coscienza italiana, la quale cede all’attrazione del fascismo da una parte, all’attrazione contraria e opposta del bolscevismo, o dei tentativi bolscevichi, dall’altra, senza partecipare cordialmente né degli uni, né degli altri. Rimane come schiacciata, e il personaggio centrale rimane infatti emblematicamente ucciso proprio dal confluire di due opposti cortei, uno rosso e uno nero, che trovano nel mezzo questo personaggio vittima, che rappresenta la coscienza italiana, almeno nella forma alquanto schematizzata di Borgese, vittima della propria stessa inerzia, della incapacità di scegliere, di partecipare, di aggregarsi, positivamente o negativamente che sia, di scegliere o una ortodossia, se è possibile, o una eresia, cioè di inserirsi, positivamente comunque, per il fatto solo di inserirsi o in un gruppo o nell’altro. Il romanzo di Borgese, che è del ’21 (siamo quindi in tempi abbastanza precoci) è un romanzo di intelaiatura alquanto schematica, però questo schematismo è riuscito tuttavia a toccare, almeno da un punto di vista pubblico, un qualcosa di vivo, umanamente vivo e significante, nel dramma e nell’evoluzione della coscienza italiana in questo preciso momento storico. Non è però che la coscienza italiana si limitasse a vaghi avvertimenti, a captazioni e suggestioni indirette, come nel caso di Svevo e di Pirandello e dello stesso Tozzi, oppure si limitasse soltanto a denunzie pubblicistiche e tipicamente politiche, schematicamente politiche, come quella del Rubè di Borgese. C’era qualcun altro, e una volta ancora erano i poeti, che avvertiva al vivo, in un modo più diretto, più intimo, ciò che stava succedendo a proposito di questo defluire continuo dal senso di una partecipazione responsabile ai problemi della vita, propria e altrui. Se consultiamo la poesia di quegli anni, per esempio la poesia di Camillo Sbarbaro, un poeta genovese, che scrive in anni precoci e riscrive in anni più tardi i versi di Pianissimo, una famosa raccolta, molto amata anche da Montale, noi vediamo emergere la lucida autocoscienza di una condizione morale di crisi, sofferta in pieno, senza illusioni di evasione o nella elegia, o nell’abbandono al fervore e alla stanchezza dei sensi. È l’uomo italiano, in senso ideale, in modo rappresentativo, come stordito ormai e incapace di una autentica reazione in persona propria o rispetto agli altri. Qualunque verso noi citassimo di Sbarbaro, ci renderebbe conto di questa situazione direi quasi di atonia:

Invece camminiamo, / camminiamo io e te come sonnambuli. Così Sbarbaro in una poesia alla donna che ama. E ancora: La vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca. Perduto ha la voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande / deserto. [Taci, anima stanca di godere]. Cioè, non mi importa più niente di quello che avviene intorno a me, sono perfettamente indifferente al bene e al male, mi isolo nella mia chiusura, nella mia occlusione, senza neanche interessarmi ad una ipotesi oppositiva, o magari negativa e distruttiva, verso la quale voltarmi. Siamo arrivati da uno scetticismo crepuscolare a una sorta di abbandono, a una sorta di trascuraggine interiore, senza neanche la metafora consolatrice delle lacrime ancora in uso nella poesia crepuscolare.

Potremmo citare altri esempi sofferti anche da un punto di vista di forzata rinunzia ad un’attrazione religiosa che veniva ancora in modo ultimativo sofferta, come per esempio nella poesia e nella scarsa testimonianza narrativa di un altro ligure, Giovanni Boine. È soprattutto la Liguria in questo periodo che produce personaggi rappresentativi della crisi della coscienza nostra nel campo non soltanto letterario. Ma a poco a poco questa situazione di rinunzia finisce per consolidarsi, per cristallizzarsi. È il momento in cui deve sorgere, non può non sorgere, un eroe rappresentativo della rinunzia per definizione. Siamo infatti giunti agli anni che vanno dal ’20 al ’30, e precisamente al ’28, tempo di elaborazione, e al ’29 quando Moravia scrive il suo romanzo intitolato appunto Gli indifferenti. È un romanzo chiave di questa crisi, di cui ci siamo naturalmente limitati a tracciare appena il segmento generale. È un punto chiave a cui Moravia ha avuto il merito storico di applicare il termine necessario, ed è un punto, ripeto, che è come la confluenza di svariate convergenze fortemente omogenee. Anche qui, nel campo della narrativa, potremmo sottolineare altri punti di accostamento: potremmo parlare, per esempio, di Palazzeschi, da Il codice di Perelà del 1911 a Le sorelle Materassi del 1934, ma che già in precedenza egli aveva elaborato. Comunque Moravia finalmente trova la parola giusta, trova l’aggettivo che fissa bene quella determinata condizione di quel modo di essere morale. Il tema de Gli indifferenti è il tema, ripetutamente dichiarato, di non puntare espressamente sull’indifferenza come tale, ma sulla alienazione, cioè sul distacco dalla personalità, dal nucleo degli interessi fondamentali di un essere, in sostanza di due esseri, i due protagonisti del suo romanzo, ma di puntare su un qualcosa di diverso dall’indifferenza per definizione. Moravia stesso dice che malgrado l’apparente indifferenza, i suoi protagonisti sperano sempre di uscire dalla situazione di indifferenza “grazie a non si sa quale miracolo”. Cioè egli vuole lasciare una via libera, una scappatoia alla chiusura, al blocco determinato dall’indifferenza per definizione. Però anche questa ipotetica scappatoia finisce per rientrare nel gioco stesso dell’indifferenza moraviana, nel senso che un’indifferenza tenuta gelidamente dal primo all’ultimo momento di un itinerario spirituale non potrebbe che sfociare o nel suicidio o in una liberazione, in una trasformazione dell’essere. Quando l’indifferenza invece, come nel caso di Moravia degli Indifferenti, viene garantita da una vaga speranza di evasione, di fuoriuscita dal circuito stretto dell’indifferenza, allora noi abbiamo un’indifferenza che può essere perpetuata all’infinito, senza limiti di tempo e senza essere suscettibile di correttivi pericolosi. Sappiamo che Moravia porta avanti anche negli altri romanzi questo tema dell’indifferenza. Per esempio ne La noia (per ricordare alcuni punti di riferimento essenziali) noi abbiamo un discorso che cambia di terminologia, noia invece di indifferenza, ma la sostanza è la medesima. Però non c’è intorno ai personaggi della Noia lo stesso umore di ambigua evasione, di ambigua catarsi, che Moravia è invece riuscito a suscitare intorno alle figure degli Indifferenti. Così il protagonista de La noia ad un certo momento per evadere da questa circoscrizione chiusa non può far di meglio, e non ha di meglio da tentare, che scagliarsi con l’automobile contro un albero nella speranza di ammazzarsi, cosa che non gli riesce di fare, ma sull’avvenire Moravia non ipotizza nessuna diversa soluzione. Quella di Moravia è una “teologia negativa”, totalmente negativa, soltanto che è abilmente ovattata, abilmente rivestita di ipotesi tutt’altro che negative, le quali giovano a mantenerne la carica estemporanea, a tenerne ancora in piedi quella vaga poeticità di situazione, che Moravia, da scrittore di razza, sente con l’orecchio avvertito che è necessaria per portare avanti il personaggio stesso. Il personaggio di Moravia non è più neanche il personaggio tipico del romanzo borghese tradizionale, che è frutto di una proiezione ideologica, univoca, compatta: si pensi al romanzo verista, al romanzo naturalista. Non è un eroe nel quale si configurino nettamente valori positivi o negativi ben determinati. Non è un personaggio che dichiari o di credere o di non credere a certe verità, siano esse di indole morale, spirituale o religiosa, o siano di indole sociale. Per esempio la crisi del personaggio di Borgese che abbiamo citato, Rubè, è una crisi di bloccaggio sociale. Ad un certo momento Rubè non sa da che parte voltarsi, dalla parte rossa o dalla parte nera. Invece nei personaggi di Moravia ogni ipotesi di indole sociale, oltre che di indole morale e religiosa, decade completamente. Decade ogni tensione, crolla la stessa ragion d’essere del conflitto. E il punto di arrivo sostanziale, malgrado quella specie di calore, di apparente calore, di apparente tensione verso non si sa quale escatologia, il punto di arrivo è, come Moravia stesso dichiara e riconosce, “una ambigua indifferenza etica” [Sanguineti]. Ambigua indifferenza, quindi indifferenza per definizione, la quale ha anche il vantaggio di rispecchiare esattamente la situazione storica, dell’homo italicus per dirla così, in quel determinato momento in cui si ambienta la narrativa, la proto narrativa moraviana. Siamo nel ’29, con gli anni che seguono, e quindi il romanzo rispecchia proprio l’adattamento ormai passivo, inerte, dell’Italia alla situazione sociale e politica che le è stata imposta. A che cosa fa appello Moravia immediatamente dopo per uscirne? A parte la noia, che rappresenta come il prolungamento della tematica degli Indifferenti, per uscirne non ha che affondarsi, che abbruttirsi fino in fondo, come dice del resto un critico straniero molto acuto, Dominique Fernandez, “nel riconoscimento senza riserve del fattore sessuale”. Quindi in Moravia, contravveleno all’indifferenza, ormai elemento capitale della sua struttura, del suo sistema morale, non è una coscienza morale purchessia, diritta e coerente, o magari controversa e sofferta in qualche modo. “Solo il riconoscimento senza riserve del fattore sessuale, dice Fernandez, permetterà ai personaggi moraviani di riscattarsi dall’indifferenza e di aderire di nuovo con forza alla realtà”. Però viene da osservare, contro Fernandez, che si tratta di un processo di avvicendamento in una trappola: dall’indifferenza passiamo ad una sessualità brute. Si pensi, per esempio, ad un altro romanzo di Moravia, Io e lui, dove la velleità morale si annienta del tutto, o fa capolino di quando in quando, tradendosi in un querulo “sentimentalismo etico” [Sanguineti]. È insomma una finta etica, o pseudo etica, come appunto la sessualità, a tenere in piedi il sistema narrativo vitale, con quel tanto di vitalismo necessario per alimentare un racconto che è proprio del punto di arrivo e della constatazione fondamentale dell’indifferenza di Moravia. Curioso, ma anche abbastanza naturale, che Moravia abbia tentato di evadere da questa trappola per esempio tramite un appello all’elemento politico o all’elemento sociologico. C’è una dichiarazione curiosa di Moravia. Dice: “In fondo la mia posizione somiglia alla posizione di Manzoni. Manzoni nel suo romanzo che cosa personifica? Personifica – dice Moravia, sono parole sue, – il contrasto tra la purezza naturale del popolo e la corruzione della storia e delle classi che fanno la storia. Da un lato – dice – noi abbiamo la contadinella (Lucia) che ‘diventa rossa e abbassa la testa’, dall’altro, la giovane badessa lussuriosa, e criminale (la Monaca di Monza)”, la quale rappresenta le classi evolute, le classi colte. Ma non gli viene neanche in mente di soccorrere il suo argomento con delle argomentazioni manzoniane. Noi sappiamo che per Manzoni non c’è nessuna differenza sostanziale tra la coscienza e l’anima di una contadina e l’anima di una principessa. Tant’è vero che a proposito di quella principessa, della monaca di Monza, Manzoni ci fa sapere che avrebbe potuto riscattarsi, malgrado tutto, malgrado le sopraffazioni di classe, perché, dice Manzoni letteralmente, “è una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, […] far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù”. Ora di questa lezione di morale cristiana e manzoniana Moravia non si è minimamente accorto, o ha finto di non accorgersi affatto. Questa è la situazione in generale di Moravia. Malgrado il tentativo di connivenza con una certa sinistra ideale e da lui idealizzata, con una idealizzata escatologia rivoluzionaria, è una situazione di perfetta e, oserei dire, deteriorata e ormai imputridita corruzione. Dico questo naturalmente nel senso morale, non nel senso letterario. Ma la constatazione, e la constatazione anche letteraria, che esce dalle più recenti testimonianze di Moravia, La noia compresa, è che Moravia ormai non riesce che ad affondare le mani in quello che Manzoni definirebbe il guazzabuglio di una società totalmente e perfettamente e completamente pervertita. E quindi è un gusto di svisceramento del male borghese, come egli lo denomina per definizione, senza che ci sia neanche una sola previsione di superamento di questo male o in nome di una rivoluzione politica, che non è neanche lontanamente prevista da quel sostanziale borghese che è Moravia o, meno ancora, in nome di un salto in avanti di indole morale, in virtù di un riscatto di coscienza interiore all’insegna cristiana o di qualsiasi altro appello autenticamente morale. Quindi il tragitto naturale della narrativa di Moravia consiste proprio nel successivo graduarsi e variarsi dell’indifferenza attraverso Il disprezzo, titolo di un altro romanzo, attraverso La noia, attraverso l’estremo “pansessualismo” imputridito di altro romanzo ancora, cioè mediante chiamate in causa di elementi e di argomenti che sono comunque incapaci costituzionalmente, non solo e non tanto di rinnovare l’uomo, ma neanche di rinnovare, di trasformare, di autenticare ulteriormente con elementi vivi, vitali, vitalistici, educativi, formativi una diversa letteratura, rispetto alla letteratura originaria, che ha il suo punto di partenza negli Indifferenti.

A voler tentare, a questo punto, un consuntivo fino ai nostri giorni dello sviluppo del tema dell’indifferenza, che significa sviluppo del tema della responsabilità dello scrittore di fronte alla società e di fronte all’impegno stesso dello scrivere, non mancherebbero certamente ulteriori schede, anche se da noi nessuno ha raggiunto certi punti di arrivo della grande letteratura straniera. Noi non abbiamo avuto un Hermann Broch, per richiamare un grande scrittore di lingua tedesca, che nel romanzo Gli incolpevoli rovescia la responsabilità del male collettivo e dell’indifferenza, del cinismo e dell’inerzia collettiva a danno degli stessi innocenti, che sono anzi i primi a subirne il peso e a sopportarne e a portarne avanti la tragedia. A questo punto la nostra situazione, in un certo senso, di fronte alle massime responsabilità degenera. Non si tratta più di ritorno di elementi ottocenteschi, come quelli che, a partire da Dostoevskij per arrivare al surrealismo, o primo novecenteschi, abbiamo annoverato, ma si tratta ormai di far entrare in questione delle affluenze, delle suggestioni straniere molto ricche e molto variate. E noi abbiamo nell’ambito della nostra letteratura interventi della dottrina, per esempio, della mera istintualità, della dottrina dell’atto gratuito, esemplificata in Gide, della dottrina del pensiero negativo e della dottrina della morte del divino, la suggestione dello statalismo totalitario e del consumismo delle società occidentali. Così, di grado in grado, con scansioni diverse, come si verifica per illuminazioni rapide ed occasionali nella nostra tematica narrativa più recente, da Pavese, esempio capitale, o da Piovene a Cassola, da Bonsanti a Landolfi a Bilenchi. Noi potremmo analizzare ciascuno di questi per vedere proprio come ognuno tenti di captare un filo di questa posizione, drammaticamente fondamentale, tragicamente negativa, tragicamente indifferente dell’uomo moderno di fronte alle responsabilità della vita, alle fondamentali responsabilità della vita. Se volessimo tentare un’escursione del genere, e naturalmente non ne abbiamo il tempo, non faremmo altro che un viaggio, non direi nell’inferno della tradizione narrativa ottocentesca da Dostoevskij per arrivare a Kafka, ma in una sorta di anti inferno, cioè di mediazioni tra un bene più escogitato intellettualmente e più desiderato qualche volta sentimentalmente che in effetti realizzato nella situazione della pagina e dei personaggi.

Non è che con questo noi dobbiamo concludere con constatazioni totalmente negative. C’è qualche tentativo di fuoriuscita da questa sorta di incapsulamento indifferente della nostra coscienza letteraria novecentesca. E la fuoriuscita larvale, potenziale e non ancora effettuale, si ha soprattutto qua e là nella poesia. Si pensi, per venire ad una delle voci più significative del nostro tempo, a Montale. Montale ha cominciato anch’egli, come ci è noto, da un computo “quantitativo” della realtà, cioè dallo scrutinio della realtà esterna, la cruda realtà che egli vede come dietro ad un cristallo, come ci canta in una delle prime poesie. E a questa realtà esterna Montale, come sappiamo, oppone (il primo Montale almeno) un’attitudine stoica, aliena da indulgenze sentimentali, rarefatta nella propria severa contenutezza.

Ci canta il Montale degli Ossi di seppia:

Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l’incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

 Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola e il falco alto levato.

Presenza naturale e umana da una parte, dall’altra intuizioni, soltanto intuizioni, di un altro ordine. Immagini, simboli, emblemi, come la divina indifferenza, appaiono slegati e non comunicanti gli uni con gli altri. In fondo, quello che rimane, al di là e al di sopra di questa stessa antinomia, è l’ansia evocativa di un prodigio, quasi il barlume di un qualcosa, che trascenda la dura normalità dell’esistenza. Anche in un’altra lirica famosa di Montale Notizie dall’Amiata (questa da Le occasioni) tutte le cose una volta di più appaiono chiuse e aliene. Sono “suggellate”, come ci dice letteralmente Montale, perfino “le spore del possibile”, cioè ogni ipotesi che contraddica la dura consistenza, la cristallina evidenza del reale. In tal modo al poeta non resta, come ipotesi che vada al di là della realtà, per paradosso, se non la morte, che a suo modo è qualcosa di presente, a suo modo, come Montale canta, “vive”. Eppure, oltre ciò, c’è una previsione umana che opera su un terreno ancora più avanzato:

Questa rissa cristiana che non ha

se non parole d’ombra e di lamento

che ti porta di me?

Tuttavia, anche in questo ordine di cose, oltre alle presenze più dolorose, l’ombra ed il lamento, anche le presenze più futili, i porcospini, dice il poeta, gli animali da nulla, s’abbeverano ad un filo di pietà: a qualcosa cioè che trascende la violenza e la morte.

Anche il pensiero della persona amata che è morta, che sta in un suo oltrecielo può indicare, come dice Montale, una via di salvezza, e perfino Dio appare per un attimo, come simbolo estremo di una “vertiginosa prospettiva metafisica”. Si svela per un attimo il ritorno dall’aldilà, sia pure soltanto pensato, di chi è o lontano o scomparso. Infatti il poeta canta:

… se ritorni non sei tu, è mutata

la tua storia terrena, non attendi

al traghetto la prua,

non hai sguardi, né ieri né domani;

perché l’opera Sua (che nella tua

si trasforma) dev’esser continuata.

[da Iride, in La Bufera e altro]

Dunque l’indifferenza, che nel suo primo mottetto Montale aveva scritto con la lettera maiuscola, non era soltanto la disperata reazione umana di fronte ad un esistente estraneo ed inaccessibile. Era anche il segno di una misteriosa alterità, era il segno di un messaggio comunque misterioso.

E se è vero che Montale, in questo modo, ha “sospinto il problema in una sorta di insolubilità metafisica, irrigidendo la questione” [Bigongiari], è anche vero che in quello spinto suo stoicismo, in quel fondamentale lucreziano spirito di indifferenza, che persiste in lui, guardando le cose, questa poesia è tuttavia applicata ad un’opera di riqualificazione dell’esistenza, sia pure su dati minimi, che non davano di per sé nessuna speranza oltre quella della obiettiva inconoscibilità. Ce lo dirà una volta di più negli Ossi, in Crisalide:

e forse tutto è fisso, tutto è scritto (cioè tutto è determinato),

e non vedremo sorgere per via

la libertà, il miracolo,

il fatto che non era necessario!

 Ma questo non è soltanto un vuoto auspicio, non è un atto di disperazione. È una sorta di ferita aperta che la poesia di Montale, e la coscienza stessa del poeta, soffre fino all’ultimo. E che neanche negli ultimi giorni è riuscito, riconosciamolo pure, a richiudere. Comunque è un qualcosa, storicamente parlando, che al di là degli scompensi, al di là delle dolorose insufficienze, suturate solo provvisoriamente dalla divina Indifferenza, distilla per noi il suo umore insopprimibile nel tempo.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia l’1.3.1984 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.