L’itinerario spirituale e poetico di Ungaretti

Tematiche: Letteratura

Alla pacata e intelligente comprensione della poesia ungarettiana hanno nuociuto, e non poco, oltre le piccole polemiche di carattere più politico che letterario, l’isolamento del mezzo espressivo dalla dinamica spirituale (riducendo Ungaretti ad una specie di giocoliere della parola), la diffusa ostilità verso la nuova lirica (ostilità sorta anche per colpa di un certo ermetismo deteriore, che, tuttavia, non scusa Benedetto Croce), il non vedere o il non voler vedere, all’interno delle invenzioni stilistiche e formali, lo sconvolgente dramma dell’umanità contemporanea che passava di crisi in crisi, tra gli estremi di nichilismo e di superomismo, di massificazione anonima e di individualismo esasperato: poesia di un “uomo di pena” che, alle misteriose contraddizioni tra l’essere e il divenire, tra la povera vanità delle cose e la nostalgia di un “fu” da cui tutto è sorto e di un’ansia per un “sarà” eterno, troverà risposta nel Mistero.
Già nel 1939 Carlo Bo avvertiva nella parola ungarettiana – metafisico scavo – “l’intervento di tutte le possibili domande”, senza compiacenze per la musicalità edonistica, negata l’accademia della sofferenza. Lo ha ben spiegato Giacomo Debenedetti: Ungaretti, poeta della sua sofferenza “umana”, non si è fatto mai personaggio, non si è mai illustrato. Certo: c’è, nella sua poesia, anche la sua “pena” (d’altronde confessata: e basterebbero i versi per la sua tragedia di padre a confermarla, e vastamente): c’è l’intreccio, ineliminabile, di biografia e di poesia: dolore della sua vita individua, ma sofferto “in universum”.
Nel 1912 Ungaretti, lasciata Alessandria d’Egitto, va a Parigi, carico del rifiuto della religione. Il viaggio per nave è in Levante:

La linea
vaporosa muore
al lontano cerchio del cielo
Picchi di tacchi picchi di mani
e il clarino ghirigori striduli
e il mare è cenerino
trema dolce inquieto
come un piccione

A poppa emigranti soriani ballano

A prua un giovane è solo

Di sabato sera a quest’ora
Ebrei
Laggiù
portano via
i loro morti
nell’imbuto di chiocciola
tentennamenti
di vicoli
di lumi

Confusa acqua
come il chiasso di poppa che odo
dentro l’ombra
del
sonno

contrappunto fra azione e memoria, fra musica e silenzio, fra i “soriani” festosi “a poppa” (rivolti alla Francia) e “a prua” (guardando l’Egitto che scompare) lui “solo”. Emigranti a contrasto. E questo senso di emigrazione Ungaretti porterà sempre con sé: la realtà-immagine del deserto tornerà sovente.
Migrazione è uguale ad esilio:

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri dì nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria

Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
Ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
Sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

Lo splendido racconto In memoria di Moammed Sceab, sradicato come lui, è la storia del senza patria e del senza nome (c’è chi ricorda il dantesco “Cesare fui e son Giustiniano”: ma c’è soltanto assonanza esterna, non parentela), di chi non vuole più vivere sotto la tenda e non sa vivere altrove. Anche Ungaretti cerca un “luogo”: tutta la sua vita è ricerca, tanto che si potrebbero segnare su di un atlante i molteplici itinerari ungarettiani (Egitto, Francia, Italia, Brasile, Giappone, Russia…), più o meno occasionali (Torna il ricordo di Leopardi, quasi che un nuovo “luogo” gli cancellasse il male: non erano i luoghi a renderlo infelice, bensì era l’infelicità interiore a fargli vivere infelicemente i luoghi).
Ungaretti cerca un luogo, ma avverte presto – Girovago – che non può essere geografico:

In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare

A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto

E me ne stacco sempre
straniero

Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute

Godere un solo
minuto di vita
iniziale

Cerco un paese
innocente

in nessuna terra si accasa perché in nessun spazio si sente di casa. Quando canta le sue terre, le avverte provvisorie e subito si stacca con parole d’addio. La sua meta è…partire: nomade.
In San Martino del Carso rivela a se stesso quale è il “paese” da reinventare o da ricostruire:

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel mio cuore
nessuna croce manca

E’ il mio cuore
il paese più straziato

il suo “cuore” è “il paese più straziato”.
Sono gli anni della prima guerra mondiale, quando Ungaretti è in perpetua partenza nella divisa di fante. Pietro Pancrazi ne ha lasciato un gustoso ritratto:

Era in veste di fante, e non “arrangiata”: dinoccolato, con l’ultimo bottone della giubba slacciato, con le scarpe chiodate e le fasce alla meglio, e in testa il berretto colla visiera alla Cattica, pallido, il “toscano”, pendente dalle labbra […]. Fin dal suo primo apparire si sentiva in lui una gentilezza scettica e come una desolata intelligenza, che gli conciliavano subito la simpatia. […] Rannicchiato all’angolo di una quasi poltrona, tratto tratto Ungaretti ritirava la testa tra le spalle, stringeva in silenzio la bocca e gli occhi, e tutta la faccia allora si chiudeva, curiosamente, come il rientrare della testuggine (solo vivo restava il mezzo “toscano” in risucchio); ed io pensavo all’Egitto. Ma se gli occhi gli si aprivano di sorpresa, grandi e sereni, su su che sembrava non dovessero mai finire di aprirsi come quelli di un bambino, lui entrava a un tratto con una frase, una battuta vivace, quasi di traverso, nel discorso degli altri […]. Ma si smorzava subito, rientrava ancora tutto nelle spalle, ribevendosi le ultime parole tra i denti stretti e finiva in un mezzo riso chioccio.

Ma l’immagine più conclusiva è quella del fante-poeta con valigia:

Ripensando a Ungaretti, non so perché, io l’ho immaginato sempre vicino a quella valigia, in una stazione di Parigi, o sotto la tettoia di Lucca, sopra coperta di un transatlantico, o colle gambe penzoloni sull’imperiale di una diligenza di campagna.

Ungaretti “girovago” alla ricerca di “un paese / innocente”. Nostalgia di una vita preadamitica? Nessun luogo gli è “eden” o di “grazia”. Mancano queste due parole, ma mi sembrano sottese. Ungaretti vuole “un’ora costante” (Dov’è la luce): l’ora fuori del tempo, l’ora di sempre: se è possibile dire così, un tempo eterno, o almeno un tempo già insaporato di eternità. Quasi un recupero dell’innocenza già nota e poi perduta.
Dalla condizione dell'”uomo di pena” sorgono gli altri “temi” che fanno il suo “libro di vita”. E’, fin d’ora, una condizione spirituale, il primo passo verso una condizione religiosa, sempre più precisamente identificata. Interrogando il suo andare e l’andare del mondo, scopre interrogativi a cui né l’uomo né le cose sanno rispondere. Penso, allora, a Dannazione:

Chiuso fra cose mortali
(Anche il cielo stellato finirà)
Perché bramo Dio?

dove, finalmente, il nome di Dio (o anche Dio?) appare. Senza risposta.
Nella Preghiera Ungaretti forse indica il “luogo” tanto cercato: quella “limpida e attonita sfera” nella quale invoca il “naufragio” (ben diverso dallo smarrito “naufragar […] dolce” leopardiano). Sente il contrasto tra la vanità delle cose e l’ansia di eternarle, tra la precarietà del vivere e la misura divina proposta come misura all’uomo, tra la finitezza e la tensione verso un che di eterno, tra l’aggrapparsi al giorno che fugge e l’arrivo ad un giorno che sta, a un giorno in cui vuole svegliarsi “al primo grido”.
In La preghiera ripetuta è l’immagine di un mondo primordiale incontaminato, presto sciupato dall’uomo che non vuole partecipare all’armonia universale, sì che ne venne la “vita” come “peso enorme”:

Come dolce prima dell’uomo
Doveva andare il mondo.

L’uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.

La vita gli è di peso enorme
Come liggiù quell’ale d’ape morta
Alla formicola che la trascina.

Da ciò che dura a ciò che passa,
Signore, sogno fermo,
Fa’ che torni a correre un patto.

Oh! rasserena questi figli.

Fa’ che l’uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Purificante amore,
Fa’ ancora che sia scala di riscatto
La carne ingannatrice.

Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate
Le anime s’uniranno
E lassù formeranno,
Eterna umanità,
Il tuo sonno felice.

Biblica è l’innovazione al “patto”: alla redenzione. Mentre per Leopardi la sofferenza è negazione, per Ungaretti è un mezzo per scoprirne il significato di “riscatto”: nei cieli – nel “limpido / stupore / dell’immensità” (Vanità) – decifra la risposta: l’umano è chiaro alla luce del divino.
In questo umano-divino sta La madre. La madre l’attende sulla soglia dell’aldilà. E in quel momento decisionale pregherà per lui. Un concetto così cristianamente sublime – un amore che oltrepassa la morte per ottenere al figlio la vita eterna – da Ungaretti è inverato in immagini che annodano, d’improvviso, il passato e l’avvenire, l’ora prima e l’ora ultima:

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.

Questa poesia, semplice all’apparenza, è tremenda: c’è chi ha richiamato Michelangelo. Aggiungerei Dante. La madre, prima di guardare il figlio, attende il giudizio di Dio. E se Dio dicesse “no”? La madre dovrebbe accoglierlo. Teologia che scarta il sentimentale. Eppure, a smorzare questa durezza, c’è quella riofferta: “Mio Dio, eccomi”, che fa identità tra madre e figlio e che, per la comunione dei santi, fa sì che il figlio sia perdonato nella madre e sia finalmente visto, con “un rapido sospiro”, in Dio.
Più esemplare ancora mi pare il passaggio da I fiumi a Mio fiume anche tu.
Mentre, in genere, nella poesia ungarettiana c’è un “io” astorico sia pure in frammenti di memoria, ne I fiumi l’io personale tira un bilancio della propria storia, ordina e ricapitola la realtà vissuta, percorre il fiume del tempo, ancora una volta con una geografia più interiore che da atlante. E’ sufficiente raffrontare l’umano “conosciuto” nella Senna e il “riconosciuto” sulle rive dell’Isonzo, dove si intravede qualcosa di nuovo: un Ungaretti che si sente “docile fibra dell’universo” (e cfr. Destino), frammento di un tutto.
(Una postilla: si legga quel “nascere e crescere” come possibile reminiscenza dantesco-manzoniana: Inferno e Promessi Sposi).
Nello straordinario Mio fiume anche tu l'”ora che” ripetuto traduce il dolore in Cristo che convive nel dolore di tutti, che diventa l’approdo, che è “misura” e “mistero” (come aveva già scritto) dell’umano. Il Cristo, perennemente immolato, è il Cristo della messa, come viene a confermare il triplice “Santo, / Santo, Santo” della tradizione liturgica. Qui Ungaretti risolve il dramma e – potremmo dire – conclude l’itinerario di ricerca con una preghiera precisamente cristiana:

Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo, Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.

Sul Tevere – il quinto fiume – durante le terribilità della seconda guerra mondiale che sfigurano l’uomo, Ungaretti scopre il volto di Cristo. Partito per scoprire chi è l’uomo e donde la sua pena, ha trovato questa e quello nel mistero di Dio: un viaggio infinito con una precisa meta, riportando la stessa poesia alla fonte divina: nasce la “poesia che brama di ristabilire un rapporto tra la creatura e Dio”, per ridare alle “parole” il “valore religioso”:

Estrema aspirazione della poesia, è di compiere il miracolo nelle parole, d’un mondo risuscitato nella sua purezza originaria e splendido di felicità. Toccano quasi qualche volta le parole, nelle ore somme dei sommi poeti, quella bellezza perfetta ch’era l’idea divina dell’uomo e del mondo nell’atto d’amore in cui vennero creati.

E questo è mistero. Ma che cos’è il mistero?

Se lo sapessi non sarebbe più mistero. Esso è della vita e dell’essere, esso è dell’eterno e del tempo. Senza mistero non ci sarebbe tragico umano, poiché questo tragico, secondo leggi che non potremo mai conoscere e che saranno sempre mistero, oppone il limite temporale alla libertà dell’essere. Ma se la ragione è misura umana, il mistero è misura divina, è assoluto. Ciò che so è che subordinando i suoi atti al mistero, l’uomo può muoversi in libertà e giustizia. E’ – non so – una grazia che mette in armonia sensi, pensieri, sentimenti e sogni.

Con l’inconoscibile si può decifrare il conoscibile.
Ungaretti sa che la verità, in cui l’uomo può trovare risposte, è nell’incontro con quel Cristo che, secondo Carlo Bo, è centro risolutore. Contro il giudizio del Croce che poneva in antitesi poesia e religione, per Ungaretti la vocazione del poeta è scoprire Dio e la sua presenza.
In Mio fiume anche tu c’è un po’ di manzoniano.
“Ora che insopportabile il tormento / Si sfrena tra i fratelli in ira a morte” richiama “I fratelli” che, pur “senz’ira”, “hanno ucciso i fratelli” del coro del Conte di Carmagnola. O ancora: “Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo” sembra aver come fonte La Passione: “O gran Padre! Per lui che s’immola, / Cessi alfine quell’ira tremenda”. E poniamo accanto alla “notte” ungarettiana, “turbata”, “straziata”, “sconvolta”, la “notte dell’uomo omicida” della stessa Passione; e il “santo patir” del Figlio al “Santo che soffri”.
Ma le “blasfeme labbra” vorrebbero processare “Cristo, pensoso palpito”: “Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata?”. Manzoni, nella Storia della Colonna Infame, di fronte all’orrore causato dagli orrori dell’uomo contro l’uomo, giunge alla stessa dubbiosa domanda: “…il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza o accusarla”. E come Manzoni – già condannate le due ipotesi come “bestemmie” e “deliri” imputa la “colpa” ad una voluta ignoranza degli uomini, così Ungaretti alla “folle” fuga dell’uomo dalla “passione” di Cristo dà la responsabilità dell’immane tragedia.
Mi pare significantissimo, a questo punto, rileggere alcune pagine di Ungaretti a proposito dell’incompiuto Natale del 1833 manzoniano (scritto, con una piena di dolore-amore, per la morte di Enrichetta), almeno per due motivi: primo, per il legame che Ungaretti stesso istituisce con la poesia manzoniana illuminando, sia pur quasi di sfuggita, la propria; secondo, perché non ho mai trovato citate queste bellissime pagine a commento dei versi del Manzoni:

Tra gli Inni Sacri del Manzoni, se ne trovano, è noto a tutti, due dedicati al Natale: il primo, l’inno composto dal luglio al settembre del 1813; l’altro, ispirato dalla morte della prima moglie Enrichetta Blondel, avvenuta nel giorno di Natale del 1833, e intitolato appunto Il Natale del 1833, l’inno del quale non ci ha lasciato che frammenti avendone interrotto il lavoro nel marzo del 1835, dopo scritta quella che è l’unica parola da lui trovata per la quinta strofa: la tremenda parola Onnipotente. La segue nel manoscritto un ampio spazio bianco e, poi, la postilla cecidere manus: gli si tagliarono, gli caddero le mani e l’Inno non fu mai più ripreso.
Già nel Natale del ’13 è raffigurata la terribilità della giustizia divina nei versi della caduta del masso, o in versi come:

Le avverse forze tremano
Al mover del suo ciglio.

La terribilità splende insieme alla grazia nel volto del Pargolo, ed Egli anche, nella sua severità, sorride misericorde.
Già Michelangelo ci aveva rappresentato, nel Giudizio, il Cristo dell’Apocalisse, il Cristo che giunge terribile sui nembi; e poi, nelle ultime due Pietà, e specialmente nell’ultima, incompiuta, nella Pietà Rondanini, il Cristo che, per pietà degli uomini, ha, uomo, patito la morte. In quella Pietà, la Mamma è rappresentata mentre su un braccio sorregge il corpo esanime, abbandonato, di Gesù, e mentre, con l’altra mano, che le diviene immensa, gli preme il petto usando, per ravvivargli, ma senza speranza, il cuore terreno, una forza di potenza inuguagliabile, eppure d’una delicatezza non vista mai prima.
In Michelangelo si tratta di due momenti diversi dell’ispirazione, e forse l’iconografia cristiana, prima che il Manzoni avesse scritto il Natale del ’13, e soprattutto prima che avesse scritto i frammenti del Natale del 1893, non aveva mai riunito in una medesima immagine i due aspetti del Cristo, e meno che mai avendo da rappresentare il volto del Bambino.
Si confronti al secondo Natale menzionato, il Natale di Góngora, di cui feci cenno al principio del mio discorso, e si vedrà quanto il Manzoni fosse vicino nel modo di esprimersi a Pascal e distante dallo Spagnuolo. Ma forse, sebbene Pascal e Góngora vivessero entrambi in epoca barocca Pascal è già da considerarsi un Romantico, un Romantico nell’ispirazione, poiché quanto alla forma è geometrico, come lo è il Manzoni negli Inni che, dalle prime stesure, dove cozzano immagini travolgenti e stupende, giunge a stesure oltremodo logiche, formalmente miranti a Racine, e finalmente arriva, con gli ultimi due Inni incompiuti, fra cui il Natale del 1833, alla purezza, alla rigorosa saggezza formale raciniana.
Il tema del Natale del 1833appartiene alla poesia d’ogni tempo, è il tema del rapporto tra Dio e l’uomo, e la difficoltà di linguaggio non è del tema. ed è dovuta, anche più che al lutto personale che è all’origine dell’Inno, particolarmente al sentimento della vita terrena sofferta come mistero perché svolgentesi entro limiti di catastrofe, sentimento peculiare dei Romantici.
Si pensi a quanto, dal canto A Silvia, al Dialogo di Tristano e di un amico, sino alla Ginestra, l’animo del Leopardi manifesti tormento insopportabile, a nessun nato essendo concesso di conoscere le cause in seguito alle quali ogni vita ha nel cosmo per condizione condanna a morte.
E’ attraverso analogo sbigottimento e analoga meditazione e mediante la conseguente accettazione dell’accento romantico che il Manzoni si prova a dichiarare il suo strazio per la scomparsa terrena d’una persona dilettissima:

Sì che Tu sei terribile!
Sì che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine
Sovra quel sen pietoso,
Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
E’ fato il tuo pensiero,
E’ legge il tuo vagir.

E questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
Vezzi or Ti fa, Ti supplica,
Suo pargolo, suo Dio,
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: è mio!
Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte,
E Ti vedrà morir.

Onnipotente

Soffermiamoci ora, per avviarci meglio a concludere, sul significato di due vocaboli: unicamente, attonito:

E questa tua fra gli uomini
Unicamente amata

Unicamente amata, cioè soltanto amata perché è senza peccato, e tutti gli altri esseri umani sono invece da giudicare e, per amore, da averne pietà. Può anche interpretarsi come amata in un modo unico, singolare, cioè prediletta fra gli esseri umani.

Ti stringe al cor che attonito
Va ripetendo: è mio!

Attonito è uno di quei vocaboli di precisione miracolosa che sa trovare solo il Manzoni. E’ una giovane Mamma che, come esse fanno, stringendo al cuore il neonato figlio, stenta per troppo grande gioia a credere che quella creatura sia sua: e dovrà stringerla un giorno, nelle stesse braccia, cadavere. Per giustizia e per pietà, il Cristo s’imporrà tale martirio e ne imporrà la desolazione a Lei, unicamente amata.
Ma, quantunque la maggioranza degli Italiani sia di tradizione cristiana, se non ci avesse avvertiti l’accentuazione romantica data dal Poeta al linguaggio dell’Inno, non saremmo forse arrivati a sentire per quale intensità di poesia sia nell’Inno stesso riconosciuto che Dio non misura il suo amore, la sua giustizia e la sua pietà secondo il nostro povero metro.
Gl’iniziatori di questa riunione vogliono che a questo punto io dica anche qualche cosa di me. Dopo i Poeti santi, dopo i Poeti grandi, che figura ci farei io che non sono santo e non sono grande.
Potrei dire che nella mia vita drammatica, e che continua ad esserlo, più affondata nel male che slanciata verso il bene, qualche volta la verità mi ha illuminato senza contrasti.
Fu quando, soldato nelle trincee, nella prima guerra mondiale, negli umili miei canti sentivo la parola “fratelli” nascere nella notte. Sentivo:

Fratelli

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

E più tardi, nel 1931, più energica, la medesima ispirazione mi piegava a pregare:

Da ciò che dura a ciò che passa
Signore, sogno fermo,
Fa’ che torni a correre un patto.

Oh! rasserena questi figli.
Fa’ che l’uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Mio fiume anche tu è una poesia del 1943. Fu pubblicata in un volumetto del 1944, e ora figura nella raccolta Il Dolore. E’ nata da visioni orrende e ormai lontane. Dio voglia ch’esse non abbiano mai più a ripetersi. In quei giorni quando, in San Clemente,

Dalla crocefissione di Masaccio
M’accolsero, d’un alito staccati
Mentre l’equestre rabbia
Convertita giù in roccia ammutoliva,
Desti dietro il biancore
Delle tombe abolite,
Defunti, su montagne
Sbocciate lievi da leggere nuvole

allora fu che a fondo in me seppi come “accenda la speranza”.

Ungaretti, come Manzoni, non trova una risposta “logica” alla sofferenza, bensì Cristo gli si presenta con il proprio dolore a dare ragione del dolore dell’uomo.
In La critica alla sbarra, dichiarati “insensati” certi “modi di dire”, quali “l’arte pura, o l’arte per l’arte, o l’arte che non abbia un fine”, prosegue:

Noi dimentichiamo troppo spesso che la vita è mistero, che la vita è d’ordine divino. Noi dimentichiamo che nell’opera d’arte riuscita, ciò che ci colpisce è l’alone di mistero, è la vita ch’essa emana, è il fiato divino che l’uomo le ha trasfuso. Questo sarebbe il punto principale sul quale dovrebbero fermarsi i critici; il rimanente è, più o meno fondata, pedanteria. Ciò ch’è urgente è che la critica esca, e aiuti l’arte a uscire, dalla pedanteria e dai discorsi a vanvera.

L'”uomo di pena”, percorrendo un itinerario tormentato attraverso le crisi spirituali-letterarie della cultura contemporanea, invita a scoprire il “paese” che dà anima ai godibili ritmi, salvandosi dall’accademismo che altrimenti ne farebbe un personaggio da mito o da leggenda.

NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 8.11.1988 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.