L’unità della Chiesa non vale una messa

 Al di là delle riprese televisive e dei moltissimi servizi giornalistici, delle insinuazioni maligne che si colgono qua e là, si sente il bisogno di qualche pacata riflessione sui rifiuti di monsignor Lefèbvre e dei suoi seguaci. Ho tra le mani la Professione di fede pubblicata da Lefèbvre ben quattordici anni fa, il 21 novembre 1974, ed in essa è già contenuto tutto quello che poi l’ultraottantenne capo della chiesa scismatica di Econe ha ripetuto ossessivamente. Altri testi lefebvriani, che rendono ancora più esplicite le conseguenze e insieme le motivazioni del rifiuto del Concilio Vaticano II, sono raccolti nel volume, tradotto in italiano, Un vescovo parla.
Si sa, molti fedeli che accettano il Concilio e le riforme che ne sono derivate affermano che non saremmo arrivati a questo punto se troppe innovazioni anarchiche, troppi discorsi aberranti non si fossero moltiplicati dopo il Concilio. La storia dimostra effettivamente che in ogni epoca esistono oscillazioni tra gli estremi, ma non è lecito indulgere ad argomenti giustificazionistici nei confronti del movimento di Econe, come se responsabili ne fossero non coloro che l’hanno originato e lo dirigono, ma gli altri.
Una crisi post-conciliare c’è stata, ma non è corretto osservare che sia derivata dall’attuazione del Concilio. È piuttosto vero il contrario: nasce dal suo fraintendimento sistematico, dall’arretratezza culturale che spinge a coniugare marxismo e teologia cristiana ravvisando in quello uno strumento di purificazione di questa, da un violento “complesso antiromano”, come ben vide Urs von Balthasar. Colui che, più d’ogni altro, ha portato sulle sue spalle la croce pesantissima della crisi post-conciliare è stato proprio Paolo VI ed è questa sua missione storica che lo rende più vicino al nostro cuore. L’errore di Econe sta nel confondere le posizioni dei peggiori contestatori del Concilio (e dello stesso magistero papale) con lo spirito del Concilio e l’orientamento di fondo di almeno tre papi: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II.
Il nocciolo della questione è, dunque, uno solo: Econe non accetta il Concilio Vaticano II nella sua interezza, nei suoi sedici documenti sottoscritti dall’insieme dell’episcopato cattolico, approvati e promulgati dal Papa. In particolare, poi, rifiuta le riforme liturgiche, contrapponendo la cosiddetta “Messa di san Pio V” a quella da loro chiamata la “Messa luterana”, cioè quella celebrata secondo il messale in uso dal 1969 per volontà di Paolo VI. Il fatto singolare è che – fu già rilevato dal portavoce vaticano il 27 agosto 1976 – lo stesso mons. Lefèbvre aveva sottoscritto la quasi totalità dei testi conciliari e sicuramente quelli sulla liturgia e sull’ecumenismo, oggi oggetto dei più duri attaccati da parte sua e dei suoi seguaci. Ciò che poi è francamente insostenibile è la volontà di contrapporre “la Messa secondo il rito di sempre, detto di san Pio V” alla Messa così come oggi viene celebrata in applicazione della riforma liturgica.
Il concilio di Trento, non avendo potuto concretizzare alcune riforme, impegnò il papato a portarle a termine. Il Papa Pio V pubblicò un catechismo, un breviario e, nel 1570, un messale. Allo stesso modo, il Concilio Vaticano II ha lasciato a Paolo VI la traduzione nella liturgia delle grandi linee stabilite dalla costituzione conciliare Sacrosantum concilium, approvata con ben 2158 sì e 19 no. Fare del messale di Pio V una specie di assoluto, come se si identificasse, senza possibili modifiche e integrazioni, con l’Eucarestia stessa di Gesù Cristo, è quindi cosa del tutto anacronistica. Infatti l’Eucarestia istituita da Cristo è unica e immutabile, ma i riti all’interno della stessa Chiesa cattolica sono stati sempre diversificati e sono cambiati nel corso dei secoli. Ci sono il rito romano, l’ambrosiano, il mozarabico e tanti altri.
Di più: lo stesso Pio V, che era domenicano, aveva permesso di conservare le liturgie particolari che potevano dimostrare più di duecento anni di esistenza, e quindi anche quella dei frati predicatori. Ho amato per qualche decennio anch’io la Messa latina, ma non vorrei ritornarvi. Una Messa di fatto compresa solo dai pochi che avessero studiato latino; un’assemblea che nella stragrande maggioranza non capisce le parole che vengono dette; un prete con la schiena rivolta al popolo. Tutte cose che non favoriscono certamente quella “partecipazione attiva dei fedeli” auspicata da Pio X, un altro pontefice cui a torto si richiamano i lefebvriani.
Due altri punti caratterizzano nettamente Econe: il no alla dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, la Dignitatis humanae personae, e il no all’ecumenismo, come se fosse un “tradimento della verità”. L’errore, afferma Lefèbvre, non ha diritti e il principio di libertà religiosa mette l’errore sullo stesso piano della verità. Certo, l’errore non ha diritti; ma le persone che sono nell’errore conservano anch’esse “il diritto di non essere – come dice la costituzione conciliare – forzate ad agire contro la loro coscienza”. La Chiesa difenderà sempre la libertà di annunciare il Vangelo contro le esclusioni di un certo laicismo settario e i minacciosi divieti del Leviatano totalitario; ma difenderà coerentemente quella libertà solo mettendo al primo posto la libertà di coscienza. Ognuno ha in primo luogo il dovere di obbedire alla sua coscienza e, nello stesso tempo, di lavorare a rendere la sua coscienza sempre più illuminata e aperta a ciò che la fonda e insieme la trascende.
Non si possono poi leggere senza tristezza espressioni come queste, pronunciate con pesante irrisione dall’ex arcivescovo di Tulle (Lefèbvre non è mai stato vescovo della diocesi di Econe): “Fate bene attenzione e vedrete ciò che corrisponde alla ‘fraternità’. Si sono chiamati fratelli gli eretici, i protestanti fratelli separati. Ecco la fraternità. Ci siamo in pieno con l’ecumenismo”. È una citazione testuale da una conferenza di Lefèbvre riportata in Un vescovo parla. Non parlava certamente così un altro vescovo, tra la fine del IV secolo e l’inizio del V, quando affrontava lo scisma più diffuso nella sua diocesi. “La Chiesa cattolica ammette che tra i cristiani non cattolici ci siano ancora grandi beni cristiani… ed è la comunanza di questi beni a far sì che la separazione non sia totale e che l’unione sia possibile”.
Quel vescovo aggiungeva: “Che lo vogliano o no, i cristiani che si sono separati sono nostri fratelli. Non saranno più nostri fratelli quando non diranno più: Padre nostro” (Enarr. In Ps. 29). Quel vescovo era S. Agostino. Paolo VI e Giovanni Paolo II sono sulla linea dei Padri della Chiesa. Lefèbvre no.

Giornale di Brescia, 10.7.1988.