L’uomo contemporaneo tra indifferenza e invocazione

INTRODUZIONE DI ALBERTO FRANCHI, PRESIDENTE DELLA CCDC. Buona sera a tutti, a nome dei Padri della Pace e della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Porgo un caloroso benvenuto a tutti e in particolare agli ospiti di questa serata: Giuseppe Laras, già Rabbino capo della Comunità di Milano, già presidente dell’Assemblea dei Rabbini italiani e presidente del Tribunale Rabbinico dell’Alta Italia, Monsignor Luciano Monari, nostro caro Vescovo, e Padre Rosino Gibellini, teologo di fama internazionale che condurrà questa serata. Noi siano qui riuniti poche ore dopo che si è conclusa la protesta degli immigrati sulla gru di Piazzale Cesare Battisti, uno degli episodi più drammatici e dolorosi per la nostra città. Ora è il momento di ricostruire una città solidale e aperta all’accoglienza. Tuttavia, pensando di interpretare i sentimenti di tutti, desidero esprimere la nostra più profonda gratitudine a Monsignor Monari e con lui a Padre Mario Toffari, a Don Fabio Corazzina, a Don Armando Nolli e a tutti quanti hanno attivamente collaborato anche senza apparire. La Chiesa bresciana si è fatta carico di questa vicenda nell’interesse della città tutta, assumendo un ruolo decisivo, indispensabile per giungere ad una soluzione nel rispetto della dignità umana e della legalità. La presenza del Rabbino Laras, voce autorevole dell’ebraismo non solo italiano, mi ricorda una riflessione di Pietro Scoppola sul ruolo che le grandi religioni svolgono nella costruzione della società umana: «La democrazia, senza un vigoroso apporto di energie morali, rischia di chiudersi nella pura logica della rappresentanza degli interessi costituiti. E un vigoroso apporto di energie morali è difficilmente pensabile senza il contributo delle grandi esperienze religiose.»[2] Io aggiungo: non sono forse i Dieci Comandamenti che Dio affidò a Mosè sul monte Sinai insieme all’affermazione biblica «E Dio creò l’uomo a Sua immagine», la fonte di ogni civile e pacifica convivenza degli uomini? Parliamo dunque di Dio, che attraverso il Suo colloquio con l’uomo ci fa scoprire il senso più profondo del nostro vivere.

PADRE ROSINO GIBELLINI. Bene, questo intervento già è una introduzione, perché il tema “Dio” non è un tema alienante, ci mette in cammino, ci dà un orientamento, quindi già con questo intervento il tema voi lo conoscete. Alcune brevi parole di introduzione per situare questo tema. Parliamo di Dio. Vorrei citare la grande affermazione di Sant’Anselmo nel Proslogion, nel suo dialogo con Dio: “Id quo maius cogitari nequit”, “Dio è ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande”. Questo testo, questa espressione ha interpellato i grandi filosofi da Cartesio a Kant a Hegel, quindi già dicendo questa parola noi siamo ai limiti del pensabile, siamo ai limiti del dicibile. Come noi possiamo parlare di Dio che è il Mistero massimo? Secondo la parola di Rahner, è il Mistero Santo, in quanto ci accoglie con la sua grazia; ma sentiremo dai due oratori che sono qui con noi, molto esperti, che vengono da tradizioni diverse, come parleranno di Dio. Ecco, su Dio la cultura, la filosofia e la teologia fanno praticamente tre domande radicali ma anche semplici. La prima domanda è: esiste Dio? É la domanda sull’esistenza. Qui ricordo un grande teologo protestante, il successore di Barth, che racconta in un suo libro il dibattito che ha avuto con un Padre Benedettino a Roma. E allora questo teologo protestante diceva: “Sai cosa dovrebbe fare la Chiesa cristiana? Una cosa sola dovrebbe fare la Chiesa cristiana: affermare e convincere che Dio esiste, nient’altro. Poi, tutto il resto sarebbe una conseguenza. Ecco l’importanza, che Dio esiste.” Ma il benedettino non era d’accordo, perché affermava: “La cosa più decisiva è illustrare il messaggio di Gesù.” Ma rispondeva il protestante: “Qui c’è un capovolgimento di fronti, no la cosa decisiva è che Dio esiste.”. Lasciamo stare ora questo dibattito tra il protestante e il benedettino, che stanno forse ancora discutendo. Ma l’importanza è il problema dell’esistenza di Dio. C’è poi un altro problema. É la seconda domanda: chi è Dio? Come lo possiamo nominare, non dico definire ma come possiamo parlare di Lui? Ecco il problema dell’essenza. Qui vorrei fare riferimento a un libro che è apparso qualche tempo fa, che aveva come titolo Ma chi è Dio?, ma chi è questo Dio, chi è propriamente questo Dio? É il problema dell’essenza. Ma veniamo a un terzo problema. Quindi, il problema dell’esistenza, il problema dell’essenza, con parole povere, è chiaro, perché le nostre parole su Dio sono solo una marcia di avvicinamento alla Realtà che determina ogni altra realtà. Un grande teologo,  recentemente scomparso, Panikkar, parlando di Dio parlava della Realtà delle realtà. Ora questa domanda: Dio dove sei? è la nostra domanda, la terza domanda: Dio dove sei? É la domanda, potremmo dire, della presenza di Dio, Dio è presente, Dio è la trascendenza ma ci sono segni, ci sono tracce, Dio dov’è? É la domanda che, soprattutto connessa con la prima domanda  e la seconda domanda, trattiamo, che i nostri oratori tratteranno. Questa domanda: Dio dov’è? ha già una sua storia. In campo filosofico nasce con il disastro di Lisbona.  recentemente è stato pubblicato un grosso libro che fa la storia di questa domanda. Dio dov’è? É la domanda degli spazi di Dio, la domanda del tempo di Dio, la domanda della presenza di Dio. E questo volume ha come titolo Da Lisbona ad Auschwitz[3]. A Lisbona nel Settecento (1755) è avvenuto un grande terremoto, poi il maremoto, poi un incendio, Lisbona è stata distrutta. Su questa distruzione molti filosofi sono intervenuti, hanno scomodato una parola che era stata inventata qualche decennio prima da Leibniz. Ci fu una discussione, Leibniz e poi Voltaire. Di fronte alla distruzione di una città siamo situati anche noi nel fare le nostre domande. Quando è avvenuta la distruzione di Lisbona, dov’era Dio quando è stata distrutta? Da Lisbona ad Auschwitz, dov’era Dio? La distruzione di questa città ha impressionato tutta l’Europa ma poi andando avanti si arriva fino ad Auschwitz, e tutti noi ricordiamo le parole di Papa Benedetto quando ha visitato, qualche tempo dopo la sua elezione al pontificato, questo campo di concentramento, questo buco nero della storia europea, e ha detto: “Dov’era Dio? Perché ha taciuto?». Ecco, questa domanda, da Lisbona fino ad Auschwitz, ha avuto una eco mondiale. Dalla distruzione terrificante di una città alla shoah. Ma questa domanda, dov’è Dio?, arriva anche a noi, nel nostro tempo, nella contemporaneità, nella consapevolezza del male che devasta il mondo. Ecco, per i nostri oratori ho situato questa domanda che non è la domanda dell’esistenza di Dio, né la domanda dell’essenza di Dio ma della presenza di Dio. Molto semplicemente voglio dire questo e concludo questa breve introduzione per sentire i nostri oratori. Leggevo qualche tempo fa che in una città della Germania, un ragazzino, il più piccolo, entra in casa improvvisamente, trova il padre e fa questa domanda a bruciapelo: “parlami di Dio”. Il padre è rimasto sbalordito da questo ragazzino, da questa domanda. “Ma ti parlo della Chiesa”, ha risposto il padre. “No, parlami di Dio”, ha continuato il ragazzino. E allora questo padre, questo genitore l’ha detto al Vescovo, “questo mio ragazzino mi ha detto parlami di Dio!”. “Ma me lo fai vedere questo ragazzino?” ha chiesto il Vescovo. E il ragazzino dice “Parlami di Dio”. Il Vescovo ha preso sul serio questa domanda e ha fatto una lettera pastorale rispondendo a questo bambino. Il Vescovo di Aquisgrana, che ha anche scritto dei libri, alcuni tradotti anche in italiano, qualche anno fa, nel 1992 o forse nel 1996 ha scritto dunque questa lettera pastorale, che è stato l’ultimo suo scritto in cui risponde a questo bambino. “Parlami di Dio, raccontami di Dio”, ecco la domanda che io faccio a ciascuno dei nostri oratori.

 

RAV GIUSEPPE LARAS. Bene, buonasera a tutti, buonasera ai miei ospiti. E debbo dire che il tema di questa sera è un tema difficile, molto impegnativo, perché abbiamo sentito domande del tipo: Esiste Dio? Chi è Dio? Dio dove sei? Io credo che per parlare di Dio forse è bene parlarne da un punto di vista esperienziale, cioè sulla base di esperienze che noi abbiamo fatto di Dio. Io credo intanto, quando parliamo di misticismo o di mistici, che questi hanno un approccio nei confronti di Dio tutto particolare. Essi rifiutano, per esempio, la domanda “Lei crede in Dio?”. Loro accolgono un altro tipo di domanda: “Lei sente Dio?”. É una sensazione, noi sentiamo di conoscere Dio, di fare esperienza di Dio, perché nel momento in cui noi diciamo “Io credo in Dio” si rimanda al raziocinio, al pensiero, e il pensiero è notoriamente una funzione del corpo e quindi non potrà mai cogliere, realizzare una realtà che è al di sopra della corporeità e della nostra vita. Per cui, ripeto, i mistici, che hanno dimestichezza con Dio, preferiscono parlare di avvertire Dio, sentire Dio. É un po’ come ne parlano i Salmi, in cui ci si rivolge continuamente a  Dio: Dio della mia salvezza, Tu che mi riscatti, che mi liberi, che mi guarisci, che mi ascolti. Ecco, in questi termini è meglio, è più comprensibile parlare di Dio. Certo che c’è anche un linguaggio teologico, quello dei teologi. Vorrei dirvi una cosa a questo riguardo: che in Esodo, capitolo tre, che è il capitolo che contiene l’apparizione a Mosè di Dio attraverso il roveto ardente, quando Mosè chiede a Dio di presentarsi, di qualificarsi perché lui possa parlare di Dio ai suoi fratelli in Egitto che sono schiavi e soffrono, ebbene risponde, letteralmente, “Sarò quel che sarò”, c’è il verbo essere, l’essenza.  Ebbene, se noi andiamo a vedere le interpretazioni dei teologi razionalisti, ascoltiamo delle riflessioni che sul piano spirituale e religioso non ci soddisfano. Maimonide, che è uno dei grandi teologi medievali, interpreta: “Io sono Colui in cui si identificano l’essenza con l’esistenza”. Sarà perfetto da un punto di vista di definizione razionale teologica, ammetterete però che sia poco consolatoria farla ascoltare o trasmetterla. A questo riguardo, c’è l’interpretazione tradizionale midrashica dell’ebraismo, che evidentemente avverte questo problema, e spiega l’espressione così: “Come Io sono stato con voi in questa disgrazia, nella schiavitù e nella sofferenza, così Io sarò con voi in tutte le altre sofferenze e tragedie future”. Quindi, vedete che qui Dio è legato a un concetto di salvezza, di consolazione. Allora, questa è una definizione di Dio che permette un qualche cosa e che si può definire da un punto di vista esperienziale. E poi vorrei aggiungere che chi veramente sente la presenza di Dio, non si preoccupa tanto di rispondere alla domanda se Dio esiste, o dare una definizione di Dio, o cercare di sapere dove sta. Badate che io questi argomenti li ho studiati a lungo, e ne parlo proprio perché mi rendo conto che l’approccio esperienziale è quello più arricchente, è quello più vero, più giusto. Per esempio, nel parlare di una esperienza di preghiera, se noi ci facciamo guidare dalla mente, dal raziocinio, come possiamo pensare (ecco di nuovo la categoria del pensiero) che Dio ci ascolterà? Tra noi e Dio c’è un abisso incolmabile, siamo completamente diversi, siamo due realtà completamente diverse, però il contatto noi sentiamo che esiste, comunque lo stabiliamo, non so come faccio a colloquiare con Dio, so però che riesco a colloquiare, che riesco a trasmettere i miei pensieri e riesco a ricevere la Sua risposta. Ripeto, i Salmi, che rappresentano il paradigma più elevato della preghiera, parlano di Dio e dell’uomo in collegamento e in rapporto con Dio in questi termini. Quindi, bisognerebbe chiederci oggi qual è lo stato del rapporto dell’uomo con Dio, continuiamo a interrogare Dio, a cercare Dio, a parlare con Dio, sentiamo Dio nella nostra vita? Io credo di sì, anche se ci sono degli inghippi, degli ostacoli, dei freni, che rendono più difficile questo contatto, questo rapporto, perché nonostante noi possiamo almeno teoricamente pensare di poterci collegare con Dio in solitudine e direttamente, siamo in qualche modo condizionati dal rumore, dal chiasso, da parole, da situazioni e da esempi. La nostra esperienza, e soprattutto l’esperienza religiosa, deve per forza svolgersi all’interno di un contesto umano, sociale, a meno che noi non preferiamo una scorciatoia, quella dell’isolazionismo, se ci isoliamo, andiamo nel deserto, ci chiudiamo in un monastero, ci sono queste esperienze, il monachesimo, e allora questo può essere più facile. Nell’ebraismo non ha attecchito questa strada del contatto con Dio privilegiato, assoluto, uscendo e evitando e neutralizzando i disturbi intorno a noi. L’unica esperienza di isolazionismo dal punto di vista storico è stata l’esperienza degli esseni, che poi hanno trasmesso questa idea del monachesimo che è stata accolta dal cristianesimo. Però, comunque sono esperienze limitate che non tutti possono scegliere o possono permettersi. Bisogna invece parlare di Dio in un contesto di rumore, questo spiega la maggior difficoltà, però è questa la situazione in cui noi siamo inseriti e che dobbiamo considerare. Un’altra situazione drammatica in cui noi avvertiamo la presenza di Dio ma in senso polemico, nel senso che noi chiediamo a Dio conto di quanto succede, è di fronte al dolore, di fronte alla sofferenza. Ma Dio dove sei? Dove eri? Ma come hai potuto volere una cosa di questo genere o hai tollerato una cosa del genere? Da quando esiste il mondo ci sono queste domande. Badiamo che queste domande le fanno i religiosi, chi non è religioso non si fa questa domanda, perché la sofferenza è una delle tante cose inconoscibili, assurde, che esistono al mondo, ma chi è religioso si pone questa domanda. Ma come è possibile che Tu Dio, che esisti che sei buono, che sei giusto, possa, non dico volere, ma permettere, consentire che si manifesti, che esploda questa violenza? E quindi Gli chiediamo conto di quello che succede in termini di malvagità, di sofferenza. C’è un libro biblico che è molto caro e che contiene delle riflessioni su questo tema, è il Libro di Giobbe. Voi tutti conoscete sicuramente la storia di Giobbe, una persona per bene, una persona religiosa, onesta, che fa tutto quello che deve fare, anzi addirittura offriva dei sacrifici di espiazione per i figli nel caso che i figli avessero commesso dei peccati. Giobbe improvvisamente viene colpito progressivamente da tragedie sempre più gravi: perde i beni, perde i figli e poi perde la salute. E proprio nel Prologo noi leggiamo che la causa di questa tragedia di Giobbe è una sorta di scommessa fra Dio e Satan. Dio che si rivolge a questo angelo che percorre la terra per osservare, guardare, gli dice: “Hai visto il mio servo Giobbe che brava persona che è, com’è onesto, com’è morale, com’è religioso”. Ecco, a quel punto il Satan insinua quel germe che poi farà nascere la tragedia di Giobbe. Insomma, in parole povere Satan obietta: “Certo, Giobbe è buono, perfetto come persona, ma è così perché tutto gli va bene. Prova a fargli andare meno bene le cose e se lui si mantiene così onesto, così positivo, allora effettivamente Giobbe è il top, il massimo”. E così incomincia la tragedia di Giobbe, e qui intervengono delle figure, gli amici di Giobbe, arrivano in quattro, però sono tre quelli che dialogano con lui e poi solo più tardi s’inserirà il quarto amico, il più giovane, Liù. Insomma, l’argomentazione dei tre amici è semplice, è sempre la stessa con parole diverse: se tu Giobbe soffri, è perché hai peccato. E Giobbe dice: “Ma io non ho peccato!”. Qui però chi è che può dire: “Io non ho commesso niente di male” ? C’è qualcuno che è così bravo da autogiudicarsi innocente? É proprio così ma perché noi abbiamo letto il Prologo del Libro, ma lui mica l’ha letto il Prologo, quindi si arrabbia molto con gli amici, begli amici siete, siete venuti qui per consolarmi e mi fate arrabbiare ancora di più! E questo scontro fra gli amici e Giobbe continua sempre inasprendo e acuendo questo dolore, quest’ira e questi pensieri cattivi di Giobbe. Se io pur non avendo fatto niente soffro, vuol dire che Dio non è giusto. Ecco, a quel punto, s’inserisce il quarto amico che introduce un’altra argomentazione, che è questa: “Tu Giobbe protesti la tua innocenza, quindi in un certo modo pretendi di leggere nella mente dell’Onnipotente, tu stai pretendendo di giudicare Dio e di cogliere il criterio retributivo della divinità. Ma, scusami una cosa, tu sei in grado di capire certi fenomeni naturali, come si svolgono, perché avvengono?”. Qui c’è tutta serie di domande su fenomeni naturali e il silenzio di Giobbe è la risposta. E allora a quel punto Liù dice: “ma cerca di ragionare, se tu non sai neanche spiegarti un fenomeno naturale che cade sotto l’osservazione quotidiana nostra, come puoi giudicare, valutare, interpretare l’opinione e la mente di Dio?”. Ecco, questo è il momento in cui Giobbe comincia a risvegliarsi e incomincia a pensare di essere stato troppo poco umile e, quindi, incomincia il processo, il cammino della teshuvà, del pentimento, e allora si riscopre nella sua umanità debole di fronte a dei grossi interrogativi che gli pone Dio, il silenzio di Dio di fronte a queste stesse domande. Però, si conclude questa terribile avventura con l’accettazione da parte di Giobbe di Dio con tutti i suoi misteri, con tutte le cose non espresse, non dette, non spiegate. Infatti, qual è la risposta del Libro di Giobbe a proposito della sofferenza? Ci sono delle sofferenze che non sono spiegabili. Certo, gli amici hanno ragione, spesso e volentieri la sofferenza è la conseguenza di un peccato, chi pecca avrà la sofferenza ma non sempre. É proprio dietro questa nebulosa che c’è la spiegazione che noi però non riusciamo a vedere. Quindi, non tutte le sofferenze hanno una spiegazione comprensibile, razionale, visibile, e quindi noi dobbiamo continuare a sentire Dio, ad avere fiducia in Dio nonostante che noi non riusciamo a leggerlo fino in fondo sempre. Una cosa anche importante legata a questa problematica, sempre con riferimento al Libro di Giobbe, è il giudizio che Dio alla fine dà rispettivamente di Giobbe e degli amici, cioè Dio loda il comportamento di Giobbe, si compiace con Giobbe, evidentemente di avere fatto quel percorso di teshuvà, di ritorno e di ricomposizione, di ricostituzione di questo rapporto infranto, e ha delle parole severe verso gli amici, esattamente dice: “questi amici non hanno parlato giustamente”. Ma come, perché, più giustamente di così? Non avranno indovinato tutto o sempre, ma una persona che di fronte a uno che soffre gli dice “guarda che, probabilmente, tu hai fatto qualcosa”, è un atteggiamento comunque religioso e comunque non da definire in maniera severa. Giobbe, che ne ha fatte di tutti i colori, ne ha dette di tutti i colori, viene lodato. Questo è un altro settore del libro che ci suggerisce un’altra cosa importante, che non sempre necessariamente l’atteggiamento religioso accettante, silente, è quello che è accettato e considerato buono da Dio, ma che in determinate circostanze anche una religiosità – perché, ripeto, Giobbe era religioso, se no non gliene importava niente – un atteggiamento così duro, così contestativo, così polemico, è un atteggiamento religioso. E questo è molto importante, perché di solito noi comunemente, la vulgata, dice che è religioso quello che sta sempre zitto, che accetta tutto. No, anche può essere battendo il pugno sul tavolo e protestando con Dio che esprimi la tua religiosità. Questa è la grande modernità del Libro di Giobbe, straordinaria. Quindi, qual è la conclusione? La conclusione del Libro di Giobbe è la sua non risposta ma è quello che viene suggerito a noi, Di fronte a certi dolori, a certe tragedie, non abbiamo la risposta ma questo non significa che noi dobbiamo mettere in dubbio l’esistenza di Dio. Siamo limitati, perché se non fosse così noi non saremmo uomini e Dio non sarebbe Dio.

PADRE ROSINO GIBELLINI. Vorrei coinvolgere il nostro Vescovo su questo tema, di cui percepiamo la vastità e la profondità certo già nella Bibbia ma che è così espressa con intensità attraverso la via esperienziale. Sto pensando a una trattazione del più grande filosofo della religione tedesco. Ha scritto un libro, mettendo il tutto di questo tema immenso, in cui già cominciava a percepire che questo tema vuole anche passione oltre che conoscenza. É passione, batteva i pugni sul tavolo il rabbino. E questo libro l’ha intitolato con un bel titolo, La preghiera e l’argomento[4]. Questo tema è inserito in tutta la storia della filosofia, la storia della cultura, se restiamo in Occidente. La preghiera, la via esperienziale, il grido, la contestazione a Dio. La preghiera è una via. E poi l’argomento è uno dei grandi argomenti della filosofia, anche se la filosofia oggi è latitante nei confronti di questo tema. E qui dobbiamo ringraziare la filosofia ebraica che lo ha immesso prepotentemente, penso a Buber, a Lévinas, a Jonas, questi grandi filosofi, questi grandi ebrei, questi grandi filosofi che hanno trattato certo la preghiera ma hanno trattato anche quest’altra via, l’argomento, l’argomentazione, la filosofia. Ecco, sentiamo il nostro Vescovo

MONSIGNOR LUCIANO MONARI. Quando studiavo il catechismo da ragazzo, tra le prime domande che riguardavano l’esistenza di Dio e l’essenza di Dio, come diceva Padre Gibellini, c’è una domanda che diceva: “Dov’è Dio?”, e la risposta, almeno quelli che sono vecchi come me la sanno: “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo”, Egli è l’Immenso, e l’immensità di Dio voleva dire essenzialmente questo, che la realtà è permeata da una presenza profonda e diffusa di Dio. E sempre quelli che hanno la mia età ricordano quell’arietta famosa, una delle più famose del Metastasio, che diceva: “Dovunque il guardo giro, immenso Dio, ti vedo: nell’opre tue t’ammiro, ti riconosco in me. Il cielo, il mar, le sfere parlan del tuo potere: Tu sei per tutto; e noi tutti viviamo in Te”. E questa percezione era la percezione usuale, comune, la percezione che lo spettacolo della creazione, del mondo, che l’esperienza della vita fosse impregnata del riferimento a Dio. il passare dal mondo a Dio, dalla creazione al Creatore, era un passaggio che veniva spontaneo, quasi naturale. E d’altra parte questo corrisponde per certi aspetti al messaggio biblico. Nella Lettera ai Romani, San Paolo dice al capitolo primo che le perfezioni invisibili di Dio, ossia la sua eterna potenza e divinità vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da Lui compiute. Quindi, attraverso le opere, che sono opere di Dio, si può ritrovare la divinità di Dio, la Sua sapienza, e questo messaggio corrisponde a quello che dice il Libro della Sapienza al capitolo tredici esponendo proprio questa dimensione fondamentale. E essere nel mondo vuol dire essere alla presenza di Dio, la creazione rimanda a Lui, alla Sua attività e alla Sua volontà. Di fatto però questa mediazione è andata in crisi, oggi l’uomo fa fatica a fare il salto o il percorso che dalla natura lo riconduce fino a Dio, e perché fa fatica? Per tutta una serie di motivi. Per esempio, incominciamo dal fatto che la natura ha una sua durezza e una sua meccanicità, che è difficilmente concepibile o accostabile all’esistenza di Dio, di un Dio pensato come amore, come bontà e misericordia nei confronti dell’uomo. Quando Leopardi scriveva il suo Dialogo della natura e di un islandese, raccontava di questo islandese che abbandona la sua terra, il suo paese, perché la neve, il ghiaccio, i vulcani, i terremoti, gli eventi della natura rendono la vita insopportabile, e il nostro islandese vuole fuggire dalla natura perché la natura gli è ostile. Fa il suo lungo pellegrinaggio e arriva in Africa, vicino all’equatore e lì, contro tutte le sue attese, incontra la natura, voleva scappare e lì la natura è nel massimo della sua floridezza. La incontra come una donna appoggiata a una montagna e intreccia con lei un dialogo polemico, perché la natura sembra essere nemica degli uomini, li offende in diversi modi, è come il carnefice della sua propria famiglia. E la risposta che la natura dà all’islandese è interessante. Dice che la critica è assolutamente assurda, perché nasce da una visione antropocentrica della natura, e si immagina l’islandese che la natura sia al suo servizio, che la natura sia stata fatta sulla sua misura, in funzione dell’uomo, e quindi fosse responsabile del male che l’uomo subisce dalla natura. E aggiunge: “Quando io vi offendo in qualunque modo e con qualsivoglia mezzo, io non me ne avvengo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico io non lo so; e non ho fatto come credete voi quelle tali cose, o non faccio quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E  finalmente, se anche mi avvenissi di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”.[5] Quindi, dice la natura, se ti faccio del male non ce l’ho con te e se ti faccio del bene non ti voglio beneficare, semplicemente non ti ho in nota. Chiaro? Per me tu sei irrilevante, io ho il mio ciclo, ho il mio andare avanti, e la tua presenza non cambia il ciclo della natura. E diceva giustamente un rabbino, Escher, che nei confronti della natura l’uomo fa facilmente quell’errore che si fa quando si vede una bella ragazza, uno vede una bella ragazza e pensa che abbia un buon cuore, ora vede la natura che è bella e pensa che la natura sia buona. In realtà, la natura il cuore non ce l’ha, semplicemente. É una specie d’inganno quello di volere vedere un cuore o una bontà nella natura e allora, evidentemente, questa concezione della natura rende praticamente impossibile il passaggio a Dio, al riconoscimento di Dio creatore e buono, che vuole la vita, la vita dell’uomo. Possiamo andare a cercare una mediazione un pochino più alta che non la natura e la prendo da un salmo che conoscete benissimo, è una litania, il 136, che dice così: “ Rendete grazia al Signore perché è buono, perché il Suo amore è per sempre. Rendete grazia al Dio degli dei, perché il Suo amore è per sempre. Rendete grazia al Signore dei signori, perché il Suo amore è per sempre. Lui solo ha compiuto meraviglie, perché il Suo amore è per sempre. Ha creato i cieli con sapienza, perché il Suo amore è per sempre. Poi continua: Colpì l’Egitto nei suoi primogeniti, perché il Suo amore è per sempre. Da quella terra fece uscire Israele, perché il Suo amore è per sempre. Con mano potente e braccio teso, perché il Suo amore è per sempre”. E va avanti per ventisei versetti a raccontare prima le grandi opere della creazione, poi  le opere della storia, la storia del popolo d’Israele. E tutti i momenti di questa storia sono accompagnati dal medesimo ritornello: “perché il suo amore è per sempre”. “Per sempre” vuol dire che più vai indietro, per quanto indietro tu possa andare, troverai sempre questo amore di Dio, e per quanto tu vada avanti nel futuro – il futuro, evidentemente, nessuno di noi lo sa, quello che succederà domani o dopodomani – puoi andare avanti ma per quanto avanti tu vada, troverai sempre l’amore di Dio. Questo è il denominatore comune che accompagna la natura e la storia. La storia è una storia di salvezza, il contenuto della storia è essenzialmente la salvezza. É la storia del passato e la storia del presente, perché il salmo, dopo aver usato tutta una serie di verbi al passato, al versetto 25, al penultimo, usa il verbo al presente: “Egli dà”. “Ci ha liberati dai nostri avversari, perché il Suo amore è per sempre. Egli dà il cibo a ogni creatura, perché il Suo amore è per sempre”. Quello è l’amore di Dio provvidente, è quell’amore quotidiano che accompagna il vissuto dell’uomo in ogni momento, in ogni situazione, è attraverso la Provvidenza, è attraverso il cibo che nutre, perché il Suo amore è per sempre. Non c’è dubbio, Israele il suo Dio lo ha conosciuto dalla storia, è stata l’esperienza della storia come liberazione che gli ha permesso di riconoscere che Dio è Colui che è, Colui che è accanto a Israele, come ricordava il Rabbino, in tutte le sue situazioni e in tutte le sue sofferenze. Rimane che anche questa mediazione non è semplicissima, perché evidentemente la storia contiene tutta una serie di ricchezze, di positività: basta pensare al cammino della storia umana e vedere che cosa si è creato nei secoli, come solidarietà, come cultura, come arte, creatività, e tutte queste dimensioni, per dire con stupore che è una cosa grande, che è una cosa bella, da contemplare, da dire, come diceva Camus, che nell’uomo ci sono più cose da apprezzare che non da disprezzare, in fondo il positivo è grande. Sì, è vero, il positivo è grande ma sono grandi anche le ingiustizie e sono grandi anche le cattiverie e sono grandi anche le falsità, sono grandi le oscurità della vita. Chi di noi è in grado di leggere la sua vita e di darle il significato preciso? E chi di noi evidentemente è in grado di dare significato alla storia? Ci sono state delle ideologie della storia, che pretendevano alla fine d’imbrigliare la storia dentro a degli schemi mentali ma sono fallite tutte. La storia non si lascia imbrigliare facilmente e nessuno sa con precisione dove va a parare. Non dico che avesse ragione il Macbeth quando diceva che la storia è semplicemente qualche cosa di caotico, è grande rumore, grande impressione ma è significato zero, nulla. Quindi, è vuota, probabilmente il Macbeth esagera, però certamente ci diventa complesso passare dall’esperienza completa della storia, della vita, della relazione con gli altri, all’esistenza di Dio e quindi al riconoscimento del Suo amore. Allora, se le domanda era: “Dove sono le tracce di Dio?”, e la risposta è: nella natura, questo non ci basta, perché lo tsunami ci mette in crisi, perché il terremoto di Lisbona ci mette in crisi. Non ci basta la storia, perché le ingiustizie, perché la shoah, perché queste realtà pongono tutta una serie di dubbi, a cominciare da quello che il Rabbino ha ricordato a proposito di Giobbe. Siamo dunque nell’impossibilità di ritrovare le tracce dell’esistenza di Dio dentro al mondo, al mondo di cui facciamo l’esperienza. E qui io “rubo” una pagina al diario di Etty Hillesum (1914-1943), una ragazza ebrea di Amsterdam che è finita ad Auschwitz, e morirà ad Auschwitz probabilmente nel novembre del 1943, e vive un’esperienza che a me sembra straordinaria, di tutte le esperienze di cui ho letto questa è quella che mi sorprende di più. É una ragazza che ha vissuto esperienze di depressione, con sintomi di sofferenza anche fisica per motivi psicologici, poi per fortuna ha trovato uno psicologo di cui è diventata segretaria, e che l’ha accompagnata in un cammino che è stato un cammino di maturazione umana impressionante, in un anno in pratica. Bene, questa ragazza, che conosce quello che sta succedendo al suo popolo e quello che succederà anche a lei poco dopo, nel luglio del 1942 scrive così: Preghiera della domenica mattina. Guardate che non era una donna religiosa, non era una donna praticante di nessuna religione, era cioè ebrea, quindi con una formazione ebraica ma in qualche modo molto laica nel suo modo di pensare e di parlare. “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte, per la prima volta, ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano. Davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi ma che siamo noi a dovere aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa le tue responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò dal mio territorio. Per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio, ma sono piuttosto le mille piccole preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso e a mordermi come altrettanti parassiti. É, allora mi gratto disperatamente per un po’ e ripeto ogni giorno: per oggi sei a posto, le pareti protettive di una casa ospitale ti scivolano sulle spalle come un abito che hai portato spesso e ti è diventato familiare, anche di cibo ce ne è a sufficienza per oggi e il tuo letto con le sue bianche lenzuola e le sue calde coperte è ancora lì pronto per la notte – e dunque oggi non hai il diritto di perdere neanche un attimo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata e rendila fruttuosa; fanne un’altra salda pietra su cui possa ancora reggersi il nostro povero e angoscioso futuro. Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, espande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come Ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure ma ti porto, persino in questa domenica mattina grigia e tempestosa un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontrerò sul mio cammino e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me e, tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora Ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza. Non posso garantirti niente a priori, ma le mie intenzioni sono ottime, lo vedi bene. E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò tra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo come altrettanti soldati nemici che assediano una fortezza imprendibile”.[6] Questa straordinaria donna finisce il suo diario (almeno nella traduzione italiana, non so se nell’originale sia esattamente lo stesso) con queste parole: “Ho spezzato il mio corpo come fosse pane e l’ho distribuito agli uomini, perché no? Erano così affamati e da tanto tempo.[7] …Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”.[8] Perché ho preso questo testo? Perché questo è il testo di una donna innamorata di Dio e innamorata non nel senso di un’esperienza che viene fuori all’improvviso e che passa immediatamente, no, è uno stato continuo di rapporto di amore con Dio. E Gli è legata, Gli è fedele, vuole esserGli fedele, Gli porta in dono un gelsomino, Gli porta i suoi desideri e porta le paure davanti a Lui e condivide con Lui la sua vita. Bene, io credo che questo alla fine sia il segreto fondamentale, quello che permette a una persona di trasfigurare la sua vita e di trasformare la natura, la vita, la storia, in esperienza di Dio, in traccia di Dio. Ma bisogna essere innamorati, cioè bisogna che ci sia questo atteggiamento di fondo, che ha delle manifestazioni molto chiare, una ad esempio è la gioia ma non la gioia che viene dal fatto che mi è capitato qualcosa di bello, questa qui è una gioia che ha le sue spiegazioni evidenti, no, quella gioia che rimane anche quando si è in mezzo alla tribolazione, che quindi non viene semplicemente provocata dalle circostanze ma che ha una origine superiore. Le circostanze non darebbero nessuna gioia ma questa gioia profonda rimane. É la pace, è una pace in mezzo evidentemente alle tribolazioni, quel discorso che in effetti promette di non preoccuparsi per il domani e quindi di sapere accogliere il presente con quello che di positivo ha, fosse anche semplicemente le lenzuola bianche del letto dove si corica. Bene, questo è un atteggiamento, un’esperienza di pace, anche questa una pace che non viene dal mondo, che non viene dalle circostanze, perché lei avrebbe dovuto semplicemente essere angosciata dalla mattina alla sera per la condizione in cui si trovava. In realtà, il suo rapporto con Dio diventa per lei motivo di pace e diventa motivo di libertà. Il discorso degli aspirapolveri e dei cucchiaini di argento vuol dire che è libera da queste preoccupazioni, perché evidentemente ha trovato un tesoro, e il suo Dio dentro di lei è un tesoro che lei vuole difendere, sa che è un tesoro, un’esperienza per lei difficile, fragile, sottomessa ai rischi e può succedere chissà che cosa, e allora bisogna difenderlo questo Dio, perché, difendendo la presenza di Dio dentro di lei, difende la sua umanità e la sua libertà di donna, la sua capacità di dire di sì alla vita e nelle situazioni diverse che la vita propone. Naturalmente, in questo discorso dell’innamoramento “innamoramento” non è la parola giusta, perché “innamoramento” per noi è una passione immediata. É l’essere innamorati, è lo stato di relazione di amore, è questo che permette a una ragazza come lei di recuperare il senso anche della natura che le parla di Dio, un gelsomino le parla di Dio e la mette in relazione con Dio. É questo che, evidentemente, le permette di dire di sì alla situazione in cui lei si trova, che è una situazione disastrosa ma che la sua condizione di donna che vive nell’amore le permette di accettare, di accettare con libertà. Questo è il percorso che diventa inevitabile, credo, oggi per arrivare alla percezione, all’esperienza della relazione con Dio. Quando San Francesco intonava il Cantico delle creature, ricordate, era cieco, ammalato, ormai verso la fine della sua vita, in difficoltà e con tutta una serie di esperienze di sofferenze immense. Però, nel Cantico intona: “Altissimu, onnipotente bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria et l’honore et onne benedictione… Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione.”[9] “De Te, Altissimo, porta significatione”, è un simbolo di Dio, esprime la realtà di Dio, e questo vale per tutte le altre cose, la Luna, le Stelle, frate Vento, sor Aqua, frate Focu, sora nostra matre Terra, i fiori coloriti, l’erba. “Laudato si’ mi Signore per quelli ke perdonano per lo Tuo amore et sostengo infirmitate e tribulatione”.[10] Quindi, anche gli uomini ma gli uomini che sanno amare, quelli che sanno perdonare e nei quali il mistero di Dio si riflette, si manifesta. “Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no’l farrà male. Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate.”[11] Anche lì l’ottica è quella dell’”innamorato”, Francesco è un innamorato di Dio, è un innamorato di Gesù Cristo, è un innamorato della vita ed è un innamorato delle persone. Questo amore di Dio produce necessariamente l’amore del prossimo. É l’atteggiamento di Etty Hillesum nei confronti dei tedeschi persecutori, è sorprendente, legge benissimo l’esperienza dei militari tedeschi oppressori ma la legge con una libertà dentro che è qualche cosa di sorprendente. E l’esperienza di chi vive il rapporto con Dio come rapporto di amore è quella di un mondo che diventa amato. Secondo il libro del Deuteronomio, Dio dev’essere amato con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. É l’unica realtà che possa essere amata così, non c’è niente e nessuno che si possa amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Se l’amore umano vuole essere umano, deve sapere mettere in ordine l’oggetto dell’amore e deve sapere dare a ciascuno quel tipo di amore che è giusto dare a lui, non diverso, non di più, non di meno, c’è un ordine in questo. Ma quando si arriva a Dio il discorso è che l’amore non ha più voti, perché Dio è la pienezza del bene, non è semplicemente una qualche realizzazione di bene, che io debbo evidentemente accogliere, stimare e riconoscere e amare, è amore senza odio, è bene senza male, è pienezza del valore, e allora lì c’è la possibilità di  amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Ma l’effetto di questo è che è possibile e diventa possibile amare tutto e tutti, a partire da lì. Amare tutto e tutti non vuole dire evidentemente dare ragione a tutto e a tutti, ci mancherebbe, questo sarebbe semplicemente stupido, ma vuol dire avere dentro di sé una sorgente di vita che è una sorgente fatta di amore. E quindi la parola che tu dici, anche quando è una parola di rimprovero, è una parola di amore, nasce dall’amore, e il comportamento che tu tieni, anche quando è un comportamento duro, di opposizione – perché delle volte può accadere anche questo – è però un comportamento di amore. E quell’amore di Dio con tutto il cuore produce un’energia capace di generare amore nel rapporto con le persone, con tutti. Allora diventa questa, credo, la mediazione fondamentale, è la mediazione di Dio, cioè la traccia fondamentale di Dio. Se volete una traccia visibile di Dio, ci ricordava il Rabbino, cercate i mistici, cercate le persone buone, perché dove c’è una persona buona lì l’impronta di Dio è più forte, è più visibile. Dio è dappertutto, in tutti gli uomini, non c’è dubbio. Tra l’altro, Dio ha creato l’uomo a sua immagine  e somiglianza, quindi in qualche modo quando io guardo le vostre facce vedo, devo potere vedere qualche cosa del volto di Dio, se siete fatti a immagine e somiglianza di Dio. Ma non c’è dubbio che nella persona buona Dio ha stampato la sua orma, direbbe il Manzoni, in modo più profondo, significativo, visibile, lì la traccia di Dio è in caratteri cubitali, la vedono anche gli orbi, si direbbe, dove c’è questa realtà. E il significato alla fine o l’importanza per noi della vita di Gesù è essenzialmente quello, cioè Gesù è semplicemente un’esistenza umana dove la trasparenza a Dio è completa, è piena, perché è vissuto amando e ha trasformato in amore la sua morte, perché tutto quello che c’era è diventato trasparente all’amore di Dio. Allora, il cammino diventa essenzialmente questo, è cammino certamente non facile da vivere, perché Etty Hillesum dice che lei è capace tantissimo di affrontare le difficoltà grandi ma le difficoltà minime della vita quotidiana fa una fatica cane ad affrontarle, cioè quelle cose pesanti, fastidiose, che sembrano che non abbiano nessun senso, che sono semplicemente oppressive e nient’altro, per cui non è una piccola lotta, però è quella lotta che è possibile combattere a partire dall’amore, a partire da una presenza di Dio che diventa rapporto con Lui come di chi sta dentro all’amore considerato come dono – ma questo lo sanno tutti gli innamorati, nessun’innamorato dice mai che me lo sono costruito io l’amore, ciascuno percepisce l’amore come qualche cosa che gli è stato donato come una grazia, uno stato di grazia per qualche motivo che lui non riesce a spiegare. Quando Clive Staples Lewis (1898-1963), scrittore e filologo irlandese naturalizzato britannico, docente di lingua e letteratura inglese all’università di Oxford,  ha scritto una specie di racconto della sua vita, lo ha intitolato Sorpreso dalla gioia. Era ateo e ha incominciato a credere quando ha percepito una gioia che irradiava nella sua vita e di cui non riusciva  a spiegare l’origine, non aveva un’origine fisica dalla salute, non aveva un’origine dalle circostanze, aveva qualche origine diversa, veniva dall’alto, veniva come dono e come grazia. E Lewis è diventato, credo, uno dei testimoni  più belli nel ventesimo secolo della fede. Allora, tornando alla domanda, quali sono le tracce dell’esistenza di Dio? La natura, la vita, la storia ma solo se il nostro cuore è un cuore aperto alla grazia dell’amore e, quindi, che vive come in una condizione di amore e quindi trasfigura nell’amore la natura, la storia e la vita.

PADRE ROSINO GIBELLINI. Ecco, abbiamo sentito il nostro Vescovo che è andato alla ricerca delle tracce dell’esistenza di Dio e ce ne sono ma, innanzitutto, da questo incontro nasce la proposta di andare a leggere o a rileggere due libri: dal Rabbino, il Libro di Giobbe, che è da rileggere bene, perché è un grande libro che tutti i poeti hanno letto per averne ispirazione, e poi dal nostro Vescovo il Diario di Etty Hillesum in cui abbiamo sentito cose sorprendenti che danno l’energia per vivere nella gioia, nella fiducia, nel dono per sopportare la vita. Sono letture con cui dobbiamo nutrire il nostro spirito. Ecco, sintetizzando un po’ – ma poi voglio fare una domanda al Rabbino e anche al nostro Vescovo – allora Dio è La trascendenza, certo. La formula più forte che esprime la trascendenza, la grandezza di Dio, la sublimità di Dio, è: Dio è il totalmente Altro ma, lo abbiamo sentito, ci sono tracce di Dio che in senso filosofico si chiamano l’immanenza di Dio. Dio è trascendente ma, in quanto è la totale trascendenza, è la più intima immanenza, come afferma San Tommaso ma vorrei citare il Cusano, questo filosofo del Quattrocento, sull’immanenza. Allora, Dio è La trascendenza, la sublimità, l’irraggiungibilità nel pensiero, nel vivere, la trascendenza rispetto a cui che siamo noi? Ma la totale trascendenza è immanenza e la formula dell’immanenza, secondo me più profonda, è del Cusano ma non mi inoltro nel suggerire questa formula del “de non aliud”. Ma facciamo le cose più semplici, già accennate anche dal nostro Vescovo, e citiamo la formula dell’immanenza Sant’Agostino: interior intimo meo, la trascendenza più immane è il più intimo del nostro intimo. Ecco quindi le tracce, se percepiamo l’energia della trascendenza nell’intimo si trasforma la vita, si metamorfosa la vita, come abbiamo sentito dal nostro Vescovo, tanto che una delle formule dell’immanenza è interior intimo meo, che Dio è più intimo del nostro intimo, a cui si avvicina la formula molto bella di Etty Hillesum: un pezzo di Te dentro di me, e se è un pezzo di Te è energia, l’energia dell’amare, l’energia del donare, l’energia nella sofferenza. Adesso, per concludere due domande ai nostri oratori. Allora, faccio prima una domanda al Rabbino Laras e poi un’altra domanda al nostro Vescovo, per non dico concludere questo tema immenso ma terminare. Allora, al Rabbino, che è ha richiamato anche la shoah, domanderei questo: in un libro del grande teologo cristiano, che ha parlato anche qui in questo salone, Moltmann, ne Il Dio crocifisso c’è una pagina così alta sulla shoah, la pagina più alta che un teologo cristiano, che uno scrittore cristiano abbia scritto, e dice: ad Auschwitz, nella terribilità, nella tremendità di Auschwitz, si sono pregati i Salmi e si è pregato il Padre Nostro, e allora Moltmann dice: Dio era in Auschwitz, ma poi usa anche quest’altra formula: così Auschwitz era in Dio, anche perché i gassati di Auschwitz risorgeranno, e c’è la promessa della risurrezione ai gassati di Auschwitz, e quindi Auschwitz era in Dio. Ecco, cosa pensa il rabbino di queste formulazioni fatte da un teologo cristiano, data la sua sensibilità e conoscenza di tutta la letteratura sull’argomento?

RAV GIUSEPPE LARAS. L’argomento è molto delicato, è molto difficile perché significa introdurre il tema della cosiddetta “teologia della shoah”. Secondo me, è mal posto il problema, non si potrebbe parlare di una teologia della shoah, parlare della teologia della shoah vorrebbe dire accostare l’idea di Dio a quell’eccidio, a quella contraddizione, a quell’offesa che è stata portata all’umanità, all’uomo. Io credo che si possa più appropriatamente parlare di un’antropologia della shoah o di una sociologia della shoah. Intendiamoci, nella sofferenza terribile dei campi di concentramento alcune vittime hanno perso la fede, altre non l’hanno persa, nonostante quello che vedevano attorno a sé continuavano a colloquiare con Dio, parlare con Dio, a chiedere a Dio, forse a dire a Dio, altri, ripeto, in quella sofferenza sentirono rompersi, staccarsi quel collegamento che prima esisteva fra loro e Dio. Quindi, è molto difficile parlare di questa presenza di Dio all’interno o nei confronti della shoah. Io ricordo che Martin Kunz disse molti anni fa che parlare di una teologia della shoah era una tentazione del diavolo, era il diavolo che faceva venire in mente un pensiero di questo genere, tanto è grande il divario fra Dio e quella violenza, quella contraddizione, quella malvagità di cui il mondo è stato testimone. Quindi, secondo me, bisognerebbe non tanto chiederci dov’era Dio ad Auschwitz, dov’era l’uomo. Quindi, come dicevo, forse meglio un’antropologia della shoah, e quindi qui entriamo in un discorso molto serio, come è stato applicato il dono della libertà da parte di persone, di gruppi di persone. La libertà è un dono preziosissimo ma bisogna saperlo adoperare. Lì è stato adoperato per umiliare, offendere e uccidere l’uomo con quell’impronta divina. E quindi, come diceva Wiesel, che ha dedicato parecchie riflessioni e parecchi libri su quell’esperienza che lui a diciassette anni ha vissuto, accanto ai tredici articoli di fede di Maimonide bisognerebbe aggiungerne un quattordicesimo che dice: nonostante tutto bisogna continuare, quindi nonostante quello che è accaduto è una speranza e un impegno di andare avanti, perché la shoah, con tutto quello che la precede in termini di esecuzione della volontà, non ha spento nei superstiti quella scintilla e la volontà nonostante tutto di andare avanti e quindi riprendere il colloquio con Dio. bisognerebbe, secondo me, in base proprio a quello che è successo, a quel cattivo uso che è stato fatto della libertà, lavorare per e predicare per la costruzione sempre di sistemi etici che abbiano come punto di riferimento invalicabile il rispetto della persona umana, quello che i tecnici chiamano i sistemi etici eteronomi. Cioè, il punto di riferimento a cui bisogna guardare deve venire da fuori. Quindi, noi abbiamo un ordinamento che ci dice: non uccidere. I sistemi etici a cui si sono ispirati i nazisti erano sistemi etici autonomi, s’erano messi d’accordo fra di loro e avevano indicato degli obiettivi, ci sono delle persone che hanno il diritto di vivere e di governare, e ci sono dei soggetti che devono morire. É il sistema autonomo della libertà. Io mi posso svegliare una mattina e decidere insieme a te e a lui che ci facciamo un bel sistema etico a nostro uso e consumo. Ma con questi sistemi si arriva ad Auschwitz e anche ad altre forme di devastazione. É un discorso complesso, difficile, lungo, però si ritorna sempre lì: l’amore per Dio, l’amore per l’uomo, “E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze. Ama il prossimo tuo come te stesso”. Se si ama l’uomo si rispetta e si ama Dio, se si ama Dio si rispetta e si ama l’uomo. Mi rendo conto che è più facile a dire che a fare, però secondo me bisogna viaggiare in quella direzione. Grazie.

PADRE ROSINO GIBELLINI. Grazie carissimo Rabbino per questa risposta così sincera[12]. Ecco una domanda anche al nostro Vescovo. Di fronte al clima della contemporaneità, contrassegnata anche dalla ripresa dell’ateismo che vorrebbe annullare la parola stessa di Dio, ma anche di fronte al secolarismo che mantiene l’oblio su Dio, ma anche di fronte ad una ambigua rinascita del religioso, di fronte a questa nostra realtà che Lei conosce così bene, il pensiero di Dio, il discorso su Dio quali possibilità ha di far presa e le nostre comunità credenti che compito hanno?

MONSIGNOR LUCIANO MONARI. Ricordo un aneddoto che ho letto in un qualche libro di teologia di un po’ di tempo fa, è un dialogo tra Martin Buber e Ben Gurion, il fondatore dello stato di Israele. Ben Gurion, ebreo, è radicato nella sua tradizione ma scettico dal punto di vista religioso, e Buber che invece è un testimone straordinario del mistero di Dio. il dialogo è così. Ben Gurion dice a Buber: “professore, perché lei crede in Dio?”. Risposta: “Se Dio fosse uno di cui si parla, non crederei, ma siccome Dio è uno a cui si parla, per questo ci credo”. E il senso è che Dio diventa significativo e rilevante quando è l’interlocutore della nostra vita, quando non è un oggetto. Naturalmente, si può parlare di Dio oggetto della teologia, però fino a che rimane semplicemente oggetto è questione di curiosità intellettuale, importante fin che si vuole ma alla fine non significativa per la persona. Quando Dio diventa il Tu della vita – ritornate a Etty Hillesum, in quel suo dialogo con il Signore, il suo dialogo con Dio – allora diventa credibile, è qualcuno a cui si può effettivamente consegnare la propria esistenza. E io credo che questo sia ancora vero. Secondo me, Buber ci credeva così tanto che quando ha tradotto la Bibbia in tedesco, dovendo tradurre il tetragramma, il nome sacro di Dio, l’ha tradotto con un pronome personale, il Tu, la presenza personale di Dio, l’interlocutore dell’uomo, quindi ha usato il pronome personale, non ha usato dei titoli o altri termini. Il pronome personale. Io, Tu, soprattutto Tu, perché è quello che viene più normalmente nella traduzione della Bibbia. E credo che effettivamente abbia ragione. Quello di cui abbiamo bisogno dal punto di vista religioso sono delle persone per le quali Dio sia davvero l’interlocutore della loro vita, e lo sia seriamente, cioè non in modo formale o banale, che lo sia in modo tale da cambiare pensieri e sentimenti, da organizzare il vissuto, da dare al vissuto un orientamento preciso. Se ci sono testimonianze di questo genere, Dio è presente nella storia dell’uomo ed è presente in modo efficace. Altrimenti, il discorso della secolarizzazione è un discorso amplissimo e diffuso, difficilissimo da penetrare per tutta una serie di motivi, non ultimo il fatto che il tipo di pensiero, di conoscenza che noi consideriamo come quello più importante è il pensiero scientifico, e il pensiero scientifico per principio non si pone il problema di Dio. Non sono le affermazioni della scienza che sono in contrasto con Dio, non ci sono affermazioni scientifiche che contrastino con l’esistenza di Dio. Quello che è un problema è il tipo di pensiero che il pensiero  scientifico rappresenta, perché per natura sua non cerca le cause, ma le correlazioni, non cerca la sicurezza, ma la probabilità, e giustamente perché metodologicamente orientato alla conoscenza della natura. Ma Dio non è natura, con quel tipo di pensiero lì Dio non si raggiunge mai, non è possibile e giustamente non è possibile. Il pensiero scientifico mi piace tantissimo e lo stimo senza riserve alcuna ma non è tutto. Ci sono delle dimensioni della percezione della realtà che non sono secondo il metodo scientifico ma che sono percezioni vere della realtà, pensate a tutta la dimensione artistica o letteraria che evidentemente non sono scientifiche, hanno un approccio diverso ma un approccio che coglie davvero, quando è autentico, la realtà. Saltiamo fuori dal punto di vista speculativo solo se ci sono delle testimonianze di credenti, che manifestano la forza dell’amore che viene da Dio nell’amore verso il prossimo, che sono persone creative di bontà, di benevolenza, di fraternità , che si portano dentro una libertà grande e testimoniano una capacità di vivere in questo mondo liberi. Credo che sia quello il cammino necessario. Grazie.

PADRE ROSINO GIBELLINI. Ecco, chiudiamo questa sera. Vi ringrazio della grande attenzione, ringrazio poi gli oratori per averci intrattenuto e averci fatto meditare. Grazie a tutti.

[1] Testi non rivisti dagli autori.

[2] Pietro Scoppola, Un cattolico a modo suo, Brescia, Morcelliana, 2008, p.92.

[3] Cf. R. Ammicht-Quinn, Von Lissabon nach Auschwitz, Frankfurt 1992.

[4] Cf. Richard Schaeffler, Das Gebet und das Argument. Zwei Weisen des Sprechens von Gott, Düsseldorf 1989.

[5] Cf. Giacomo Leopardi, Operette Morali con aggiunti gli ABBOZZI delle carte napoletane, Introduzione e note di Gustavo Rodolfo Ceriello, Milano, 1966.

[6] Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1996, p.169-171

[7] Ibid., p.238

[8] Ibid., p.239

[9] Cf. San Francesco D’assisi, Laudes Creaturarum (Cantico di Frate Sole), 1224 ca. In: Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze, 1970, pag. 4, vv. 1-9.

[10] Ibid., pag. 5, vv. 23-24.

[11] Ibid., vv. 27-33.

[12] Si deve pure precisare: non si tratta di una teologia di Auschwitz, ma del problema: se e come parlare di Dio dopo Auschwitz, e cioè di quale teologia dopo Auschwitz.