Materia e memoria

1. LA MEMORIA, PUNTO DI INTERAZIONE TRA CORPO E SPIRITO – LO STUDIO DELLE AFASIE

 Nel 1896 Bergson pubblica Materia e memoria, che reca il sottotitolo «Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito». È un’opera ricca di contenuto e significativa, anche se non è divenuta mai popolare. «Questo libro – scrive Bergson nella prefazione dettata nel 1911 – afferma la realtà dello spirito, la realtà della materia, e cerca di determinare il rapporto tra l’uno e l’altra su un esempio preciso, quello della memoria». Il Saggio portava l’attenzione sul paradosso dell’io, quell’essere al tempo stesso identico e mutevole, liberando la durata reale della coscienza dallo schema della temporalità spazializzata. In Materia e memoria si riparte dall’osservazione secondo cui la vita interiore non sarebbe pensabile se l’esperienza cosciente non abbracciasse, nel mio presente, il mio passato come ricordo e il futuro come aspettazione. Insomma, come aveva ben visto Agostino nel libro XI delle Confessioni, senza la simultanea compresenza di più momenti alla coscienza, il tempo non sarebbe e non vi sarebbe neppure un io: un presente come polvere di istanti si dissolverebbe nel nulla, il passato sarebbe inconcepibile e così pure il futuro. Il tempo vissuto della coscienza è, invece, ben reale, proprio perché la coscienza è memoria e la memoria, coestensiva alla coscienza, è capace di riportare il passato nel presente, pur lasciandogli la sua qualità di passato.

L’uomo, però, non è soltanto coscienza e libertà, memoria pura, spirito. Ha un corpo e la sua vita interiore si esprime necessariamente con parole, gesti e movimenti che si dispiegano nello spazio. La coscienza dell’uomo dev’essere compresa, pertanto, nella sua relazione effettiva con tutto l’uomo e, dunque, con il suo corpo. Ci si deve chiedere, allora, se c’è e in che cosa consiste un punto di inserzione e di interazione tra materia e memoria, corpo e anima, cervello e coscienza. Per Bergson la memoria è un fenomeno in cui il fatto psicologico e quello fisiologico si incontrano e si mescolano tra loro. L’approfondimento della durata reale porta così a studiare il rapporto tra l’io e la sua base organica come il problema chiave a cui non può sottrarsi un’indagine autenticamente metafisica. Nel Saggio la filosofia si accompagnava alla psicologia, in Materia e memoria si collega a un’altra «scienza della vita», la neurofisiologia. Bergson si appresta a rispondere a questi grandi interrogativi con un atto di rinnovata fedeltà al suo metodo, sì che l’opera del 1896 appare in senso forte «un lavoro su misura dei fatti osservati».

Da almeno tre secoli, a partire da Cartesio, scienza e filosofia sostengono che, «essendo posto uno stato cerebrale, ad esso segue uno stato psicologico corrispondente». È questa la tesi del parallelismo psicofisico, che nella seconda metà dell’Ottocento sembrò trovare un inizio di prova sperimentale nel fatto che a certe lesioni degli emisferi del cervello si accompagnano determinate turbe nelle facoltà intellettuali. Nel 1861 destò enorme impressione l’osservazione del medico francese Paul Broca che le malattie della memoria delle parole, o afasie, sono causate da una lesione della terza circonvoluzione frontale sinistra. Divenne opinione comune che la memoria fosse una semplice funzione del cervello e che i ricordi visivi, auditivi, motori delle parole fossero depositati all’interno della corteccia cerebrale come delle lastre fotografiche che conservano impressioni luminose, o dei dischi che registrano vibrazioni sonore. La serrata, puntuale verifica dell’attendibilità o meno di una tale ipotesi, arbitrariamente trasformata in dogma scientifico, fu il punto di partenza della lunga, complessa ricerca esposta in Materia e memoria.

Su questa prima, decisiva questione quali furono i risultati a cui Bergson pervenne? Essenzialmente due: 1. una lesione cerebrale può causare disturbi del riconoscimento uditivo o visivo, ma non per questo siamo autorizzati a pensare che vi sia una scorta di ricordi accumulata nel cervello; 2. la pretesa di localizzare i ricordi nel cervello è insostenibile da ogni punto di vista, mentre tutto sta ad attestare che il cervello serve a richiamare il ricordo e non a conservarlo. I fatti, considerati senza pregiudizi, non solo non confermano, ma non suggeriscono neppure la tesi del parallelismo; in particolare, le ricerche sulle afasie, supportate da «un’incredibile quantità di osservazioni» – tratte dall’anatomia, dalla fisiologia e dalla psicologia – fanno emergere sul funzionamento del cervello ipotesi di tutt’altro tipo (1).

Sulla credenza che fa del cervello il serbatoio dei ricordi Bergson sviluppa alcune considerazioni preliminari. La prima è che, «quand’anche fosse dimostrato che una cosa è in un’altra, con ciò non si chiarirebbe affatto il fenomeno della sua conservazione» (Matière et mémoire in Oeuvres, Édition du Centenaire, PUF, 1959, 19702, 290). La seconda osservazione è formulata in questi termini: «Ammettiamo per un istante che il passato sopravviva allo stato di ricordo immagazzinato nel cervello. Sarà allora necessario, per lo meno, che il cervello, per poter conservare il ricordo, si conservi a sua volta» (ibid., 290). Si provi, infine, a riflettere sulle strane conseguenze che deriverebbero da un’ipotesi di questo genere. «L’immagine uditiva di una parola – scrive Bergson – non è un oggetto dai contorni definitivamente definiti, perché la stessa parola, pronunciata da voci differenti o dalla stessa voce in toni diversi, ci dà suoni differenti. Di una parola ci saranno, dunque, tanti ricordi uditivi quanti sono le altezze del suono e i timbri della voce. Tutte queste immagini si ammasseranno nel cervello, oppure ne verrà preferita una, e quale? (2)… Ma per un cervello che registra e può registrare solo la materialità dei suoni percepiti, per una stessa parola ci saranno mille e mille immagini distinte» (ibid., 262). Se poi le innumerevoli sensazioni, immagini, percezioni modificano anch’esse materialmente il cervello, non si capisce come si possa conservare intatto un ricordo nel susseguirsi vertiginoso di modificazioni, ognuna delle quali, a sua volta, modifica tutte le altre.

Il non senso della domanda «dove sono di casa i ricordi?» emerge nella maniera più chiara soprattutto dall’esame delle afasie, cioè di quei fenomeni patologici che i sostenitori della localizzazione dei ricordi nel cervello adducono a prova in favore della loro tesi. In tal modo la scelta metodologica operata dall’Autore di Materia e memoria assume il carattere di una sfida a ciò che si dà per scontato e che, essendo stato acquisito come avente valore scientifico, è divenuto luogo comune. In effetti tutti gli argomenti che possono essere invocati a favore dell’accumulazione dei ricordi nella sostanza corticale fanno leva sulle malattie localizzate della memoria. «Ma se i ricordi – incalza Bergson – fossero realmente depositati nel cervello, a una dimenticanza netta corrisponderebbe sempre una ben netta lesione del cervello. Ora, nelle amnesie in cui dalla memoria viene strappato bruscamente un intero periodo della nostra vita passata, non si osservano lesioni cerebrali precise; al contrario, nei disturbi della memoria in cui la localizzazione cerebrale è netta e certa, cioè nelle afasie e nelle malattie del riconoscimento visivo e uditivo, non sono questi o quei ricordi determinati ad essere strappati dal luogo in cui si troverebbero, ma è la facoltà del ricordo che è più o meno diminuita nella sua vitalità, come se il soggetto trovasse una maggiore o minore difficoltà nel mettere a contatto i suoi ricordi con la situazione presente… Per questo, in tutti i casi in cui una lesione colpisce una certa categoria di ricordi, i ricordi colpiti non si assomigliano per il fatto di appartenere tutti a una stessa epoca, o perché vi è tra loro una parentela logica, ma semplicemente perché sono tutti uditivi, o tutti visivi, o tutti motori» (ibid., 367-68). Dunque, più che i ricordi stessi sembra che ad essere lesi siano i meccanismi che permettono alla memoria di agire; ma se le cose stanno così, la memoria è qualcosa di diverso da una funzione del cervello.

Nel gran numero di afasie puntigliosamente studiate da Bergson, noi ne scegliamo una in virtù del particolare contributo che essa è in grado di offrire al problema in discussione. «Nel loro scomparire le parole seguono un ordine metodico e grammaticale, lo stesso che ci viene indicato dalla legge Robot (3): si eclissano prima i nomi propri, poi quelli comuni, ed infine i verbi… Come spiegare il fatto che l’amnesia segue un andamento del genere? Se le immagini verbali fossero realmente depositate nelle cellule della corteccia sarebbe praticamente impossibile: non sarebbe strano, infatti, che la malattia intaccasse sempre queste cellule nello stesso ordine?» (ibid., 264-65). Se i ricordi fossero localizzati in determinate cellule della sostanza cerebrale, la distruzione di quelle cellule comporterebbe la distruzione dei ricordi in esse immagazzinati; ma i ricordi, come si sa, ritornano non appena si siano ricostruiti i meccanismi motori a cui la coscienza fa ricorso per attualizzarli (4); dunque l’ipotesi della localizzazione dei ricordi nel cervello è falsa. Occorre allora rappresentarci in un’altra maniera il rapporto tra cervello e coscienza.

 2. CERVELLO E COSCIENZA

 I fatti esaminati sembrano suggerire una conclusione: il pensiero, la coscienza, lo spirito – l’anima per usare il termine della tradizione filosofica inaugurata da Socrate e della tradizione religiosa ebraico-cristiana – ha bisogno del cervello per esprimersi, non per essere. Lo spirito non ha nel cervello la sua sorgente e lo oltrepassa infinitamente. Il cervello serve a richiamare il ricordo in rapporto a un certo tipo di azione, a un interesse, a una percezione. Esso è il filo conduttore che ci inserisce, mediante i suoi meccanismi, in una realtà, in una situazione. «Il cervello è una specie di ufficio telegrafico, il cui ruolo è di passare la comunicazione, oppure di farla attendere» (ibid., 180-81).

Il cervello non aggiunge nulla a ciò che riceve, ma è il centro a cui si collegano tutti gli organi percettivi. Esso riceve il movimento e lo restituisce: per suo mezzo l’eccitazione periferica entra in rapporto con l’uno o l’altro meccanismo motorio. Il suo ruolo è condurre il movimento raccolto ai meccanismi motori e smistarlo tra essi, limitandosi ad abbozzare una pluralità di azioni possibili (ibid., 181). Di qui l’altra immagine a cui ricorre Bergson: «Il cervello è simile ad un interruttore, che permette di erogare la corrente ricevuta da un punto del corpo ai dispositivi motori, tra i quali a noi tocca scegliere» (L’énergie spirituelle, 821 e 848). Nell’uomo il cervello sostituisce al sistema degli adattamenti infallibili, ma unilaterali e ciechi, dell’istinto, un sistema che tra la sollecitazione esterna e la risposta intercala un intervallo, in cui l’io si inserisce facendo valere la sua capacità di discernimento, di rinvio, di scelta. Insomma, il cervello ha un funzionamento «moratorio» (mora = indugio) che abbozza, in qualche modo, l’indeterminazione del nostro volere. Guadagnare tempo per la coscienza significa, infatti, sottrarsi al meccanismo eccitazione-risposta e, dunque, scegliere.

Dello stato psichico il cervello disegna soltanto la parte capace di tradursi in movimento, esteriorizzando quanto lo stato di coscienza contiene di azione, quel che di esso è l’aspetto motorio, schematico, rappresentabile in rapporti spaziali. È ovvio che, se il meccanismo motorio si guasta, ne subiamo gli effetti, ma questo non significa affatto che sia il cervello a generare la coscienza. Le lesioni e le malattie non aboliscono mai il ricordo in quanto tale, ma compromettono certamente questa o quella funzione necessaria al suo attualizzarsi. Il ricordo sussiste anche quando sono interrotti i meccanismi motori che ci aiutano a renderlo presente; si che una volta che questi siano ricostituiti, esso può tornare ad essere evocato.

L’esperienza ci mostra che la vita dell’anima è legata alla vita del corpo, che tra essi vi è bene una relazione; ma chi oserà pensare che una relazione tra due termini equivalga a uno di essi? Il problema è chiarire qual è questa relazione, in che cosa consiste. Tra la vita del corpo e la vita della coscienza vi è solidarietà. Un abito è solidale con il chiodo al quale è appeso: cade se si strappa dal chiodo, oscilla se il chiodo è smosso, si buca se la testa del chiodo è troppo appuntita; non ne segue, però, che ogni particolare del chiodo corrisponda ad un particolare dell’abito, né che il chiodo sia l’equivalente dell’abito. «La coscienza è innegabilmente appesa ad un cervello, ma da questo non discende affatto che il cervello disegni ogni particolare della coscienza, né che la coscienza sia una funzione del cervello» (L’énergie spirituelle, 842).

La relazione del cervello con il pensiero è complessa e sottile. «Se mi chiedete di esprimerla in una formula semplice, necessariamente approssimativa, io direi – scrive Bergson – che il cervello è un organo di pantomima, e soltanto di pantomima. Il suo ruolo è mimare la vita dello spirito, mimare anche le situazioni esterne a cui lo spirito deve adattarsi» (ibid., 850). Il meccanismo cerebrale sta al pensiero e alla coscienza press’a poco come il via vai degli attori sulla scena, i loro gesti, i loro atteggiamenti stanno al testo che essi interpretano. Se non conosciamo il testo, quel susseguirsi di movimenti ci dirà ben poco sulla commedia che viene rappresentata e sul suo valore. In una buona commedia, infatti, vi è molto più che nei movimenti con i quali la si rappresenta (Matière et mémoire, 165-66). Non meno calzante è l’altra immagine a cui Bergson ricorre: «L’attività cerebrale sta all’attività mentale come i movimenti della bacchetta del direttore d’orchestra stanno alla sinfonia. La sinfonia supera da ogni lato i movimenti che la scandiscono; allo stesso modo, la vita dello spirito supera la vita cerebrale» (L’énergie spirituelle, 850). Ma il cervello, proprio perché trae dalla vita dello spirito tutto ciò che in essa è materializzabile e che può essere trasformato in movimento, proprio perché costituisce il punto di inserimento dello spirito nel corpo, assicura in ogni istante l’adattamento dello spirito alle circostanze, mantenendo di continuo lo spirito in contatto con le realtà che lo circondano. «Il cervello, dunque, non è organo di pensiero, né di sentimento, né di coscienza; ma fa sì che coscienza, sentimento e pensiero restino tesi sulla vita reale e, di conseguenza, capaci di azione efficace. Diciamo, se volete, che il cervello è l’organo dell’attenzione alla vita» (ibid., 850-51).

  3. LE DUE MEMORIE

 Nel linguaggio corrente con lo stesso termine di memoria noi indichiamo due modi radicalmente diversi di concepire il ricordo. «Studio una lezione e, per impararla a memoria, la leggo scandendo prima ciascun verso; la ripeto poi un certo numero di volte. Ad ogni nuova lettura si accompagna un progresso; le parole si collegano sempre meglio; finiscono per organizzarsi in un insieme. In quel preciso momento io conosco a memoria la mia lezione… Il ricordo della lezione ha così tutti i caratteri di un’abitudine. Come l’abitudine, viene acquisito attraverso la ripetizione di uno stesso sforzo. Come l’abitudine, all’inizio ha richiesto la scomposizione e poi la ricomposizione dell’azione completa. Come ogni esercizio abituale del corpo, esso si è inserito in un sistema chiuso di movimenti automatici, che si succedono nel medesimo ordine e occupano il medesimo tempo… Al contrario, il ricordo di una lettura particolare di quello stesso testo non ha alcuno dei caratteri dell’abitudine. Esso è come un evento della mia vita; [in questo senso] porta essenzialmente una data, e di conseguenza non può ripetersi» (Matière et mémoire, 225-26).

La distinzione fra i due tipi di ricordo è così fondamentale che si deve parlare di due memorie: l’una meccanica, l’altra spirituale; l’una che trova nei meccanismi motori del cervello il suo strumento, l’altra, che può ben dirsi «memoria pura», in quanto distinta dalla sensazione e dalla percezione. La memoria abitudine è del corpo, la memoria pura è lo spirito. Della prima si occupa la psicologia, ma anche la fisiologia, la medicina, la neurochirurgia; della seconda la metafisica. La memoria pura, infatti, definisce nella sua essenza e nella sua purezza la realtà spirituale e con essa si identifica.

Ciò che ha aggrovigliato inestricabilmente il problema del rapporto tra l’anima e il corpo è l’aver confuso memoria pura e percezione, riducendo così ogni tipo di ricordo a una percezione illanguidita, a un suo surrogato. Le cose stanno in modo radicalmente diverso. Nell’Evoluzione creatrice Bergson svilupperà, in rapporto al lavoro dell’«intelligenza», quello che qui si dice della percezione. La percezione delinea semplicemente ciò che interessa la mia possibile azione sugli oggetti: tutto il resto, pur appartenendo alla natura effettiva di ciò che percepisco, deve essere accantonato, essendo necessario l’oblio di molte cose perché io possa far qualcosa. Ciò che è percepito esiste realmente, ma è solo una parte della realtà percepita. «La mia conoscenza della materia non è più allora né soggettiva, come per l’idealismo inglese, né relativa, come pretende l’idealismo kantiano. Non è soggettiva perché essa è nelle cose piuttosto che in me. E non è relativa, perché tra i fenomeni e la cosa non c’è un rapporto apparenza-realtà, ma semplicemente quello parte-tutto» (Matière et mémoire, 361).

La memoria pura di ogni persona fa tutt’uno con la storia della sua vita. Dire che il ricordo non è in un luogo significa dire che si conserva in se stesso e, dunque, è spirito. Nel secondo degli scritti metodologici, Sul modo di porre i problemi, che è del 1922, Bergson tornerà su questo punto, che è forse l’aspetto più profondo della sua teoria della memoria. «Ci siamo accorti che l’esperienza interna allo stato puro, dandoci una sostanza la cui stessa essenza è di durare, e per conseguenza di prolungare ininterrottamente nel presente un passato indistruttibile, ci aveva dispensato, ci aveva impedito di cercare il luogo dove si conserva il ricordo. Il ricordo conserva se stesso» (La pensée et le mouvment, 1315). La portata extra-psicologica e propriamente metafisica di questa affermazione è evidente. Del resto in un passo non meno importante di Materia e memoria Bergson aveva riassunto il suo pensiero sull’argomento in questi termini: «Quando cerchiamo un ricordo che ci sfugge, abbiamo la coscienza di un atto sui generis per il quale ci stacchiamo dal presente per portarci prima nel passato in generale, poi in una determinata regione di esso: procedimento per tentativi, simile alla messa a punto di un apparecchio fotografico. Ma il nostro ricordo rimane ancora allo stato virtuale; così facendo, ci disponiamo semplicemente a riceverlo adottando l’attitudine appropriata. A poco a poco esso appare, come una nebulosa che si condensi; da virtuale, diviene attuale» (Matière et mémoire, 276-77).

La profondità ontologica della memoria è la natura dello spirito, la sua intima durata, ma è anche il fondamento di ciò che si esperisce nel tempo. Certamente «uno stesso atto dello spirito può giocarsi a numerose altezze» (ibid., 251). Occorre, perciò, non confondere l’essere con l’essere presente. Lo spirito è una realtà assai più ampia rispetto a ciò che di sé passa nella coscienza. L’uomo, insomma, è assai più di quel che appaia a se stesso, anche se per lo più vive immemore di sé.

 NOTE

 1. La nuova visione dei rapporti tra cervello e pensiero apparve indubbiamente paradossale quando fu pubblicata Materia e memoria. Ben presto, però, vennero gli studi di illustri fisiologi come P. Marie, K. N. Monakow e R. Mourgue a confermare il punto di vista bergsoniano. Ad esso si collegarono nei decenni successivi le ricerche di molti altri neurofisiologi, in modo esplicito quelle di E. Minkowski (Il tempo vissuto, trad. it. Einaudi, Torino, 1975) e, per via indiretta, quelle di J. Eccles (L’io e il suo cervello, il 2° vol. «Strutture e funzioni cerebrali» trad. it. Armando, Roma, 1981; Il mistero uomo, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 19830.

 2. «Ma ecco una cosa non meno imbarazzante. Per noi una parola ha acquistato una sua individualità solo dal giorno in cui i nostri maestri ci hanno insegnato ad astrarla. All’inizio noi non impariamo a pronunciare delle parole, ma delle frasi. Una parola si anastomizza sempre con quelle che l’accompagnano, e a seconda dell’andamento e del movimento della frase di cui è parte integrante, assume aspetti diversi… Ma, a meno di supporre che tutti gli uomini abbiano una voce identica che pronuncia con lo stesso tono le stesse frasi stereotipe, non vedo proprio come le parole sentite potrebbero congiungersi con le loro immagini nella corteccia cerebrale» (Matière et mémoire, 262-63).

3. Th. Ribot aveva pubblicato nel 1881 Le malattie della memoria.

4. Le guerre e lo spaventoso moltiplicarsi di incidenti hanno posto e pongono sotto gli occhi di tutti un fatto: ci sono persone che, pur avendo perduto della materia cerebrale, talora in quantità notevole, a poco a poco e dopo qualche tempo riacquistano l’attività motoria, riprendono a parlare, a ricordare e a ragionare. Ebbene, in quei soggetti si constata che, malgrado la fuoriuscita di materia cerebrale, non sono fuoriusciti i ricordi – salvo, com’è naturale, quello dell’incidente, che non avevano avuto il tempo di organizzarsi. Tutto ciò porta una evidente conferma alle vedute di Bergson.

Testo tratto da Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, La Scuola Editrice, Brescia 1996, pp. 21-27, esaurito.