Meditazione biblica: “Lo spirito viene in aiuto alla nostra debolezza” (Romani 8,26)

Il versetto biblico indicato come sintesi della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani per il 1998 ci propone due temi, ciascuno dei quali fa tremare i polsi: lo Spirito e la debolezza umana. Mi riprometto di fare alcune considerazioni preliminari sul tema dello Spirito e poi scansando la tentazione di collegare direttamente Spirito e debolezza (con l’inevitabile rischio di un cortocircuito teologico), prenderò in esame il testo biblico dell’epistola ai Romani che fa da contesto al versetto – base richiamato per farvi emergere i temi della meditazione biblica che vorrei proporvi.
Per sottolineare l’importanza del tema della settimana in questa nostra sezione basta fare una considerazione statistica: il termine “Spirito” ricorre 5 volte nei cap. 1-7, ricorre 8 volte nei cap. 9-16, nel solo capitolo 8 è presente ben 21 volte. D’accordo, la statistica non fa teologia, però indica una tematica non secondaria nell’argomentazione che si sta sviluppando.

1. Il nostro “debito” teologico sullo Spirito

Se facciamo una panoramica storica a largo raggio sul temi della teologia, sviluppati dalla riflessione teologica, ci accorgiamo subito che l’elaborazione della chiesa occidentale è fortemente mancante: alcuni capitoli li ha elaborati in profondità, altri li ha trascurati alla grande. Per quanto riguarda il discorso sullo Spirito, quindi la “pneumatologia” (così dice chi studia le scienze biblicoteologiche), la riflessione occidentale è in debito con la terza persona della Trinità, a differenza del mondo ortodosso orientale che, invece, ne ha fatto oggetto prolungato di riflessione. Quando la teologia e il mondo occidentale si incontrano con la teologia e il mondo orientale questa mancanza è evidente in ogni discorso teologico serio. E non si tratta di una mancanza da poco conto. Per renderci conto dell’ammontare del debito che abbiamo, primo passo necessario per procedere ad una correzione di rotta, basta fare un semplice riflessione che potremmo chiamare di “storia del dogma”. Prendiamo come indicazione della struttura architettonica della teologia il Credo apostolico, la confessione di fede della Chiesa primitiva che tutti, cattolici, ortodossi e protestanti riconosciamo e onoriamo nelle nostre chiese. In teologia, tradizionalmente il Credo viene suddiviso in tre articoli: su Dio il Padre, sul Figlio e sullo Spirito santo e la relativa opera. Ebbene, del Padre e della sua opera di creatore la teologia nei secoli ha elaborato molto e la Chiesa è pervenuta a fissare alcuni dogmi della fede che valgono per tutte le chiese cristiane. La stessa cosa si può dire di Gesù Cristo, della sua persona, del suo rapporto con il Padre e della sua opera di salvezza. Anche di questo secondo articolo del Credo la Chiesa ha elaborato molto ed ha fissato in più dichiarazioni vincolanti dogmaticamente, la sua comprensione.
Ci saremmo aspettati che anche sul terzo articolo del Credo, quello sullo Spirito santo, si fosse discusso a fondo e definito alcuni dogmi. La cosa è avvenuta, ma non nella stessa misura dei primi due articoli. Mi spiego: la ricchezza del contenuto del terzo articolo è stata “disarticolata” e distribuita in vari capitoli della riflessione teologica e della dogmatica, e cosi si è persa la visione d’insieme, il momento di sintesi, per ricondurre le varie e importanti affermazioni all’interno della visione pneumatologica. La formulazione del terzo articolo del Credo (quello sullo Spirito) parla di molti argomenti: la Chiesa, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione, la vita eterna: tutti argomenti discussi ed elaborati nella riflessione teologica e spesso fissati nella dogmatica (si pensi alla ecclesiologia che vede spuntare da una sua costola tutto il problema dei ministeri e dei sacramenti). Bene, tutti questi argomenti dovrebbero essere trattati nell’ambito della discussione sullo Spirito, cosa che non sempre è avvenuta, diversamente dal mondo ortodosso, dove questo collegamento è stato mantenuto. Per questo la teologia ortodossa, pur nelle sue differenziazioni, ha molto sviluppato il discorso dello Spirito, che è presente in tutti questi argomenti come sua bussola di riferimento.
Questo è il nostro debito teologico, la nostra mancanza. Non possiamo modificare il passato, potremo, però, prestare nuova attenzione allo Spirito nel nuovo millennio. Inoltre, e questo va a nostro disdoro, lo Spirito si prende le sue “rivincite” all’interno del mondo protestante assistiamo al fiorire di nuove chiese e nuovi gruppi di ispirazione pentecostale, che hanno appunto questo capitolo della teologia come punto di riferimento centrale, a scapito degli altri argomenti della strutturazione teologica. Qui il nostro errore viene rovesciato: si parla molto dello Spirito, che diventa quasi l’interlocutore per eccellenza delle tre persone “storiche” della Trinità, a scapito delle altre due, tanto di queste si occupano le altre chiese. Mi sembra che lo stesso fenomeno si verifichi all’interno della chiesa cattolica con il movimento dei carismatici: lo Spirito non rimane senza testimoni e queste novità maturate nell’ultima parte del secondo millennio nelle nostre chiese ci richiamano alle nostre mancanze. Voi cattolici, ma non debbo essere io protestante a richiamarvelo, avete una occasione speciale: nella Tertio millennio adveniente (nn. 44 48) lo Spirito santo viene indicato come tema specifico di riflessione per il 1998, secondo anno in preparazione al Giubileo del 2000. Un motivo in più per ripensare la teologia dello Spirito nella sua totalità e ricchezza di riferimenti interni. Non so, ma non sarei troppo sorpreso, se la scelta del tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno sia stata dettata o guidata da questa circostanza: se fosse vero, avremmo la dimostrazione che le chiese cristiane interagiscono l’una con l’altra, dandosi reciprocamente una mano. Tutto questo mi sembra argomento di meditazione emotivo di impegno teologico.

2. Il contesto generale

Molti teologi ed esegeti riconoscono che questo capitolo è uno dei culmini più alti della riflessione teologica paolina e nello stesso tempo uno dei culmini dell’ispirazione poetica del suo autore. Dall’intreccio di questi due dati deriva che il testo costituisce un capitolo estremamente complesso e arduo da decifrare in tutti i suoi risvolti: una vera sfida rivolta agli esegeti.
Trovandoci di fronte ad un testo di interpretazione complessa, la prima cosa da fare, per evitare quei cortocircuiti ai quali accennavo prima, è di inquadrarlo nel proprio contesto: l’antica legge dell’ermeneutica, per cui il particolare va letto alla luce del contesto generale, il quale a sua volta riceve le sue verifiche dai vari particolari, sia ancora l’unica valida. Il contesto del nostro testo, quindi. Nei capitoli 1-4 Paolo ha enunciato e dimostrato con l’argomentazione esegetica e teologica la validità della tesi enunciata in 1,18: “il giusto vivrà per fede”. A partire dal capitolo 5, Paolo procede ad applicare questa impostazione teologica, finora solo “teorica”, alla vita dei credenti e a trarne le conseguenze pratiche. Si parla prima degli effetti della giustificazione per grazia mediante la fede, per poi passare a fare i conti con la realtà umana nella sua complessità e problematicità. Il primo confronto è quello del rapporto fra la grazia e il peccato dell’uomo (e qui c’è il confronto Adamo-Cristo, cap. 5), che trova una sua definizione con l’immagine della morte e della vita nuova, del morire con Cristo per rinascere con Cristo (cap. 6). Segue poi il secondo confronto: quello del valore e del ruolo della legge nella vita dell’uomo, con l’esame del rapporto fra questi, la situazione di peccato e il ruolo svolto dalla legge (cap. 7). Ci troviamo dinanzi al famoso capitolo che parla dell’asservimento dell’uomo al peccato e del ruolo giocato dalla legge, con l’affermazione finale della liberazione dal peccato e dalla morte.
Arriviamo cosi al nostro capitolo 8, in cui Paolo riprende il tema della liberazione dal peccato e dalla morte, inquadrando il tutto come dono e opera dello Spirito santo. Solenne è l’inizio: “Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù per poi procedere alla visione della vita vissuta in questa prospettiva, con il canto della speranza che riguarda i credenti, senza dimenticare neanche per un momento la loro realtà storica e piena di umanità. Siamo cosi arrivati al nostro testo.
Per Paolo è chiaro che la giustificazione, la salvezza, o altro nome con cui si vuol indicare questo nuovo rapporto fra l’uomo e Dio, è reso attuale dallo Spirito: si potrebbe dire che è lo Spirito a darci la salvezza, anzi: dove c’è salvezza, là c’è lo Spirito e viceversa, dove c’è lo Spirito, là c’è salvezza e ogni benedizione divina. E’ bene tener presente questo passaggio fondante di ogni sana teologia, e comunque di impostazione paolina. Nel riprendere con altra immagine la portata dell’azione della grazia di Dio verso di noi, Paolo parla della nostra figliolanza rispetto a Dio, del nostro diventare eredi di Dio, coeredi di Cristo, quindi se la nostra condizione umana attuale è ancora piena di sofferenza, parallela a quella di Cristo, cosi sarà anche per la nostra glorificazione, anch’essa parallela a quella di Cristo (8,17). E’ questo versetto che apre il tema del confronto fra la futura glorificazione (di cui abbiamo diritto in quanto “eredi”) che ci è promessa e la condizione di debolezza e di sofferenza nella quale viviamo attualmente. Qual è il ruolo della speranza? In che modo tutto questo si inserisce nella nostra vicenda umana, e non solo umana, come vedremo, cambiandola di segno? Per inquadrare bene i dati della riflessione: la nostra debolezza viene vista nel rapporto fra la realtà della salvezza attuale e la speranza della glorificazione futura, tutti e due doni e frutti dello Spirito. Questo, come si comprende facilmente, è ben altra cosa di quel famoso corto-circuito fra Spirito e debolezza di cui si parlava all’inizio. Qui il discorso teologico ha un respiro ben più ampio e più coinvolgente. Fra la salvezza attuale e la glorificazione che ci attende, si inserisce la nostra debolezza: qui c’è una contraddizione che fa sorgere un interrogativo drammatico: la condizione umana, caratterizzata dalla debolezza e dalla sofferenza, non nega forse la realtà della salvezza e ancor di più la speranza della glorificazione, rendendola una pura illusione, un sogno mistificatorio? Ma questo sarebbe un mettere in forse la realtà e l’opera stessa dello Spirito santo. Come vedete, si tratta di domande pesanti.

3. Il contesto specifico (8,18-30) e l’argomentazione paolina

Paolo sviluppa un’argomentazione complessa, perché tale anche è il tema che sta affrontando. Come sempre, ad una domanda complessa non si può dare risposta semplice, altrimenti si dimostra di non saper cogliere la complessità della domanda con tutte le sue sfumature e implicazioni specifiche. E le domande sono effettivamente complesse, dirompenti e radicali: se non ottengono risposta plausibile e teologicamente corretta minacciano di distruggere tutto l’annuncio della salvezza, rendendo vana l’intera vicenda di Cristo: la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione.
Per rendere chiara l’argomentazione paolina vorrei richiamarla in una breve sintesi, per poi farne rilevare alcuni aspetti caratteristici. L’incipit di questa sezione ha cadenze poetiche e teologiche uniche: “Io stimo che le sofferenze del tempo presente non siano punto da paragonare con la gloria che ha da essere manifestata a nostro riguardo” (v. 18). L’occhio di Paolo è concentrato sulla meta, cioè sulla gloria del compimento finale: questo è il suo punto archimedeo, attorno al quale tutto ruota e tutto acquista senso. Da questa prospettiva egli riflette sulla situazione dei credenti “nel momento attuale”, nell’oggi del tempo presente del mondo, caratterizzato anzitutto dalle sofferenze in modo cosi vigoroso e inopportuno. Da quella prospettiva tutto questo acquista una nuova dimensione e una diversa valutazione: se si volessero confrontare sofferenze e glorificazione, si commetterebbe un errore prima di metodo e poi di merito: si tratta di due grandezze non paragonabili, che appartengono a due ordini diversi, che vivono in due realtà diverse, sono quindi incommensurabili. Nello stesso tempo, la possibile proporzione, sia di intensità, sia di grandezza, gioca tutta a favore della glorificazione, mai della sofferenza. La sproporzione è talmente grande che le sofferenze si dissolvono al semplice accostamento alla glorificazione con la sua grandezza e maestosità. Non c’è alcuna possibilità di paragone.
Questa è l’impostazione teologica di fondo e irrinunciabile, ma come la mettiamo con la situazione storica, in cui il credente si scontra con le sofferenze? Come passare dall’affermazione teologica alla situazione vissuta che sembra contraddirla? Come si fa a capire che la salvezza è giunta, se il credente si trova a vivere ancora in un mondo contraddittorio, chiaramente ostile, nel quale sperimenta personalmente difficoltà, tormenti, sofferenza e morte?
L’argomentazione si articola in vari momenti, tutti pregnanti, che pongono alla nostra attenzione temi sempre nuovi e collegati fra di loro. Ma prima di procedere all’esame dell’argomentazione, vanno richiamati alcuni dati centrali che fungono da riferimento alla tesi paolina. La realtà contraddittoria si può comprendere un po’ meglio se si tiene presente che: a) Cristo stesso è arrivato alla gloria passando duramente attraverso la sofferenza e la morte, quindi anche per i credenti la sofferenza non è altro che un momento di transizione alla gloria, in una nuova situazione in cui la contraddizione è del tutto assente. b) per il credente non è proponibile alcun rapporto tra sofferenza e gloria, perché le due partecipano a due ordini diversi, a due realtà diverse, e non può esserci paragone o confronto possibile; quand’anche qualcuno osasse “paragonare” le due realtà, la gloria è di gran lunga maggiore. Lo stesso risultato si otterrebbe con l’enunciazione della sola speranza della gloria, rispetto alla sofferenza. c) la gloria futura è già in arrivo: per chi crede ci sono segni convincenti e autorevoli che la situazione di questo mondo, innanzi tutto dei credenti e poi del mondo intero, sta cambiando. La salvezza “è qui” e al tempo stesso “non è ancora qui”. C’è qualcosa che è già presente e in qualche modo condiziona e incide sul futuro mutandone il segno in vista del compimento finale, il tempo della completa manifestazione della gloria. Questo è il campo della speranza: che vive oggi nella realtà storica, un dato che non è ancora pienamente realtà presente, ma la vive “come se” lo fosse. Una speranza non infondata.
Queste sono le “coordinate teologiche” che fungono da sfondo all’argomentazione paolina, la quale si sviluppa in quattro momenti che, pur essendo chiaramente distinti, costituiscono, però, una argomentazione unitaria e univoca anche se complessa. I temi sono: il gemito della creazione, il gemito del credente, il “gemito” dello Spirito e la certezza dell’adempimento divino. In questa parte prevale l’esegesi, l’analisi testuale puntuale: cercherò di essere il meno tedioso possibile.

A. Il “gemito” della creazione

Nei vv. 19-22 Paolo chiama a suo testimone la creazione (il greco parla di ktisis, non di phusis, del creato, non della natura; creato in quanto risultato dell’opera creatrice di Dio allo stesso titolo dell’uomo: i credenti dovrebbero sempre rispettare questa distinzione e nello stesso tempo ricordare questo collegamento primordiale e fondante). Chi è giunto alla fede ha una nuova sensibilità: vede che lo stato attuale del creato non corrisponde ancora allo stato definitivo voluto dal creatore e ne sente i gemiti e il travaglio. Sono i segni dal passaggio a qualcosa di nuovo. Non si tratta di un’affermazione scientifica, ma di una interpretazione teologica della situazione in cui versa il creato, una contraddizione simile a quella del credente.
Ascoltando attentamente la creazione, Paolo vi avverte una profonda inquietudine, un’inquietudine che sale dalle radici, un movimento che proviene dalle sue stesse fondamenta La creazione non è pacificata con se stessa, ma in qualche modo sottoposta ad una legge superiore di corruzione che si presenta in molte manifestazioni diverse. Anzi, la creazione è stata sottoposta alla corruzione non per propria colpa, né di propria volontà, ma per colpa altrui (v. 20): anche qui il legame uomo-creato è molto forte, tanto che il creato condivide, incolpevole, la stessa sorte dell’uomo. La sensibilità del credente legge nel gemito creato l’anelito a uscire dal disordine, dalla contraddittorietà, dall’essere incompiuta dalla transitorietà, dalla corruzione e dalla rovina. Il credente sa che un giorno questa attesa cederà il posto al compimento, la provvisoria imperfezione e l’incompiutezza lasceranno il posto alla perfezione e al compimento definitivi. Questo accadrà nello stesso momento in cui i figli di Dio arriveranno alla glorificazione. Non è un caso che il Nuovo Testamento, in altre pagine parli di “nuova creazione”, oppure di “nuovi cieli e di nuova terra”.
Il “gemito” di cui parla il testo è quello della sofferenza da travaglio, del parto della nascita di qualcosa di nuovo. Quindi creato e credente sono accomunati in una medesima situazione e in una medesima speranza: “entrare nella libertà della gloria” (v. 22). Il compimento della creazione non viene messo su un livello “naturale”, ma significativamente in diretto rapporto con la salvezza che è toccata al di Dio. La natura sarà
“liberata dalla servitù della corruzione” (v. 21) per partecipare alla medesima gloria dei credenti. Il legame uomo – creato, presente al momento della creazione, viene mantenuto sia nella fase transitoria, segnata dalle tracce del peccato, sia in quella definitiva, segnata dalla glorificazione.

B. Il “gemito” dell’attesa umana

Nei vv. 23-25 Paolo si collega alla riflessione e all’immagine del gemito che proviene dalla creazione e la applica anche al credente. Come la creazione, anche il credente “geme” (“non solo essa, ma anche noi” v. 23). Anche il credente, pur avendo ricevuto la salvezza e lo Spirito che la rende attuale, è consapevole di una realtà completa che per ora è soltanto promessa e non ancora suo possesso. Vive questa promessa come speranza, aiutato dallo Spirito che ne costituisce la caparra e primizia. Sente però che qualcosa non è ancora definitivo e “geme” in attesa di quel compimento, di quella realizzazione finale. Capisce bene che quel compimento (“l’adozione e la redenzione del nostro corpo”, v. 23) non va cercato nell’ambito della realtà né umana, né terrestre, ma in una dimensione altra da quella storica: deve provenire direttamente da Dio. E’ la promessa di Dio, che ora lui vive nella dimensione della speranza.
“Perché noi siamo stati salvati in speranza” (v. 24). La salvezza partecipa sia dell’attualità, sia della realtà ultima, non ancora pienamente realizzata, Ha una dimensione storica già presente e una dimensione che ancora attendiamo nella sua realizzazione definitiva e che quindi ci chiama a vivere nella speranza della sua competa manifestazione. La speranza, allora, è il segno che determina la vicenda spirituale del credente. E la speranza si può vivere soltanto a condizione che ciò che è promesso non sia ancora realtà, altrimenti non la si spererebbe più. Il possesso di una cosa sperata uccide la speranza, la annulla, la fa uscire di scena. La salvezza che viviamo sul piano storico, per quanto ricca, non è ancora la realtà finale che attende i credenti. Ebbene, è questa attesa che fa gemere i credenti nella speranza della manifestazione della gloria finale a loro riservata, nell’attesa “dell’adozione e della redenzione del corpo” (v. 23).

C. Il “gemito” dello Spirito

Nei vv. 26-27 Paolo applica anche allo Spirito, in quanto presente nei credenti, lo stesso gemito che accomuna il creato e il credente: anche lo Spirito si associa al gemito della creazione intera e “intercede per noi con sospiri ineffabili” (v. 26). Traduce in “sospiri ineffabili” (cioè non esprimibili in parole umane) quei “gemiti” che sente provenire dalla natura e dall’uomo, se ne fa intercessore, mediatore presso Dio. Questa “traduzione” è necessaria perché noi non sappiamo pregare, e spesso proprio la nostra preghiera è semplicemente un “gemito”: questo non saper che cosa pregare è segno ed espressione della nostra debolezza e della nostra incapacità. Collegandoci a quanto indicato prima, la nostra incapacità di vivere la speranza come speranza, chiedendo invece di avere qualcosa di più solido della speranza, viene letta da Paolo appunto come debolezza. Qui interviene lo Spirito che trasforma la preghiera che nasce dalla nostra debolezza in parole ineffabili, il linguaggio comprensibile a Dio. E Dio comprende le parole che gli sono rivolte dallo Spirito al nostro posto.

D. La certezza dell’adempimento divino

Nei vv. 28 30 si arriva all’affermazione fondamentale sulla certezza che Dio adempirà definitivamente il suo progetto salvifico a favore dei credenti. Questo progetto ha la sua origine in Dio, coinvolge l’uomo e il creato, ma procede in quanto sospinto sempre da Dio e sarà portato a compimento ancora una volta da Dio. L’uomo vi è coinvolto, ma non ne è l’interprete principale o il protagonista. E poiché Dio è impegnato in prima persona, la sua parola diventa realtà.
Il v. 28 sembra sintetizzare in una sola frase la portata teologica di quanto detto finora: “tutte le cose cooperano a bene di quelli che amano Dio”. Non separiamo queste parole dal loro contesto per dar loro un significato che non hanno. Nel corso della vita del credente le esperienze sono molte, non tutte positive: se la realizzazione futura del nostro essere glorificati dipendesse dalla nostra vicenda o dalle nostre capacità, allora potremo chiudere il discorso. Ma qui ci viene detto che ogni nostra esperienza va inquadrata nel contesto dell’azione benevola di Dio nei nostri confronti: in questo caso, e soltanto in questo caso, tutte le cose acquistano un segno diverso da quello che sembrano avere se guardate solo dal punto di vista umano. Ogni nostra esperienza è inserita in un progetto che va al di là di noi che ci coinvolge e ci accompagna piano piano fino al compimento finale: la redenzione. Questo è il nostro bene e non altro.
I vv. 29-30 costituiscono un testo unico nell’epistolario paolino: li hanno chiamati “la catena aurea” per la tematica affrontata e per l’orizzonte che prospettano. Il soggetto operante è sempre Dio, ma c’è un incalzare dell’argomentazione teologica che lascia senza fiato per l’audacia e le prospettive che apre e che non si ritrova mi nessun’altra pagina biblica.
Volendo richiamare soltanto i verbi fondamentali abbiamo: preconosciuti, predestinati, chiamati, giustificati, glorificati. Se traduciamo i verbi nel loro rispettivo sostantivo, così da avere il tema teologico richiamato, allora avremo: la preconoscenza di Dio, la predestinazione (e la elezione), la vocazione, la giustificazione, la glorificazione. Sono azioni che esprimono l’opera di Dio e fanno riferimento al passato, al presente e al futuro. Con pochi tratti propongono l’intera storia della salvezza e ci dicono che tutto rimane fermamente nelle mani di Dio, garantito da lui.
L’esegeta si trova in difficoltà quanto cerca di collegare questi cinque riferimenti: si tratta di un’azione progressiva, che si sviluppa da un verbo all’altro, fino a giungere alla sua conclusione? Sembrerebbe. Ma quando guardiamo tutto più da vicino, allora scopriamo che tutti i cinque verbi sono all’aoristo (il tempo dell’azione compiuta!). quindi dobbiamo rivedere la nostra prima risposta. Saremo allora disposti a leggere questi cinque riferimenti. come parti di un unico progetto che viene visto nella sua globalità e per poterlo presentare come progetto unico si deve indicare come già completato? La glorificazione, che nel corso del cap. 8 abbiamo visto come qualcosa che aspettiamo ancora, in questo caso viene considerata già acquisita in quanto Dio stesso è coinvolto mi prima persona. E se Dio si è impegnato con la sua parola, è come se la cosa fosse già certa, quindi acquisita. E’ una possibilità che mette in evidenza appunto la certezza dell’adempimento definitivo da parte di Dio. C’è un’altra possibilità: che i cinque riferimenti costituiscano non un processo m cinque fasi, ma una esperienza unica vista sotto prospettive diverse. Mi spiego meglio: i cinque verbi non sono altro che sinonimi, ciascuno dei quali mette in luce un aspetto specifico di un insieme complessivo. Sono linguaggi diversi di una medesima realtà teologica: in questo caso vengono utilizzati in particolare quelli che indicano l’impegno diretto di Dio, che fonda la certezza teologica di cui Paolo vuol fornire la giustificazione argomentata. Potrei continuare, ma è meglio che mi fermi qui.

4. Conclusione

Dobbiamo concludere: la ricchezza dei temi prospettati, l’importanza teologica, l’ispirazione spirituale e la dimensione poetica di questo testo non sfuggono a nessuno. L’orizzonte che si apre dinanzi a noi è veramente ampio: su questo piano, poche altre pagine bibliche possono reggere il confronto.
All’inizio ho accennato ad un cortocircuito fra Spirito e debolezza: sarebbe troppo facile mettere i due termini in confronto diretto e cominciare a riflettere su questo collegamento. L’argomentazione paolina, l’abbiamo visto, è molto più complessa e affonda le sue radici nella teologia, o meglio, nell’azione di Dio nel nostri confronti, resaci presente dalla presenza dello Spirito in noi, con l’obiettivo finale della glorificazione. Ma poiché la glorificazione, quello che saremo in via definitiva, non è ancora realtà presente, pur avendo ricevuto la salvezza e con essa il dono dello Spirito che ce la rende presente, siamo chiamati a vivere nella speranza.
La nostra debolezza si manifesta proprio mi questa situazione: non sappiamo vivere nella speranza e quindi “gemiamo”, e il creato “geme” insieme a noi. Il “gemito” nasce dalla consapevolezza di incompiutezza nella quale viviamo, dalla situazione di transitorietà nella quale ci troviamo a vivere e che non riusciamo ad accettare. Cioè non sappiamo vivere basandoci soltanto su di una chiara promessa di Dio che costituisce il fondamento della speranza alla quale siamo chiamati. E questa debolezza diventa seme di ben altre debolezze, la speranza diventa allora disperazione, se non trova chi la possa cambiare di segno. E qui Paolo ci propone da una parte l’ausilio dello Spirito che sovviene a questa nostra debolezza, e dall’altra ci fa intravedere il progetto grandioso dell’azione di Dio, che rimane stabile e fermo. Più di questo non può dire, e nient’altro diciamo noi.

Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 20.1.1998 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.