Miti di fondazione delle Olimpiadi

Ritornano i giorni delle Olimpiadi, e si ricomincia a parlare dei miti di fondazione e dei luoghi che hanno dato origine ai giochi. Già ai tempi dei poemi omerici Olimpia, che si trova nella provincia dell’Élide che fa parte della regione del Peloponneso, era considerata una città sacra, perché sede di un venerato oracolo di Zeus. Nei pressi di questo santuario venne più tardi identificato un recinto sacro, dove si diceva che fosse sepolto l’eroe Pélope che qui aveva vittoriosamente gareggiato col rivale Enómao, antico re della zona: in una drammatica corsa coi cavalli e col carro, poi cantata da Pindaro, per la quattordicesima volta era stato messo in palio il matrimonio della principessa giovane Laodamía, figlia di Enómao. Dopo tredici incontrastate vittorie del padre, accadde che per aiuto degli dei, secondo una versione religiosa del racconto, o per il tradimento dell’auriga secondo un’altra, il giovane Pélope seppe vincere e far diventare Ippodamia sua moglie, divenendo così il re della zona. Dal suo nome si chiamò anche tutta la regione circostante: com’è noto, essa non era e non è un’isola, visto che è collegata al continente dall’istmo di Corinto: ma ai Greci essa appariva così e fu perciò chiamata l’isola (in greco nésos) di Pélope, cioè il Peloponneso. Secondo alcuni storici e poeti greci favorevoli alla città di Elide, questa sfida tra Enómao e Pélope sarebbe stata la lontana origine dei giochi poi denominati olimpici; secondo altri, celebratori di un’altra zona del Peloponneso, la fondazione delle Olimpiadi va invece attribuita a Eracle, eroe di Argo, il quale, di ritorno da una delle famose fatiche, avrebbe dato vita a delle gare di corsa a piedi e coi cavalli, intorno alla tomba di Pélope. Il poeta Pindaro mostra di conoscere entrambe le versioni del mito e fa riferimento ora all’una, ora all’altra. In realtà sembra, sulla base di dati archeologici, che la prima Olimpiade abbia avuto luogo già nel 1580 a.C.; ma bisogna scendere fino al 1000 circa per fissare l’origine di gare regolari. Dagli studi di uno storico, quale fu Timeo di Tauromenio (l’antica Taormina), la data della prima Olimpiade viene tradizionalmente indicata nel 776 a.C., perché appunto dal 776 viene registrato per la prima volta il nome di un vincitore olimpico. Ne conosciamo il nome e la specialità: si tratta di Kóroibos di Elide, vincitore nella corsa a piedi, che si svolgeva sul terreno naturale e ondulato della zona sacra, su di una distanza breve, inferiore ai duecento metri e che andava dalla tomba di Pélope all’altare di Zeus. Più tardi, accrescendone di poco la lunghezza, venne fissata la misura canonica della gara: essa fu chiamata col nome di stadio, che era equivalente a 192 metri attuali. Su questa lunghezza fu costruito nei paraggi il primo percorso regolare di gara, che aveva lo stesso nome della misura: e insieme alle gradinate per gli spettatori diede il nome a quello che è divenuto il nostro concetto di stadio. In epoca successiva vennero aggiunte le altre gare: la corsa atletica del diaulo, equivalente a due stadi, la corsa di resistenza, cioè il dólico, che era lunga fino a 24 stadi, la lotta, il pugilato, il pancrazio (che era un insieme di pugilato e lotta), la corsa col corsiero, con le quadrighe e, nel V secolo, la corsa con l’armatura pesante. Quando gli araldi, inviati da Olimpia in tutto il mondo greco, annunciavano i giochi, aveva inizio la tregua d’armi denominata ekekheiría (cioè astensione dall’uso delle mani) tra le diverse città greche. Naturalmente chi gareggiava doveva essere rigorosamente greco, libero e figlio di greci liberi; le donne erano escluse sia dalle gare, sia dall’assistervi, probabilmente a causa della nudità degli atleti; tuttavia alle donne erano riservate gare minori a parte, in onore della dea Era. Il premio riservato al vincitore di una delle diverse gare consisteva semplicemente in una corona di olivo, fatta di foglie delle piante del recinto sacro di Olimpia. Ma il premio vero era la gloria che ne conseguiva, per l’atleta stesso e per la sua città: e il canto dei poeti come Pindaro e Bacchilide ne ha eternato per sempre il ricordo. Lo hanno fatto attraverso la composizione degli epiníci, canti corali in dialetto dorico letterario che tuttora ci parlano dei vincitori delle gare atletiche. Scrive infatti Pindaro in quell’epinicio che è la prima Olimpica: «Il vincitore per l’intera sua vita assapora il miele della felicità: tanto le gare danno»: evidentemente perché la vittoria olimpica non era solo segno di una capacità atletica, ma il riconoscimento di una complessiva virtù dell’individuo. Era il segno di una forma di eccellenza, quella che i Greci chiamavano aristía, cioè di una distinzione di natura morale.

Giornale di Brescia, 27.7.2004