Montini nel laboratorio del Concilio

L’idea che si potesse andare al Concilio senza un’adeguata preparazione e senza precise proposte da sottoporre al vaglio del confronto e – perché no? – con la possibilità altresì di un loro rigetto, era evidentemente un’idea ingenua. La preparazione doveva esserci. Per questa fondamentale ragione fu costituita nel giugno del 1960 la Commissione centrale preparatoria, composta di ben 74 membri, la maggioranza dei quali presidenti di Conferenze episcopali. L’importanza di questo organismo e dei dibattiti che al suo interno si svolsero per un verso è nota, per un altro verso è un campo ancora aperto all’indagine. Sulla questione getta luce la pubblicazione dell’Istituto Paolo VI, G-B. Montini, Interventi nella Commissione Centrale Preparatoria (gennaio-giugno 1962). Il volume raccoglie le dichiarazioni di voto e le relazioni del cardinale arcivescovo di Milano in quella commissione, chiamata a funzionare da “laboratorio sperimentale e cellula genetica del Concilio stesso”, come felicemente scrive nella sua ampia introduzione Giuseppe Colombo. La pubblicazione è di grande interesse per cogliere le posizioni da cui muoveva Giovanni Battista Montini prima del Concilio, dopo che già sono stati pubblicati i Discorsi e scritti sul Concilio (1959-63) e i Discorsi e documenti sul Concilio (1963-1965) di Paolo VI in due precedenti Quaderni dell’Istituto.

***

Passaggio obbligato tra le commissioni particolari e il Concilio, la Commissione Centrale non fu una commissione di censura, ma di sintesi e di elaborazione dottrinale in cui tutte le idee poterono liberamente esprimersi ed essere sottoposte a critiche, rilievi e integrazioni, in un dibattito spesso teso, ma sempre dominato da alto senso di responsabilità. Di più: nel dibattito all’interno della Commissione Centrale le posizioni sono per così dire più personalizzate che non nell’aula conciliare. Su questo sfondo si colloca anche l’interesse per gli interventi montiniani. E poiché in un dibattito, una posizione acquista rilievo anche in rapporto alle posizioni alle quali esplicitamente si rapporta, il volume ha opportunamente accompagnato gli interventi dell’arcivescovo di Milano con quelli degli altri membri con cui Montini dichiarava di schierarsi nella valutazione degli schemi. Lo stile di Montini si manifesta attraverso il suo modo di procedere: non si contrappone frontalmente ai sostenitori di tesi da lui non condivise, ma cerca di afferrarne le giuste preoccupazioni e si colloca poi sulla scia di altri autorevoli membri della Commissione, precisando i motivi della propria adesione. Le auctoritates cui Montini si appoggia in campo dottrinale all’interno della Commissione sono Liénart, Dopfner, Alfrink e poi sempre più frequentemente Léger, il cardinale che sa trasfondere nelle sue parole esperienza pastorale, apertura mentale e delicatezza evangelica. Montini aveva un suo teologo di fiducia, Carlo Colombo, ma non disponeva come Alfrink e Dopfner di uno staff di studiosi di prim’ordine che lo aiutassero nel visionare i documenti elaborati dalle singole Commissioni per quella Centrale e che gli comunicassero le loro osservazioni e proposte.

***

L’arcivescovo di Milano fu nominato membro della Commissione Centrale nel novembre del ’61, quando già si erano svolte due sessioni. Nella terza sessione si entrò nel vivo dei problemi e Montini intervenne sette volte a dichiarare il proprio voto. Due Placet (“sì”) netti per sostenere la distinzione e la reciproca convenienza di ragione e fede, di ordine naturale e sovrannaturale, e per condannare la pratica dello spiritismo e la reincarnazione; un Non placet altrettanto netto per respingere lo schema sulla sorte dei bambini che muoiono senza battesimo, schema che “non rende onore alla sapienza e alla misericordia di Dio”. Negli altri casi la formula adottata è più sfumata: Placet iuxta modum. Sono assai significative nelle successive quattro sessioni alcune prese di posizione o proposte di Montini perché rivelatrici della sua mentalità. Ad esempio, Montini interviene in modo articolato e organico su di un problema che conosce fin troppo bene e che riguarda una materia incandescente: la ridefinizione dei rapporti tra i vescovi e i dicasteri della Curia romana. Si allinea come al solito con una folta schiera di membri che lo hanno preceduto, ma poi avanza un suo esplicito votum, e cioè il desiderio che il S. Uffizio nell’esercizio della sua autorità usi metodi consoni alla dignità e alla autorità dei vescovi. Montini coglie poi nel segno quando, capovolgendo un luogo comune, osserva che le difficoltà di funzionamento delle diocesi derivano in primo luogo “ex parvitate circumscriptionum, non ex magnitudine”. Gli attuali mezzi di comunicazione permettono di superare agevolmente i problemi inerenti all’estensione, ma la ristrettezza di orizzonti e di esperienza è più difficile da superare e assai spesso è strettamente congiunta con le piccole dimensioni della diocesi.

***

Particolarmente elaborato è l’intervento scritto di Montini sulla liturgia, che per sua natura è la preghiera pubblica della comunità cristiana a Dio. La partecipazione vasta può essere facilitata dalla comprensione linguistica, come è diventato ben chiaro ai missionari (ma “anche ai nostri Paesi di missione”) e secondo l’esempio delle Chiese orientali. Montini conclude affermando che nella preghiera liturgica occorre distinguere due parti: l’una da conservare in latino, per esprimere l’unità, la continuità, l’universalità della Chiesa; l’altra da tradurre in lingua volgare per conformarsi al linguaggio comunemente usato. Doveroso e quanto mai giusto il no di Montini ad una seconda canonizzazione della dottrina di san Tommaso. Il genio di Tommaso è fuori discussione, ma la sistemazione tomista non può in nessun modo diventare un obbligo per i teologi e non è argomento da dibattere in un Concilio. La pretesa sarebbe unilaterale e non ecumenica. L’Oriente possiede una diversa sistemazione teologica, che in ogni caso non può essere dichiarata inferiore e tanto meno fuori del pensiero cattolico.
La sacrosanta preoccupazione di “non allontanare ulteriormente i fratelli separati” induce infine Montini a ritenere inopportuna e dannosa l’attribuzione alla Madonna del titolo di “mediatrice”. Cristo solo è il mediatore, secondo San Paolo. All’universale maternità di Maria, madre di Cristo, e alla sua intercessione, in quanto madre dei credenti in Cristo, non occorre aggiungere altri motivi di culto. La pietà non ne ha bisogno e il dialogo ecumenico sarebbe ulteriormente ostacolato. Come si può vedere, non mancano certo spunti felici e coraggiosi.

Giornale di Brescia, 14.3.1992.