Don Bosco: un santo con la stoffa dell’imprenditore

Io non sono uno storico della Chiesa. Non sono uno storico della spiritualità. Non sono uno storico della cultura o del pensiero religioso. Mi occupo di storia della società industriale e dell’imprenditorialità moderna e contemporanea.
Il mio interesse per don Bosco e per la sua figura di educatore ed operatore sociale richiede quindi una breve giustificazione che ne chiarisca le motivazioni e i limiti.
Alcuni anni orsono, mentre conducevo una ricerca sulla storia della Fiat, che si concretò poi in una biografia di Vittorio Valletta, ebbi occasione di incontrare a più riprese, nei documenti che venivo esaminando, la presenza dei Salesiani nella storia industriale torinese.
Mi parve che tra la congregazione salesiana e la maggiore industria torinese si fosse stabilito, nel tempo, un rapporto di reciproca fiducia e disponibilità, che non poteva essere casuale, ma doveva avere origini e motivazioni più profonde, più lontane nel tempo.
Da questa considerazione venne lo stimolo a ricercare, nella cultura salesiana delle origini, quali fossero gli atteggiamenti di don Giovanni Bosco nei confronti delle prime, appena incipienti fasi del processo di industrializzazione; quali fossero le risposte concrete che don Bosco aveva dato al problemi posti da questa trasformazione così profonda della società.
Consentitemi di ricordare una seconda diversa ragione di interesse per la figura di don Bosco: il fondatore della Congregazione Salesiana non è un intellettuale; non é un solitario meditabondo; é un pragmatico; la scelta dei suoi obbiettivi non è il frutto di tormentate elucubrazioni; la sua azione, come educatore, come operatore sociale, come gestore di un’organizzazione che cresce e si sviluppa, nasce piuttosto da un singolare slancio vitale, da una forte propensione per i comportamenti decisionali dall’ascolto e dall’esercizio di una vocazione speciale per la comunicazione e per la leadership.
Fino ad oggi gli storici di professione si sono occupati poco di don Bosco. Gli studi di Pietro Stella e il recente volume pubblicato dalla SEI, curato da Francesco Traniello, sono forse i primi tentativi di affrontare con serio impegno storiografico la figura e l’opera del fondatore della Congregazione Salesiana. L’impegno dei salesiani nella sistemazione e nell’apertura degli archivi fanno ben sperare per il futuro. Le celebrazione del centenario, certamente, fornirà una preziosa occasione per la pubblicazione di altre ricerche.
Mi pare superfluo cercare di spiegare questo vuoto, questo silenzio. Più importante, invece, è partire dalle domande giuste, dai problemi più importanti che uno storico deve porsi di fronte alla complessa personalità di quest’uomo, alla vastità della sua opera, alla ricca eredità di istituzioni, di cultura, di tensioni ideali che ha lasciato.
Per riportare la ricerca e l’interpretazione storica della figura di don Bosco su un terreno fecondo e sgombro da preconcetti, non é nemmeno importante fare giustizia di talune deformazioni. e caricature che, ancora in tempi recenti, hanno trovato qualche credito.
Piuttosto, é necessario liberare la figura di don Bosco da una certa immagine statuaria e inamidata che gli era stata imposta negli anni immediatamente precedenti e immediatamente successivi alla sua canonizzazione. avvenuta nel 1934, entro una cornice di circostanze politiche che certamente contribuirono ad alimentare qualche forzatura, a creare qualche deformazione nel reale profilo storico di don Bosco.
Nella stia veste di ambasciatore italiano presso la Santa Sede, negli anni immediatamente successivi alla Conciliazione, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon si. era adoperato per, il buon fine del procedimento di canonizzazione di don Bosco, già beatificato nel 1929 ed elevato all’onore degli altari il primo aprile del 1934, Domenica di Pasqua, con un rito solenne in San Pietro.
In occasione delle grandi celebrazioni svoltesi il giorno successivo in Campidoglio, presente Mussolini, sarà lo stesso De Vecchi, in veste di oratore ufficiale, ad imprimere sulla figura del nuovo santo il marchio del, regime: “Don Bosco è un Santo italiano ed è il più italiano dei santi, e tuttavia il grande spirito é onnipresente nel mondo, cosicché questa perfezione diventa per lui romanità”.
La retorica è uno degli ingredienti essenziali dei regimi autoritari (e in certa misura anche di quelli democratici). Purtroppo, ben lungi dallo svanire senza lasciare traccia, la retorica di regime si sovrappone alla realtà della storia creando duraturi fraintendimenti.
Chi legge il bel saggio dedicato da Pietro Stella alla canonizzazione di don Bosco può facilmente comprendere le motivazioni politiche e il quadro culturale (chiamiamolo così) entro cui la canonizzazione del santo salesiano si inserisce.
Particolarmente significative sono le note del taccuino personale di don Francesco Tomasetti, procuratore generale della congregazione salesiana presso la Santa Sede e postulatore della causa di canonizzazione. Quando ormai procedimento di canonizzazione è giunto in porto, “attraverso battaglie asprissime, che faranno epoca nella storia dei Riti”, Francesco Tomasetti lascia intendere chiaramente quali sono le istanze politiche che fanno da cornice alla canonizzazione:
“Quanto alla stampa, ho scritto ai nostri confratelli di Torino che mi mandino il materiale per i seguenti articoli: l. Don Bosco t, l’Italia; 2. D. Bosco e Casa Savoia; 3. D. Bosco e la Conciliazione; 4. D. Bosco e le famiglie princípesche di Roma; S. D. Bosco e il Papa”. La soddisfazione del postulatore era evidente. Avere elevato il fondatore della congregazione al rango dei santi significava aprire un nuovo capitolo nella storia salesiana. Tuttavia, al di là del compiacimento di Tomasetti, si avverte anche un certo imbarazzo, la percezione di una forzatura. La canonizzazione di Don Bosco, infatti, veniva a coincidere con una sorta di “nazionalizzazione” del prete piemontese.
La figura e l’opera di don Bosco non salivano soltanto alla gloria degli altari, ma venivano artificiosamente incluse in una sorta di Pantheon nazionale. Tra i personaggi del regime che seguono l’itinerario, le sorti e i riti di questa santificazione – nazionalizzazione, non per caso, c’è quel Roberto Forges Davanzati autore di un Libro per la quinta classe elementare. Il balilla Vittorio, nel quale il ritratto di don Giovanni Bosco campeggia accanto a quelli di Mussolini, del Papa e del Re. Quell’elenco di temi storico – politici, stilato dal Tomasetti, mostra come in quel momento nella vita di Giovanni Bosco si cercassero, e a tutti i costi si volessero trovare, i segni premonitori e l’attiva preparazione di quel processo storico di cui il fascismo, riconciliato lo Stato con la Chiesa, si reputava compimento e apoteosi.
Certamente, l’alleanza tra i salesiani e Casa Savoia era stata stretta (e in questo secolo avrebbe trovato conferma in occasione del referendum istituzionale del 1948); la devozione e la fedeltà al Papa non avevano conosciuto ombre (semmai, era stato il vescovo di Torino, il Gastaldi, a mal sopportare il rapporto diretto che si venne a stabilire tra don Bosco e il Vaticano, soprattutto nel caso di una nomina di Vescovi nella quale il prete piemontese intervenne con alcuni suggerimenti); assai più labili, invece, i rapporti tra don Bosco e le case principesche di Roma, ai quali tuttavia si voleva allora dare rilievo per le amichevoli relazioni intercorse tra dori Bosco e la famiglia di Francesco Boncompagni Ludovisi, governatore di Roma all’epoca della canonizzazione.
Quanto poi al fare di don Bosco un profeta inconsapevole della Conciliazione, la storia e il semplice buon senso avrebbero suggerito, quantomeno, di cogliere tutto le sfumature che avevano caratterizzato i suoi comportamenti sul terreno dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato.
Certamente, lungo tutto l’arco della sua esistenza, Giovanni Bosco intrattenne un rapporto costante con i vertici politici dell’Italia liberale: da Cavour a Rattazzi, da Lanza a Crispi, dalla destra classica alla sinistra storica. Certamente, quando e come poté, si adoperò per agevolare nomine di vescovi che non potessero essere motivo di dissidio tra i due poteri e, dopo Porta Pia, intervenne con discrezione nelle sempre difficili questioni degli exequatur.
Tutto questo è vero. Ma nulla può far pensare che nelle visite di Giovanni Bosco a Firenze e a Roma potessero giocare intenzioni anche solo remotamente politiche, propositi che non fossero quelli di una costante e vigorosa rappresentanza degli interessi della congregazione.
Infine, quanto al rapporto tra Giovanni Bosco e l’Italia, non si può dimenticare il fatto che la fortunata narrazione popolare della storia italiana fatta dal prete astigiano (Storia d’Italia dai suoi primi abitatori ai giorni nostri), anche nelle ultime edizioni, noti andò mai oltre il 1859, come a sottintendere che su tutto ciò che veniva dopo era opportuno stendere un velo pietoso. La sua accettazione dello stato liberale era, pragmaticamente il riconoscimento dell’inevitabile, di un processo storico irreversibile; un riconoscimento che, tuttavia, tradiva forse qualche riserva mentale.
Nella ricorrenza centenaria della morte di dori Bosco, scomparso a Torino il 31 gennaio 1888, nel fervore delle celebrazioni e rievocazioni che nel corso di questo arino avranno luogo a Torino e in altre città italiane, forse vale la pena chiedersi che cosa realmente abbia significato quel prete piemontese nella storia del nostro paese, che cosa abbia lasciato sul piano della cultura civile e politica, mettendo da parte l’ingente patrimonio di memorie devote e la cospicua episodica edificante sulla quale, in gran parte, è stata fondata e costruita l’immagine della sua personalità.
La sovrabbondante produzione agiografica sottolinea i segni eccezionali della personalità di don Bosco, spesso conseguendo risultati opposti alle intenzioni, facendone talora un’involontaria caricatura, ma ne trascura spesso i caratteri tipici, l’osmosi tra il personaggio e la società nuova che sta nascendo; dimentica che dori Bosco intuì che il parto noti sarebbe stato indolore, che il processo di industrializzazione non era un fenomeno di superficie, ma avrebbe prodotto una mutazione irreversibile nei rapporti sociali, nel costume, nell’anima stessa degli individui.
Un imprenditore è un innovatore: lo ha scritto un grande economista e storico, Joseph Schumpeter; e lo si sente ripetere con frequenza.
Ma per essere un innovatore non basta trovarsi a vivere all’inizio di un’epoca nuova, all’avvio di un periodo di grandi trasformazioni; bisogna anche saperlo; esserne consapevoli.
Se togliamo a don Giovanni Bosco questa consapevolezza, facciamo un grave torto alla verità storica.
La forza e la vitalità del suo messaggio nascono e germogliano su questo terreno, sul piano della società civile, non su quello dei rapporti cori le istituzioni dello stato; crescono e danno frutti nell’ascolto attento dei bisogni collettivi: l’alfabetizzazione, la cultura professionale, il lavoro, la conquista di un ruolo sociale.
Il giovane prete di Castelnuovo, nel territorio di Asti, nato nel 1815 da famiglia contadina e giunto a Torino nel 1846 per gettare le fondamenta di un piccolo impero fatto di ordini religiosi, oratori, società di mutuo soccorso, laboratori artigiani, fabbriche, attività editoriali e assistenziali, movimenti missionari, fu il simbolo di un cattolicesimo arcaico ma dinamico, generato nella fonda notte delle campagne piemontesi e gettatosi nel crogiolo dell’urbanesimo e della prima industrializzazione.
Da un quadro ambientale e sociale integralmente diverso da quello in cui era nato, Giovanni Bosco seppe cogliere gli stimoli e le suggestioni per la creazione di istituzioni e di modelli culturali che trascrivevano sulla originaria e inalterata matrice contadina alcuni valori della nascente modernità.
La sua visione della storia italiana è per molti rispetti una collezione di temi neoguelfi e di malumori antigiacobini. Ma non c’è, stranamente, il recupero nostalgico del Medioevo. Anzi, non senza stupore si leggono certe righe, come queste, all’inizio della Storia Moderna: “La serie degli avvenimenti, che io intraprendo a raccontarvi, dicesi Storia Moderna, sia perché abbraccia i tempi a noi più vicini, sia perché i fatti che ad essi riferisconsi, non hanno più quell’aspetto feroce e brutale siccome quelli del Medio Evo. Qui è quasi tutto progresso, tutto scienza ed incivilimento
Tuttavia, la sintesi tra la cultura del mondo contadino e i valori della realtà urbana rimase incompiuta, anche se fu ricca di frutti.
Nemmeno i santi riescono a sottrarsi alla profonda ambiguità dell’esistenza. La mentalità e la sensibilità di Giovanni Bosco appaiono come dimidiate.
Da una parte troviamo una spiccata propensione per la mitopoiesi: racconto e divulgazione dei propri sogni profetici, narrazione evocatrice di antiche battaglie tra bene e male, legittimazione del proprio ruolo di leader attraverso alcune forme di “bravura” come l’illusionismo, la prestidigitazione, i giochi acrobatici; si riscontra anche una professata famigliarità con il meraviglioso (secondo il racconto di Giovanni Bosco, un grande cane grigio si materializza, lo scorta nei suoi trasferimenti notturni, sparisce).
Su un versante opposto, nella figura e nell’opera di Giovanni Bosco, troviamo una pratica spontanea di valori razionali. In una città disarticolata, con un tessuto sociale lacero e sfilacciato, Giovanni Bosco inserisce i giovani sbandati in un’organizzazione, conferisce loro un senso di identità, di appartenenza, di orgoglio. Nei tempi suoi, la pratica pedagogica cattolica corrente è volta soprattutto all’educazione del cuore, in nome della quale si trascura volentieri il leggere e fare di conto; Giovanni Bosco, al contrario, predispone un modello pedagogico che esalta l’educazione della volontà e dell’intelligenza.
Avverte l’alfabetizzazione di massa come un compito di importanza primaria, al quale si dedica con assidua determinazione.
Con pari forza, l’ex – contadinello ed ex – vaccaro Giovanni Bosco, afferma il valore dei lavoro come strumento di emancipazione e come segno di dignità personale: è un abito morale e mentale che impone ai suoi preti quanto ai ragazzi che frequentano i laboratori artigiani, primo nucleo di quello che nel tempo diventerà il grande impero delle scuole professionali salesiane, che ancora oggi le industrie e l’opinione pubblica guardano con ammirazione.
Il Bosco ha una lunga consuetudine con le case aristocratiche e patrizie; le istituzioni da lui fondate non potrebbero reggersi senza il supporto di un accordo costante con i ceti dirigenti.
Tuttavia i valori che ispirano il modello culturale salesiano sono quelli di un sottoproletario che vuole cessare di essere tale inserendosi nella società di mercato attraverso il lavoro.
Non attraverso un lavoro generico, pura erogazione di forza fisica; ma attraverso un lavoro specializzato, espressione di pensiero. Il lavoro non è più condanna o remedium, ma affermazione di dignità, di forza, di orgoglio. Ogni lavoratore, sia un fabbro o un falegname, un tipografo o un meccanico, deve diventare depositario di una cultura specializzata; ogni lavoratore è un professionista.
Nei laboratori salesiani vigeva una disciplina che aveva una durezza prussiana. Giovanni Bosco non è un sentimentale e li gestisce come imprese industriali. Non possiamo rileggere i regolamenti imposti agli allievi dei laboratori ai ciabattini, ai falegnami, ai legatori, ai tipografi, ai fabbri senza avvertire qualche brivido.
Vorrei comunque sottolineare una strana coincidenza lessicale. L’articolo 1 del regolamento dei laboratori, nella versione definitiva del 1877,suonava cosi:
M giovani allievi di ogni officina debbono essere sottomessi ad ubbidire all’assistente ed al maestro d’arte, che sono i loro superiori.
L’articolo 36 del contratto nazionale dei metalmeccanici, rimasto inalterato dal 1948 al 1970, suonava cosi:
“I lavoratori dipendono direttamente dai loro superiori”.
Per almeno un secolo quel principio è rimasto valido. Tuttavia, se questo è il volto duro, arcigno, autoritario dell’attivismo salesiano, c’è anche un risvolto che lo giustifica e corregge: é un modello che non mortifica l’ambizione personale e favorisce la mobilità sociale. Per i datori di lavoro, l’essere passati attraverso le scuole di Giovanni Bosco a Valdocco è di per sé garanzia di carattere forte e di capacità professionale.
Nell’area torinese, sul piano dell’istruzione professionale, Giovanni Bosco è stato preceduto dai Fratelli delle Scuole Cristiane, chiamati a Torino da Carlo Felice, e dal Collegio degli Artigianelli di Giovanni Cocchi, che viene peraltro affidato ad un personaggio come Leonardo Murialdo, un altro santo efficientista piemontese, rampollo di una famiglia di banchieri e buon amico di Giovanni Bosco. Le idee di fondo non sono originali; è anche doveroso almeno un richiamo ad un’iniziativa non torinese, cioè la Società di Incoraggiamento Arti e Mestieri fondata a Milano nel 1838. Ma come tutti gli organizzatori, Giovanni Bosco diffida dell’originalità e imprime a queste iniziative un carattere imprenditoriale.
Il successo delle scuole e dei laboratori conferiscono a questo prete un prestigio e una forza sociale del tutto nuova. Giovanni Bosco gestisce con astuzia e spregiudicatezza la sua posizione di passaggio. Per vocazione e per scelta, si è venuto a trovare proprio sul confine tra la domanda di lavoro (le migliaia di braccia inesperte che affollano i quartieri della periferia Torinese della zona Dora, con l’apporto di un flusso costante di nuovi inurbati)e un’offerta che non è certo grande ma che comunque impone specialismo e bandisce il generico.
E’ questo il vero contributo di Giovanni Bosco alla storia della società italiana: la creazione di un sistema di scuole che oltre ad offrire gli strumenti del sapere professionale, dava anche ai destinatari un senso di identità, ammortizzava i contraccolpi del trasferimento dalla campagna alla città, favoriva l’inserimento nella società. In questa luce, la figura di Giovanni Bosco riacquista una forza che i suoi sdolcinati e sdilinquiti biografi senza volerlo gli sottraggono. La sua vita diventa quasi la leggenda del santo imprenditore.
Non è certo un caso se, ancora vivente il Bosco, un industriale come Alessandro Rossi si interessa alla sua opera e chiama i salesiani a Schio, allora la più interessante realtà produttiva italiana. Voglio anche ricordare le relazioni intercorse tra la società salesiana e un bravo imprenditore e un grande maestro di arti industriali, vissuto tra i due secoli: si chiamava Giuseppe Picchetto. E non fu certo un caso se, ben dopo la morte di Giovanni Bosco, la Fiat stabilirà un rapporto di attiva collaborazione con la società salesiana; e se un uomo di sentimenti laici come il senatore Giovanni Agnelli, in occasione delle grandi manifestazioni che accompagnarono la beatificazione di don Bosco nel 1929, accolse alla Fiat i vertici salesiani con queste parole: “Sono lieto di ricevere alla Fiat le Loro Eminenze, i Monsignori, i Missionari. Porgo loro di cuore il mio benvenuto. Dare questo benvenuto mi è tanto più caro in quanto ricordo di aver conosciuto personalmente don Bosco, e la sua immagine illuminante parla sempre al mio spirito. I discepoli, i seguaci del beato don Bosco, di questo grande piemontese, che particolarmente Torino venera e festeggia, sentiranno qui pulsare un ritmo di vita che non sarebbe stato discaro al Beato, il quale fu un sublime eroe della carità cristiana e insieme un ardentissimo apostolo del lavoro umano, un suscitatore eccezionale di energie, uno scopritore di forze secrete, un fondatore instancabile di opifici e di officine. I lavoratori della Fiat saranno fieri, se gli eroici Missionari delle Case Salesiane, le quali coprono veramente la faccia del globo, porteranno nel loro apostolato fra le genti più diverse e lontane, come espressione vivida della rinnovata Italia, il ricordo e la visione di questo nostro tempio del lavoro”. Nel segno di questi sentimenti e del rapporto di reciproca disponibilità tra i salesiani e l’industria torinese, il grande complesso di scuole professionali sorte in zona Mirafiori nel 1936, non lontane dall’area su cui andava sorgendo il nuovo stabilimento della Fiat, verrà dedicato alla memoria di Edoardo Agnelli.
Ma torniamo a Giovanni Bosco. La stessa concezione della congregazione di cui diventa fondatore e capo ha alcuni connotati di cultura imprenditoriale, che sono il risultato diretto degli insegnamenti che Giovanni Bosco aveva ricavato dalle leggi Siccardi. Queste certamente non gli piacquero; ma le considerò il segno di una tendenza irreversibile nei rapporti tra Stato e Chiesa, di fronte alla quale non nutri mai sogni di impossibili revanches.
Non per nulla, concepì l’organizzazione salesiana come “una Società, che non abbia l’indole della manomorta, in cui ogni membro conservi i diritti civili, si assoggetti alle leggi dello Stato, paghi le imposte. In una parola, la nuova società in faccia al Governo non sarebbe altro che un’associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme ad uno scopo di beneficienza”.
Applicare questa filosofia e praticare una piena autonomia economica significava tuttavia investire e organizzare le risorse secondo criteri e strategie che non avevano nulla che fare con il passato. Di fronte all’incameramento delle proprietà ecclesiastiche inerti, Giovanni Bosco non invoca il ritorno al Medioevo, ma utilizza effettivamente i beni immobili di cui viene a disporre; se gli mancano le risorse umane per servirsene, li monetizza. Su questa strada diventa un imprenditore privato di iniziative assistenziali e sociali.
Economicamente autonoma, la congregazione salesiana, nella visione di don Bosco, doveva soprattutto porsi un obbiettivo: quello di penetrare nelle istituzioni sociali.
E’ un programma che Giovanni Bosco formula esplicitamente: “Già Tertulliano diceva ai pagani: Voi non ci volete perché cristiani… Anche i salesiani diranno: voi non volete più frati, né religiosi di qualunque congregazione e noi verremo a farci laureare nelle vostre università… noi saremo artigiani nelle vostre botteghe e mostreremo a lavorare come servi fedeli al gran Padre di tutti…: noi saremo chiamati coscritti nei vostri reggimenti…vogliamo intrometterci dappertutto. I salesiani si sono gettati in una società in movimento, in progresso. Ed essi devono dire con vivaci parole: Fratelli, anche noi corriamo con voi: e coll’amabile affabilità, fermarli seco, quasi a fare posata, e divertirli con una certa aria di novità”.
I contemporanei, principalmente quello straordinario giornale anticlericale che era la Gazzetta del Popolo di Felice Govean, lo accusa di eccessiva spregiudicatezza nell’uso del denaro; analoghi rilievi echeggiarono in sedi ecclesiastiche ufficiali, anche nel corso della canonizzazione. Sarebbe molto interessante tentare una ricostruzione dei conti di don Bosco. Come in tutte le società che si rispettano, vi si troverebbe qualche incongruenza. Forse, il valore d’acquisto di qualche bene immobile apparirebbe sottovalutato. Comunque stiano le cose, sul piano degli affari immobiliari, don Bosco rivelò un intuito singolare.
Da una lettera dell’architetto Antonelli veniamo a sapere che don Bosco era entrato in trattative con la comunità israelitica per l’acquisto della Mole. Ma non se ne fece nulla: probabilmente anche lui ebbe qualche dubbio sulla sua utilità.
Nel suo temperamento imprenditoriale, ebbe un senso delle comunicazioni di massa assai raro nella sua epoca. La varia e ingente produzione editoriale che usciva dai laboratori tipografici ebbe un successo e una diffusione senza precedenti. “Il Giovane provveduto”, “Le Letture Cattoliche”, “Il Bollettino Salesiano” diventano presto i simboli e i veicoli di un potentato editoriale che il trascorrere del tempo non farà altro che consolidare. I centocinquanta volumi e volumetti pubblicati da Giovanni Bosco hanno una diffusione prodigiosa. La sua Storia d’Italia per la gioventù raggiunge trentun edizioni.
Quando Antonio Gramsci, ormai torinesizzato, espresse tutta la sua ammirazione per la diffusione della stampa cattolica, certamente aveva presente questo aspetto della cultura imprenditoriale salesiana.
Oggi più che mai imprenditorialità significa, prima di tutto, capacità di comunicazione, come ben sa qualsiasi studente delle scuole di amministrazione industriale
Il genio della comunicazione non perde certe occasioni uniche. All’Esposizione Industriale di Torino del 1884, l’unica istituzione cattolica seriamente rappresentata è proprio la società salesiana, che fa spettacolo esponendo il ciclo continuo della carta prodotta nello stabilimento salesiano di Mathi, con quanto di meglio offre la tecnologia europea, secondo il riconoscimento degli esperti che formano la giuria. Insieme a questi macchinari, vengono esposti anche tutti i procedimenti tipografici che portano dalla carta al libro finito. E’ una delle grandi attrazioni dell’Esposizione.
La carta, la tipografia, l’attività editoriale, i laboratori, le scuole, le missioni…il santo imprenditore aveva inventato un bel sistema di sinergie, come oggi va di moda dire.
Oggi viviamo in una società molto più complessa. Eppure la figura di quel piccolo prete si offre ancora alla nostra riflessione, come cittadini e uomini di questo secolo, in tutta la forza della sua suggestione.

NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 11.4.1988 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.