Oscar Arnulfo Romero, testimone e martire    

Un ricordo dell’arcivescovo di San Salvador a trent’anni dal suo assassinio

Oscar Arnulfo Romero, testimone e martire

Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento, un piccolo Paese latinoamericano fino ad allora mai salito agli onori della cronaca, El Salvador, diviene improvvisamente famoso in tutto il mondo, in quanto si trova ad essere una pedina fondamentale nei contrasti fra le superpotenze mondiali impegnate in una nuova guerra fredda. In questo Paese, lunedì 24 marzo 1980, verso le ore 18,25, mentre sta celebrando la Santa Messa, appena terminata l’omelia, l’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, è colpito al cuore da un colpo di arma da fuoco. Caricato su una vettura, muore poco dopo in ospedale. Viene così messa a tacere la voce che nella nazione centroamericana denuncia senza paura violenze, sequestri, omicidi, indicando responsabilità e complicità. Si tratta di una voce scomoda per le oligarchie politiche ed economiche che si definivano cattoliche e sostenevano di lottare per la difesa della civiltà cristiana contro il comunismo. Per i poveri e gli oppressi è invece una voce amica e fedele, l’unica difesa contro i soprusi e le prepotenze.
La sua opera di evangelizzazione e promozione umana, oggi sempre più riconosciuta e valorizzata, trovò ostacoli enormi. Fu osteggiata violentemente dal potere politico e da quello economico. I suoi confratelli vescovi del Salvador, ad eccezione di mons. Arturo Rivera y Damas, fecero di tutto per farlo destituire dalla guida della diocesi più grande del Paese, accusandolo di essere un sovversivo e di fare politica. Le stesse forze della guerriglia rivoluzionaria ad un certo punto lo indicarono come un proprio nemico, poiché invitava tutti alla conversione e condannava ogni forma di violenza, anche quella rivoluzionaria, esortando a percorrere le strade della nonviolenza.
In una realtà fortemente polarizzata, divisa tra pochi ricchi e molti poveri, Oscar Romero è stato maestro e testimone: con la parola ha guidato e orientato il proprio popolo; con la testimonianza si è esposto in prima persona e si è schierato al fianco di chi era povero e oppresso. Ha parlato e agito senza odio, cercando di esortare tutti alla conversione. Da una terra dove scorreva il sangue, dove gli oppositori erano fatti scomparire, dove i diritti umani erano calpestati, la voce di Romero, libera e autorevole, ha oltrepassato le frontiere ed è stata sentita in tutto il mondo. Le sue omelie erano seguite dagli inviati della stampa internazionale per il significato che, nel contesto mondiale, aveva la lotta che si combatteva in questa minuscola nazione, e per la presenza di una Chiesa, come quella dell’arcidiocesi di San Salvador, evangelicamente schierata a fianco del proprio popolo e, appunto per questo, violentemente colpita dalle forze militari e dagli squadroni della morte.
Monsignor Romero fu semplicemente fedele alla missione che gli venne affidata. Quando si rese conto delle sofferenze del suo popolo, ne ebbe compassione e da buon pastore se ne fece carico. Andò consapevolmente incontro alla morte e non vi si sottrasse: la logica evangelica gli chiedeva questo e lui vi aderì.
Mons. Arturo Rivera y Damas, l’unico vescovo salvadoregno rimasto accanto a Romero negli anni di San Salvador, ha scritto che la figura di mons. Romero «è quella di un uomo comune, con le limitazioni e i difetti derivanti dalle sue malattie, dai suoi acciacchi e dal suo temperamento. Però egli rimase sempre aperto a Dio e progressivamente andò aprendosi anche nei confronti dell’uomo».
Il paradosso della vicenda di Romero è che quest’uomo della tradizione, questo pastore d’anime che aveva del vescovo una visione classica e tridentina e che per oltre trent’anni della sua vita sacerdotale non aveva avuto alcuno interesse per la politica e per le questioni sociali, ad un certo punto, con la nomina ad arcivescovo di San Salvador e posto di fronte all’assassinio di alcuni suoi sacerdoti, rifacendosi ai documenti del Concilio, a quelli di Medellin e di Paolo VI (in particolare all’Evangelii nuntiandi), ha compreso sempre più chiaramente che era proprio dovere illuminare le realtà terrene con gli insegnamenti del Vangelo. E questo è ciò che ha fatto nei tre anni da arcivescovo della diocesi più grande del Paese.
La lapide posta sulla tomba di Romero riporta semplicemente il suo motto episcopale: sentir con la Iglesia. Il suo desiderio è stato, infatti, fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale, quello di vivere il messaggio cristiano restando fedelmente ancorato alla Chiesa. Il Concilio Vaticano II e la Conferenza di Medellin l’hanno costretto progressivamente ad interrogarsi sulle condizioni di vita del suo popolo, sulle violenze a cui era soggetto. Soprattutto nei tre anni in cui è stato arcivescovo di San Salvador, Romero ha sempre più chiaramente sentito il grido del proprio popolo, oppresso nei diritti fondamentali, e a questo popolo ha prestato la propria voce, indicandogli la strada della conversione e della nonviolenza per uscire dal dramma che stava vivendo. Si schierò così, sempre più decisamente, in difesa dei poveri e degli oppressi, convinto del fatto che i valori evangelici andassero incarnati e non solo affermati, che non bastasse raccogliere i moribondi e i sofferenti, ma che fosse anche necessario denunciare le situazioni di violenza strutturale e istituzionalizzata, indicare in modo preciso le responsabilità dei sequestri, dei soprusi e dei massacri. Come ha scritto il card. Carlo Maria Martini, Romero è stato dunque «un vescovo educato dal suo popolo». L’incontro con i “crocifissi” della storia lo ha condotto all’essenzialità dell’annuncio e ad abbracciare la croce. La sua scomodità risiedeva nell’adesione piena e fedele al messaggio sociale cristiano che, con il Concilio, aveva esortato la Chiesa a rivolgersi a tutti, ma con un occhio di riguardo per i poveri e gli oppressi.
Proprio per le sue denunce dell’ingiustizia, Romero fu accusato, anche da alcuni suoi confratelli vescovi salvadoregni, di essere un estremista, di favorire la rivoluzione, di fomentare la violenza, di essere un sovversivo. Nello stesso tempo, in quanto non schierato neppure con le organizzazioni rivoluzionarie, ad un certo punto venne aspramente criticato anche dai gruppi più radicali. In realtà Romero non si ispirò ad alcuna dottrina politica, poiché riteneva che per risolvere i problemi del Paese fosse necessaria la conversione dei cuori. La sua azione non si fondava su un’analisi sociologica della situazione, bensì su una visione etica e religiosa della realtà. Dalla fede Romero derivava l’amore per i poveri, la richiesta di giustizia sociale, la necessità della denuncia delle violenze. Dai documenti del Vaticano II e del Magistero pontificio, dai testi di Medellin e di Puebla, scaturivano le sue riflessioni per illuminare la realtà che si trovava di fronte.
L’arcivescovo di San Salvador poteva fuggire e rifugiarsi all’estero in attesa di tempi migliori, come da più parti, e dalla stessa Santa Sede, a fronte di minacce sempre più insistenti, gli era stato proposto. Volle invece restare accanto al proprio popolo, in attesa della morte che ad un certo punto sentiva imminente. Fu fedele alla missione che gli era stata affidata di guida di una comunità e rimase accanto ai propri sacerdoti e ai propri fedeli. Venne ucciso perché non si era rassegnato alle violenze, alle ingiustizie, allo strazio di un Paese devastato.
Alcune importanti intuizioni di Oscar Romero mantengono oggi tutta la loro scottante attualità: l’invito a coniugare l’ascolto della Parola di Dio con la lettura della storia; la scelta preferenziale dei poveri, sull’onda delle indicazioni del Concilio e della Conferenza di Medellin; il rifiuto di ogni forma di violenza e l’indicazione della nonviolenza come strada percorribile per risolvere i problemi del proprio Paese; l’adesione a Cristo e al Magistero contro ogni tentazione di autosufficienza e di compromesso operata dall’istituzione ecclesiale.
Il card. Martini ha scritto che, pur essendo dell’avviso che non bisogna moltiplicare troppo i santi canonizzati, Romero è stato «un martire della giustizia, della verità e della carità». Padre Bartolomeo Sorge ha sottolineato come nell’ultima omelia di Romero vi fosse il suo testamento spirituale: «Amare Dio sopra ogni cosa (primero Dios) e amarci gli uni gli altri come Cristo ha amato noi, fino a dare la vita per i fratelli. Che altro occorre per riconoscere la santità di un eroico Pastore che il popolo già acclama “San Romero de las Américas”». Mons. Luigi Bettazzi, nella presentazione al Diario dell’arcivescovo di San Salvador, ha scritto: «Se Giovanni Paolo II ha potuto proclamare “martire” San Massimliano Kolbe, che ha offerto la sua vita per solidarietà verso un fratello, che dire di Oscar Arnulfo Romero, che l’ha offerta con non minore consapevolezza per solidarietà verso un popolo intero?» . Il vescovo brasiliano Pedro Casaldáliga ha affermato che «monsignor Romero fu, sulla terra e nel cielo, un seguace fedele di Gesù. Egli diceva spesso di voler accompagnare il popolo e seppe farlo, con grande fedeltà, fino a dare la sua vita con il martirio. Ma seppe accompagnare anche altrettanto bene, con fedeltà radicale, il Gesù del popolo, il Salvatore di El Salvador. Come Gesù, egli è stato un buon pastore e ha saputo dare la propria vita per gli altri. Come Gesù, ha dedicato tutto se stesso ad asciugare le lacrime e il sangue dei poveri. Come Gesù, ha alzato la sua voce limpidissima per denunciare la menzogna, l’orgoglio e l’avidità dei potenti di questo mondo. Come Gesù, pregava ascoltando il Padre e accoglieva ascoltando il popolo. Come Gesù, fu incompreso dal pretorio e dalla sinagoga e fu abbandonato dai suoi stessi compagni. Ma anche, come Gesù e per Gesù, che è la Resurrezione e la Vita, il nostro San Romero d’America, il più amato di tutti i pastori che abbia mai avuto la nostra patria, vive ora glorioso e presente, risorto nelle persone, nelle lotte e nelle speranze del suo popolo di El Salvador e di tutti i popoli americani». Per il teologo Ignacio Ellacuría, pure lui vittima degli squadroni della morte con altri suoi confratelli gesuiti, «con mons. Romero Dio è passato dal Salvador».
Agli inizi di marzo 1983, in piena guerra civile, Giovanni Paolo II si è recato in Salvador in visita pastorale. Il programma non prevedeva la visita alla tomba di Romero, ma il Papa fu irremovibile e, dopo aver atteso che si aprisse la cattedrale poiché era stata chiusa dalle autorità, poté pregare sulla tomba dell’arcivescovo assassinato.
Anche il 7 maggio 2000, al Colosseo, durante la celebrazione per ricordare i “martiri” del XX secolo, Giovanni Paolo II ha ricordato mons. Romero:
«Ricordati, Padre dei poveri e degli emarginati, di quanti hanno testimoniato la verità e la carità del Vangelo in America fino al dono della loro vita: pastori zelanti, come l’indimenticabile arcivescovo Oscar Romero, ucciso sull’altare durante la celebrazione del sacrificio eucaristico, sacerdoti generosi, catechisti e catechiste coraggiose, religiosi e religiose fedeli alla loro consacrazione, laici impegnati nel servizio della pace e della giustizia, testimoni della fraternità senza frontiere: essi hanno fatto risplendere la beatitudine degli affamati e degli assetati della giustizia di Dio. Siano saziati con la visione del tuo volto e siano per noi testimoni della speranza».
Dove possiamo situare la figura di Romero nella storia della Chiesa del Novecento? Certamente fra quelle dei testimoni e dei martiri, proprio come è stato fatto sul frontone della porta ovest dell’abbazia anglicana di Westminster, a Londra, dove, fra le dieci statue di “martiri” del Novecento, quella di Romero è posta tra la statua di Dietrich Bonhoeffer e quella di Martin Luther King. E come è stato fatto anche nella chiesa di San Bartolomeo a Roma, all’isola Tiberina, una chiesa voluta da Giovanni Paolo II come memoriale dei martiri e testimoni della fede del XX secolo: qui, nell’icona posta sull’altare maggiore, tra i martiri rappresentati vi è anche Oscar Arnulfo Romero e tra le memorie custodite in un altare laterale vi è il messale che utilizzava l’arcivescovo di San Salvador.

Anselmo Palini: Docente di Materie Letterarie nella scuola superiore e saggista. Tra i suoi ultimi libri: Testimoni della coscienza. Da Socrate ai nostri giorni, editrice Ave, Roma 2005(seconda ristampa 2010); Voci di pace e di libertà. Nel secolo delle guerre e dei genocidi, Ave 2007; Primo Mazzolari. Un uomo libero, Ave 2009(prima ristampa 2010); Sui sentieri della profezia. I rapporti fra Giovanni Battista Montini-Paolo VI e Primo Mazzolari, edizioni Messaggero, Padova novembre 2010; Oscar Romero. Ho udito il grido del mio popolo, Ave, Roma novembre 2010. Quest’ultimo libro è stato presentato dalla Ccdc insieme ad altre associazioni cattoliche il 2.12.2010.

  Pubblicato nel n.102 (dicembre 2010) della rivista Città e Dintorni