Pensare bene di Dio. Colloquio con Nasr Abû Zayd

Città e Dint0rni, 31 agosto 2010

 Una novella turca narra di come il maestro dell’Ordine del Khalvati, a Istanbul, cercasse un successore. Mandò i suoi discepoli a prendere dei fiori per decorare il monastero. Tutti tornarono con grandi mazzi; uno solo portò un minuscolo fiore avvizzito. Alla domanda se non  avesse trovato nulla di più degno per il maestro, rispose: “Ho notato che tutti i fiori erano intenti  a lodare Dio. Come avrei potuto disturbarli? Ne vidi solo uno che aveva appena terminato le celebrazioni in onore di Dio, e ho preso quello”. Fu nominato successore del maestro.

Dev’essere per la gioia che mi hanno sempre trasmesso le parole con cui egli evoca il trasporto amoroso con cui indugia a cantare le parole del Corano, apprese da bambino, ma non appena ho saputo della morte di Nasr Abû Zayd mi sono ricordato di questo racconto, che pare uscito dai Racconti dei Hassidin.

La nostra città ha avuto l’opportunità di ascoltarlo poco più di tre anni fa, il 24 maggio del 2007, su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Era importante – e lo è, ma in quella stagione il clima tendeva particolarmente al plumbeo – trovare una voce  che facesse assaporare a Brescia tutta la ricchezza e il fascino intellettuale, umano e mistico di cui l’Islam è portatore[1]. La scelta si è rivelata felice, anche se – tre anni fa – non esente da incomprensioni. D’altra parte non spetta forse a chi professa l’esercizio della cultura percorrere i sentieri meno facili e acclamati?

Abû Zayd questi sentieri li ha percorsi sino in fondo, col suo passo mite e caracollante, pagando di persona. Islamologo, studioso di religioni e modernità, di diritti umani e civili e dei fondamentalismi diventa noto anche in Occidente quando nel 1995 gli è mossa l’accusa di apostasia e gli viene imposto il divorzio dalla moglie, che di fatto costringe entrambi a trovare asilo in Olanda.

In occasione della sua visita a Brescia, nel maggio 2007 ho avuto modo di conversare a lungo con Abû Zayd e ne è nata un’intervista, che per vari motivi è rimasta fino ad oggi inedita[2]. Viene ora pubblicata come omaggio alla figura di questo intellettuale che non ha certo “tradito” il suo dovere di stato, né abdicato al dettato della propria coscienza.

Il punto di svolta nel suo itinerario di pensiero è l’incontro con la filosofia ermeneutica. Il percorso culturale e religioso da lui compiuto è narrato da Abû Zayd in Una vita con l’Islam (il Mulino, 2004), che permette di cogliere la stretta  solidarietà tra vita e idee che segna la sua esperienza. È un’esperienza, quella di questo indomito professore, alla quale chi conosce il gusto della ricerca e dello studio, ma pure la passione per le proprie idee e per il confronto critico su di esse, l’umiltà di riconoscere quanto altri studiosi, magari appartenenti ad aree culturali differenti dalla nostra, ci possono essere d’aiuto per comprendere ciò che più sentiamo “nostro”, non può non appassionarsi.

Con sguardo trasparente, fedele al proprio itinerario intellettuale ed umano, di persona e di credente che fa uso della ragione critica per storicizzare e rendere ragione della speranza che lo abita e di come è giunto ad darvi adesione d’intelletto e di cuore. L’incontro di Brescia è stato l’occasione per molti di conoscere un amore e confrontarsi con una libertà nei confronti dei testi sacri della propria religione non comuni. Una vita per l’Islam testimonia del felice connubio tra passione e rispetto dell’altro, spiritualità e intelligenza interpretativa. Ed è un bell’esempio di come un docente può e dovrebbe rapportarsi ai propri studenti e trasmettere loro il gusto della ricerca.

Dicevo poc’anzi della necessità di andare controcorrente rispetto a una visione pregiudiziale, in definitiva ideologica, dell’Islam. D’altra parte le pulsioni misoneiste e recessive che attraversano un po’ tutte le religioni e le differenti confessioni e liturgie sparse sul globo dovrebbero invitare a un approccio meno semplificante nella ricerca di una pecora nera, non solo dei monoteismi (a meno che non si voglia far propria la furia iconoclasta di quelli che un “laico” ha definito i laici furiosi). E un approccio che non privilegi le spiegazioni monocausali. Anche dell’irrompere, dopo il 1989, del fattore religioso sulla scena globale, infatti, quanto dipende dalla spinta propulsiva dello spirituale e quanto invece dal frammischiarsi di altri agenti e fattori storici che lo curvano secondo convenienze d’altra natura?

Certo, nel nostro immaginario il musulmano rappresenta l’altro per definizione. È bastato il crollo della cortina di ferro perché cominciassimo ad accorgercene di nuovo. L’Islam si è imposto come il grande enigma da sciogliere. Gli attentati terroristi succedutisi nell’ultimo decennio del secolo XX e culminati con l’attacco alle Torri gemelle da parte di al-Qaeda nel 2001 hanno fatto sì che in Occidente l’Islam venga associato per lo più a brutalità e morte. Eppure l’Islam “globale” non esiste, è una semplificazione; anzi una vittoria proprio del radicalismo. Per una sorta di eterogenesi dei fini, quanti fanno leva politicamente (la politica politicante) su tale argomento, fanno il gioco proprio di ciò che a parole dicono di combattere. Nel maneggiare la complessa realtà del nostro tempo occorre una certa avvertenza. Altro compito di cui la cultura deve farsi carico.

Il compito, ad essere onesti, spetterebbe pure alla politica, pur se con una propria specificità. È quasi banale dire che la politica richiede, ad esempio, tempi più brevi rispetto a quelli distesi della cultura. Ma di qui ad abdicare al compito di prima interpretare e capire, per poi districare i garbugli e i nodi (o anche, cum grano salis, reciderli; ma soprattutto fin dove possibile prevenirne la formazione) ne corre. Quando poi, come sembra troppo spesso e trasversalmente accadere – non solo nel nostro paese: dov’è l’Europa? – non manca di ogni prospettiva a medio e lungo termine, perché sembra non “pagare” in termini elettorali. O, peggio, ma non infrequente, quando si attizzano volutamente i timori e le paure che percorrono la società civile. Quelle paure di cui proprio la politica dovrebbe farsi carico, per individuare e dare quelle risposte che solo la politica, e non certo il mercato da solo, può dare. Ma di questo basta, per ora.

Il nucleo del pensiero di Abû Zayd è l’invito a distinguere tra «religione» e «pensiero religioso». Una scelta di suoi studi in proposito è nel volume Islam e storia. Critica del discorso religioso (Bollati Boringhieri, 2002). Per Abû Zayd «la religione è costituita dall’insieme dei testi sacri stabiliti storicamente, mentre il pensiero religioso consiste negli sforzi umani di comprendere questi testi e di interpretarli correttamente. In queste condizioni – prosegue –, è naturale che gli sforzi intellettuali umani differiscano da un’epoca all’altra, da un ambiente – inteso in senso sociale, storico, geografico, etnico, ecc. – all’altro, ma anche da un pensatore all’altro all’interno di una certa epoca e in un determinato ambiente». Centrale è per Abû Zayd la nozione di storicità, propria del testo coranico, «nel tentativo di far fronte a quei demagoghi travestiti da islamisti che, facendo leva sull’ignoranza delle masse, hanno voluto concludere che la storicità del Corano implicasse necessariamente il suo non essere parola di Dio e lo rendesse perciò privo di qualsiasi utilità per il popolo musulmano». Per Abû Zayd il “testo” non è una realtà metafisica, ma culturale, il che significa che «quando Dio rivelò il Corano lo fece nell’idioma del suo primo destinatario, ovvero il Profeta. E il sistema linguistico prescelto, per quanto ne dica il dibattito religioso contemporaneo, non poteva essere un mero contenitore sprovvisto di qualsiasi contenuto, dal momento che una lingua è il sistema di rappresentazione più importante di cui dispone una comunità per avere accesso a una comprensione del mondo. Di conseguenza, non è possibile una lingua che possa essere estranea alla cultura e alla realtà. E lo stesso vale per un testo. In effetti, in virtù della sua natura stessa di testo, esso fa necessariamente parte integrante del sistema linguistico  della propria cultura. L’origine divina del testo non nega la realtà del suo contenuto né, di conseguenza, la sua appartenenza alla cultura del mondo degli uomini». La storicità del testo per Abû Zayd non ne nega affatto l’universalità, anzi.

Oltre a questo egli si sofferma a lungo ad analizzare «i postulati e i meccanismi essenziali del discorso fondamentalista contemporaneo in tutti i suoi risvolti, smascherando in particolare quel subdolo tratto ideologico che consiste nell’utilizzare il sentimento religioso a fini politici». È una lezione di laicità quella che Abû Zayd propone anche all’Occidente. Un esempio di non sudditanza di fronte a qualsiasi paradigma interpretativo che si voglia sottratto al vaglio analitico della ragione umana. Tanto più se esso è appunto “ideologico” e dannoso per la religione, come quando impone strumentalmente ai testi sacri, «dall’esterno, dei valori necessariamente umani e storici, per presentarli poi, con un gioco di prestigio, come altrettante verità metafisiche, nel tentativo di rivestirle di un carattere trascendente e sovratemporale».

 * * *

 D. Cosa pensa dell’immigrazione mussulmana in Italia e in Europa?

R: In Europa l’immigrazione di mussulmani è sulla bocca di tutti. Per quanto riguarda l’Italia, ho incontrato alcune persone appartenenti a gruppi diversi, ma non ho informazioni dirette di come si siano integrati.

D. Nelle scuole elementari italiane il numero degli alunni immigrati raggiunge una percentuale molto alta. In provincia di Brescia si arriva al 50%. La scuola italiana, che non è preparata ad affrontare questo fenomeno,

R. Se io sono un immigrato che dall’Egitto viene in Italia, dove mi sposo e ho dei figli, li mando in una scuola italiana così che possano scoprire la cultura italiana ed entrare in contatto con cittadini italiani. In questo modo, costruendo relazioni interpersonali, si instaura un dialogo che contrasta le divisioni.

D. Accade, però, che alcuni immigrati fatichino a instaurare questo tipo di dialogo e, per esempio, non mandino le figlie a scuola o non vogliano che le proprie mogli imparino l’italiano. Così facendo, danno il messaggio di non volersi affatto integrare.

R. È un problema serio. Se non mandi a scuola le tue figlie e non lasci che tua moglie vada da sola a far compere, come pensi di poter gestire la tua vita? Come puoi dare un’istruzione ai tuoi figli?

D. Le religioni cristiana, ebraica e islamica hanno molto in comune, molte affinità. Non pensa che il rispetto reciproco da parte dei fedeli di tutte e tre sia indispensabile?

R. È mio desiderio promuovere quella che chiamerei un’“ermeneutica umanistica e democratica”. Lo scopo che mi propongo è di rafforzare la società civile e i singoli individui, più che le istituzioni. Vorrei inoltre che, quando si parla di religione, si cogliesse anzitutto il riferimento alla domanda esistenziale sul senso della vita. Le istituzioni – le chiese, le sinagoghe e le moschee – tendono invece a “congelare” il significato della parola religione, legandolo per lo più al passato. In tal modo pongono il credente di fronte a una alternativa molto secca: o credi alla definizione che diamo noi o sei ateo. L’ermeneutica umanistica e democratica vuole invece creare uno spazio di spiritualità, che sta nel mezzo tra queste due opzioni. Una spiritualità che non sia necessariamente la spiritualità dogmatica di una delle tre grandi religioni. Noi uomini abbiamo un legame personale molto stretto con l’arte, con la musica, con la poesia, anche se non apparteniamo a una confessione religiosa. Questo modo e questo luogo non “dogmatico” di comunicare, però, può essere l’occasione per un’esperienza umana profondamente spirituale. Può portare gli uomini a incontrarsi, non sul terreno dei dogmi, che si elidono a vicenda, ma precisamente in uno spazio aperto di spiritualità, senza confini né divisioni né muri.

Lasciate che vi faccia un esempio. Noi tre ora stiamo comunicando. Non apparteniamo alla stessa cultura, abbiamo tradizioni diverse ma abbiamo trovato una base comune, che comprende anche la lingua, da cui comincia la nostra comunicazione. Siamo riusciti ad abbattere un muro ed è esattamente questo che l’ermeneutica umanistica democratica auspica.

D. Lei ha modo di confrontarsi con rappresentanti delle religioni ebraica e cristiana?

R. Non nella vita di tutti i giorni, ma a livello intellettuale. Ho partecipato a Berlino a un progetto di ermeneutica ebraico-islamica, da un punto di vista storico e critico. Il cristianesimo si pone in mezzo all’ermeneutica ebraico-islamica. Abbiamo lavorato a questo progetto per cinque anni, con la presenza di studenti, docenti, intellettuali; ed ha funzionato bene. Ciascuno ha un approccio critico sia rispetto alle proprie tradizioni che a quelle altrui. Io sono arabo e vicino ai palestinesi: difendo i diritti di persone che sono perseguitate all’interno del loro stesso paese. È stato interessante trovare israeliani critici verso Israele. L’essere critici per ottenere giustizia sul comune terreno umano è ciò che abbiamo in comune.

D. Nel suo libro Una vita con l’Islam lei cita sua madre che, riferendosi ai vostri molti compaesani cristiani, sosteneva: “Siamo tutti amici di Dio”, dal momento che esiste una sola Verità e una sola Rivelazione per tutti.

R. L’Egitto ha una storia particolare. Prima dell’invasione degli Arabi era un paese cristiano, a maggioranza copta. Quando è sopraggiunto, l’Islam si è strutturato componendo elementi di culture diverse: faraonica, romana, greca, poi cristiana e infine islamica. Sembra difficile da comprendere; eppure gli egiziani si riconoscono in questa diversità, che appartiene a tutti loro. Altro punto comune tra i Cristiani e i Mussulmani è la devozione per la Vergine Maria. Nel 1967, dopo la sconfitta dell’Egitto da parte di Israele, successe un fatto che unì il popolo egiziano. Qualcuno disse di aver visto l’immagine della Vergine Maria presso la cattedrale del Cairo e milioni d’Egiziani vi si riunirono e aspettarono per settimane nella speranza di assistere alla visione. Lo spirito della Vergine Maria era venuto per confortare gli Egiziani e per annunciare buone notizie. L’autenticità di questa apparizione non è mai stata provata; certo è che, se la vergine fosse apparsa, non lo sarebbe solo per i cristiani o solo per i mussulmani, ma per tutti.

Sorgerebbe poi la domanda sul perché ad apparire sia stata una donna. Nelle radici più profonde della cultura egiziana, la venerazione di divinità femminili ha sempre avuto un ruolo importante: nella mitologia faraonica Iside è la dea che raccoglie i pezzi del corpo del marito, Osiride, che è stato ucciso da un demonio. Come Iside, la donna che ha riportato il Dio in vita, così la Vergine Maria consolò il popolo egiziano in una situazione molto drammatica.

D. Perché allora il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei mussulmani è maschile e, dopo duemila anni, le donne hanno ancora uno status inferiore rispetto agli uomini?

R. Ottima domanda! A mio avviso il genere del divino è dato dalla struttura culturale di ogni lingua. In aramaico, in ebraico e in arabo antico – lingue, tutte, di società maschili – le parole al femminile sono pochissime. Le nostre tre religioni hanno dovuto lottare contro divinità femminili precedenti. In Arabia sappiamo che veniva adorata una divinità femminile, il cui culto fu soppresso dalla dominazione maschile.

L’ermeneutica umanistica e democratica, tuttavia, vuole che questa abitudine a vedere Dio come un’entità maschile cambi e vuole promuovere l’idea del divino come al di là del genere. È ciò che si intende con l’espressione “teologia negativa”. Non c’è nessuna affermazione, solo negazione. Per esempio, dire: “Il divino non è…”  è diverso da dire “Il divino è…”. Noi non usiamo delle affermazioni a causa delle influenze culturali delle tradizioni ebraica, cristiana e mussulmana.

D. Questo, a suo giudizio, vale solo per la filosofia o anche per la teologia che nasce dalla Rivelazione?

R È strettamente connesso alla tradizione teologica; Per quanto riguarda i mussulmani, per esempio, la Rivelazione cambia in base alla tradizione e alla struttura della Scrittura. Come ermeneuta democratico e umanistico mi sono occupato maggiormente dell’aspetto filosofico, ma cerco di utilizzare i concetti filosofici per alimentare il dibattito teologico e una pubblica presa di coscienza al riguardo. Io guardo alla filosofia, non solo a quella moderna, ma anche quella classica. Per esempio la teologia negativa ha le sue radici nella tradizione contemplativa medievale iraniana, che privilegia l’ascolto rispetto all’agire e promuove una spiritualità più aperta e libera.

D. Cambiamo argomento. È inevitabile parlare della questione del velo, per quanto riguarda le immigrate mussulmane.

R. Il velo non è un imposizione islamica. Una donna può indossarlo o no. Per le immigrate spesso è un simbolo di identificazione e di appartenenza alla “società mussulmana”.

D. Alcune donne sono obbligate a portare il velo?

R. Senza dubbio. Il padre, il marito, la famiglia e la comunità possono esercitare una forte pressione sulle donne. Da parte delle istituzioni occidentali, vietarlo per legge produrrebbe solo effetti negativi. Ho l’impressione che i governi occidentali tendano a cercare la soluzione più facile, che non è sempre la migliore. Si può ottenere un buon risultato a lungo termine, comunicando con le persone.