Propaganda elettorale a Pompei

Negli anni, che precedettero la rovinosa eruzione del Vesuvio del 79, nell’antica Pompei si erano tenute regolarmente le elezioni amministrative. Della propaganda elettorale relativa ci è rimasta una traccia nelle scritte sui muri, oggi dilavate a causa dei secoli, ma a tempo trascritte e raccolte in più di un corpus inscriptionum. Le scritte elettorali erano opera di «agenzie di servizi» o di artigiani isolati, sempre su commissione, forse qualche volta anche da «fai da te».
Non esistevano luoghi veramente deputati alle scritte (anche se si sceglievano i più frequentati) né si conoscono proibizioni (salvo le richieste, naturalmente disattese, di qualche proprietario a salvaguardia di certi edifici, per esempio le tombe).
Così la deplorevole abitudine di scrivere sui muri ha avuto, una volta tanto, la funzione positiva di lasciarci un’eco diretta, anche se parziale, della vita di provincia. Si trattava di eleggere ogni anno due duoviri, che avevano poteri giudiziari ed esecutivi, e due edili, che dovevano aver cura dei giochi, dei rifornimenti alimentari e delle costruzioni pubbliche. Pompei, come ogni città greca e romana, disponeva di molte infrastrutture, non solo strade, ponti ed acquedotti, ma anche piazze, templi, terme, teatri e anfiteatri, tutti luoghi di interesse e di aggregazione sociale. Di qui l’attenzione popolare per le elezioni.
Ma la vita di provincia non sfuggiva all’attenzione del potere centrale. Quando ha sentore di problemi, Roma manda ispettori a controllare: un P.Clodio Sura di Brescia viene mandato con incarichi di questo genere prima a Bergamo, poi a Como.
Nella stessa epoca traianea (quindi non molti anni dopo l’eruzione del Vesuvio) Plinio il Giovane, governatore in Asia Minore con l’incarico di verificare l’amministrazione finanziaria delle città e l’osservanza della legalità in genere, consulta il principe sui limiti di eleggibilità nelle cariche e nei consigli locali in Bitinia.
Le scritte sui muri di Pompei riguardano entrambe le cariche sopra ricordate, anche se l’edilità era considerata minore, ma propedeutica al duovirato. La caratteristica risiede nella partecipazione popolare, senza distinzione di cittadinanza o di ceto sociale. Eppure l’elettorato passivo era ristrettissimo (ufficialmente le cariche non rendevano, anzi costavano), quello attivo neanche molto ampio.
Qualche volta si tratta di invito a candidarsi, una sorta di «primarie» ante litteram. Qualche personaggio doveva essere molto in vista, e forse apprezzato, perché ritorna in più tornate e viene raccomandato da diverse categorie di persone.
Tra i firmatari delle scritte si notano in prevalenza gruppi di arti e mestieri o diverse forme associative. Nel lungo elenco figurano vignaioli e pollivendoli, barbieri e tintori, facchini e mulattieri, orefici e pizzaioli, venditori ambulanti ed operatori teatrali, frequentatori di spettacoli e persino gente del quartiere.
Non mancano neanche le scuole, con o senza i loro insegnanti e non senza errori di lingua. Una scritta si firma così: Valentinus cum discentes suos (!), segno che già allora in periferia impallidiva nella coscienza comune la distinzione formale dei casi, croce e delizia degli apprendisti di latino (si spera che l’errore sia dell’esecutore materiale della scritta e non del suo committente…).
Tra i firmatari non mancano le donne, benché prive di diritti elettorali veri e propri. Ma in prima fila sono le inservienti del bar di Asellina, probabilmente non semplici commesse. A giudicare dai nomi sembrano straniere, importate (anche allora!) in una città non proprio morigerata come Pompei: la Smirnina tradisce nel nome d’arte o soprannome la sua provenienza dalla città dell’Asia Minore, Egle è greca e Maria ebrea. Non è detta la ragione delle loro preferenze elettorali.
La motivazione della scelta non è sempre esplicitata neanche negli altri casi. Si lodano le qualità morali, specialmente l’onestà (non avidum!), ma si tratta per lo più di aggettivi generici e quindi scontati. Sembra molto pratica quella che accompagna C. Giulio Polibio, «perché fornisce pane buono» (probabilmente aveva una impresa di pianificazione, perché è molto presente nella vita pubblica della città).
Ma dei candidati, che si presentano per la seconda volta ed hanno evidentemente ben meritato nella prima in un settore, al quale l’opinione pubblica è molto sensibile, si sottolinea che sono stati apprezzati per la loro rettitudine. Per Balbo invece la salvaguardia del pubblico bilancio vien promessa come caratteristica del suo prossimo mandato. Ma tra le benemerenze già acquisite si pubblicizza anche l’offerta di spettacoli, secondo una tradizione sempre valida. E non mancano i voti di scambio: «Fa per Rustio quello che Rustio ha fatto per te»; «Sostieni Popinio Secondo e lui lo farà per te»; «Vota come edile Ovidio Veientone e lui farà lo stesso per te».
Appare qualche spunto di contropropaganda, ma tenuto su un registro morbido e leggero. Erano evidentemente sconsigliati aspiranti raccomandati da beoni nottambuli, da dormiglioni, da ladruncoli, da schiavi fuggitivi (i meno quotati sul mercato). In un caso del primo tipo si tratta di una proposta all’unanimità, ma firmata da due nomi tanto fittizi quanto trasparenti, Floro e Frutto.
Nel complesso dalle scritte citate si configurano campagne elettorali né aspre né aggressive, salvo qualche pittoresca maledizione («Possa essere fustigato chi non vota Quinzio», «Venga un malanno a chi cancella la scritta»). Eppure a Pompei le tensioni non dovevano mancare, specialmente tra le due componenti principali della popolazione, quella originaria di lontana origine sannitica e quella dei coloni stanziati da Silla. Ma si leggono anche inviti all’integrazione. Una scritta spinge «abitanti e coloni (quanto a dire indigeni ed immigrati) a proporre insieme la candidatura di Quinzio Capitone». E se qualche candidato dava ombra agli avversari per la preminenza della sua posizione personale, una scritta ammonisce: «Non bisogna invidiare, ma imitare».
 

Giornale di Brescia, 1.5.2001.