Quell’inchino che non piaceva agli antichi Greci

L’atto della «proskúnesis»

Proscinèsi è un vocabolo letterario che ricalca una parola greca antica, proskúnesis , che significava «atto di venerazione, prosternazione». Era un gesto di omaggio, diffuso a corte nell’Oriente persiano, e consisteva nell’atto di gettarsi ai piedi del re, per poi rialzarsi a riceverne il bacio. Ciò che era normale secondo il cerimoniale orientale, ripugnava invece allo spirito libero dei Greci, che ritenevano indegno di un uomo un tale gesto di sottomissione. Abbiamo numerose prove del rifiuto greco di questo gesto. Lo storico Erodoto racconta un episodio che aveva avuto per protagonisti due araldi spartani, giunti alla corte di Serse e indotti dai dignitari persiani alla proscinèsi; il tentativo di farli sottomettere si era rivelato inutile, perché i due avevano precisato al sovrano che neppure forzati col capo in basso avrebbero mai fatto ciò che ritenevano indegno di un Greco: prostrarsi di fronte a un essere umano. A questo proposito gli storici narrano che si consumarono parecchi attriti tra Alessandro il Macedone e i suoi ufficiali greci, durante la grande spedizione in Oriente. Questi avvennero quando egli tentò di introdurre l’usanza della proscinèsi presso i suoi, a imitazione degli usi orientali che andava riscontrando e che stava progressivamente assumendo. Sappiamo infatti che, dopo la conquista della prima parte dell’immenso impero degli Achemenidi, Alessandro aveva dato il via a un’opera diffusa di orientalizzazione delle abitudini e dell’abbigliamento dell’esercito, allo scopo di favorire la fusione tra le due componenti del nuovo dominio. Contemporaneamente egli attirava alla lingua greca le popolazioni sottomesse, e Plutarco racconta che trentamila giovani persiani furono da lui costretti ad apprendere il greco, con l’aiuto di numerosi maestri fatti giungere allo scopo. Riguardavano anche la proscinèsi le fiere parole dell’amico Clito, quando venne trafitto a morte proprio da Alessandro, in un impeto d’ira e sotto l’effetto del vino: Clito gli chiedeva di lasciarlo parlare liberamente, oppure di non invitare a pranzo gli uomini liberi come lui, che si rifiutavano di prosternarsi alla maniera orientale davanti al sovrano. E fa una certa impressione pensare che l’antico precettore proprio di Alessandro, Aristotele, aveva scritto alcune frasi contro la proscinèsi, evidentemente senza riuscire a convincere l’illustre alunno: nel primo libro della Retorica Aristotele ne parlava infatti come di un’abitudine barbara, un tipo di onore estraneo alla mentalità greca. La forma della parola in greco, proskúnesis, è quella di un composto derivato dal verbo kunéo, che significava "venero, adoro". Ma i parlanti lo associavano spesso a un’altra radice, molto simile, che era quella della parola kyon, cioè del cane: e dicevano perciò che fare la proskúnesis significava raggomitolarsi come un cagnolino ai piedi del padrone, in una posizione indegna per un uomo. Si tratta solo di un’associazione di idee, generata dalla somiglianza dei vocaboli e senza una giustificazione linguistica: tuttavia questa etimologia popolare ebbe successo e si mantenne viva nel mondo greco. È interessante il fatto di trovare qualcosa di analogo in un dramma moderno ma di ambientazione antica, cioè nel Giulio Cesare di Shakespeare; anche qui leggiamo di un’associazione di idee tra gesti di venerazione per i potenti e gli atteggiamenti da cagnolino. Siamo dunque nella celebre scena dell’uccisione di Cesare alle idi di marzo in senato, quando gli si avvicina Metello Cimbro a supplicarlo di revocare l’esilio al fratello. Cesare rifiuta la sua prosternazione, i suoi inchini fino a terra, le sue sbavate da cane strisciante. Gli ribadisce il decreto di esilio e minaccia, se insiste, di scacciarlo da quelle sue suppliche come si fa con un cane randagio. Due volte ricorrono nel testo i vocaboli indicanti il cane, associati ai gesti di autoumiliazione di Metello ai piedi dell’avversario. Il controllo delle fonti antiche Plutarco e Svetonio, dalle quali Shakespeare ha tratto la trama del Giulio Cesare, porta alla constatazione dell’assenza di questi particolari. Ne ricaviamo che è stato il poeta inglese a immettere le immagini della sottomissione alla maniera di un cagnolino, come sopravvivenza di un’idea, diffusa a livello popolare, del significato di questi atteggiamenti.

Giornale di Brescia, 28.8.2004