Rebora, un poeta di idee più che di ideologie

La recentissima, terza edizione integrale de “Le Poesie 1913-1957” di Clemente Rebora ripropone un autentico classico della nostra modernità, grazie anche al rigore filologico dei due illustri curatori, Vanni Schweiller e Gianni Mussini. A venticinque anni dalla morte del poeta, la sua voce è sempre più ascoltata ed un critico come Gianfranco Contini ha potuto definirla “tra le più importanti dell’espressionismo europeo”. Che cosa de “Le Poesie” reboriane affascina il lettore d’oggi? Rebora ha fatto della sua stessa arte uno strumento essenziale di ricerca, sì che in lui l’aspirazione appassionata alla verità trapassa di continuo nella poesia, facendosi canto, ritmo, immagine, presentimento, senso di comunione con gli altri. La sincerità dell’ispirazione è tale da spingere il poeta ad una continua verifica espressiva densa, vigorosa, mai paga di sé. Proprio perché Rebora è ”un poeta che è più di idee che di ideologie”, secondo la definizione di Mussini, nel suo caso la piena valorizzazione dell’aspetto letterario aiuta la comprensione anche del suo percorso umano.
La belle époque in cui Rebora si era formato – era nato nel 1885 – non l’aveva stordito con i suoi splendori e con le sue utopie. Il clima del tempo, lo Zeitwelt, è dominato in larga misura dal laicismo e dal positivismo. Rebora respira quell’aria, ma ne avverte, sin dall’inizio della pensosa giovinezza, i miasmi. Conosce troppo bene Dante e Leopardi per applaudire alle fanfare dei due ottimismi, quello scientista e quello storicista. Né vuol saperne di accordarsi all’altra fanfara, quella del superomismo dannunziano. Anzi Rebora, sin dalla prima delle settantadue composizioni che formano i “Frammenti lirici” del 1913, accampa subito un programma antidannunziano, di cui sarebbe interessante rintracciare nel corso di tutta l’opera successiva le allusioni e gli sviluppi. La prima raccolta di poesie è consapevole dello smarrimento dell’ora, della ‘offesa/ al segno divino dell’essere’, consumata da una civiltà vorace – ‘o lasciva città senz’amore’ – che irride e sporca la bellezza della natura, dominata com’è dall’Utile, ‘che nella fogna ancor tutti affratella’.
Poi fu la guerra, la grande guerra del 1915-1918. Rebora la sperimentò in prima persona, combattente sul Carso. La guerra – esaltata dagli hegeliani e dal vitalismo irrazionalista di tutte le tendenze, con D’Annunzio in testa – apparve al poeta assurda e crudele e nei “Canti Anonimi”, pubblicati nel 1922, egli dette voce, con straordinaria purezza espressiva e potenza di scarnificazione, alla tragedia dell’uomo condannato a uccidere e ad essere ucciso. “Viatico” è forse la più aspra e commovente poesia sulla guerra e di fronte ad essa anche il canto umanissimo del fante Ungaretti rischia di apparire cosa da poco. I “Canti Anonimi” si aprono con un’epigrafe assai significativa: ‘Urge la scelta tremenda: / Dire si, dire no / A qualcosa che so’. La chiusa di quell’opera, omogenea al preludio, è uno dei vertici della poesia universale. Eccola. ‘Dall’immagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa – / e non aspetto nessuno: / nell’ombra accesa / spio il campanello / che impercettibile spande / un polline di suono – / e non aspetto nessuno: / fra quattro mura / stupefatte di spazio / più che un deserto / non aspetto nessuno: / ma deve venire / verrà se resisto / a sbocciare non visto, / verrà d’improvviso, / verrà quasi perdono / di quanto fa morire, / verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà forse già viene / il suo bisbiglio’.
La ricerca di Dio fu lunga e drammatica, Rebora esplorò avidamente le più significative esperienze ascetiche e religiose. Incontrò e capì finalmente Cristo, e lo fece a modo suo, cioè fino in fondo. Nel 1936 divenne prete rosminiano. La serietà etica si sublimò ben presto in ascesi mistica. Una lunga, dolorosa malattia affinò la sua anima, già sensibilissima, e inchiodò il corpo sulla croce. Nell’opera poetica di quegli anni si deve operare una distinzione ben precisa: le “Poesie religiose” (1936-1947), gli “Inni” (1953-1956), e la raccolta delle “Poesie varie” denunciano indubbiamente una caduta di tono, anche se qua e là versi potenti, ma isolati, afferrano il lettore; ben diverso è il discorso per “Curriculum Vitae”, la reboriana autobiografia poetica, e per alcune liriche veramente belle dei “Canti dell’infermità” (1946-1956).
Nel poemetto in cui racconta la sua vita, Rebora confessa: ‘varco d’aria al respiro a me fu il canto: / a verità condusse poesia’. Né meno carichi di risonanze sono questi versi: ‘E un giorno…/ il discorso iniziato venne meno / la Parola zittì chiacchiere mie’. Nei “Canti dell’infermità” Clemente Rebora ci fa il dono di un’altra poesia capolavoro, in cui al senso di radicale contingenza della storia si accompagna la lucida attesa delle propria morte.
Non potremmo concludere meglio questo rapido invito alla lettura di Rebora. ‘Tutto è al limite, imminente: / per lo schianto, basta un niente; / da un gran vuoto / tutto esorbita nel moto, / anime, famiglie, consorzi / tutto è un farsi avanti / a spinte e a sforzi / son contati gli istanti / fuori la cosa cresce, e riesce; / dentro qualcosa s’infrange, / e si ride e si piange. / Un che sa, ed è dei capi / (Nicodemo forse?) / scorta luce ove è Gesù, / all’oscuro s’inoltra, / e in segreto, a tu per tu, / chiede qualcosa di sicuro. / Tutto è all’orlo, / basta una goccia; / e se trabocca… / Oh, sia la goccia del tuo sangue!’

Giornale di Brescia, 23.3.1983. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Renata Lollo sulla poesia di Clemente Rebora.