Riflessioni sulla teologia di Dietrich Bonhoeffer

Autori: Perone Ugo

Tensione tra cielo e terra e polifonia della vita

Vorrei innanzi tutto riprendere un elemento della relazione del professor Nicoletti e cioè il fatto che Bonhoeffer stia davanti e non dietro le nostre spalle, sebbene noi celebriamo in questi giorni i cento anni dalla sua nascita. Per caso questo tema era anche al centro di un articolo che scrivevo qualche anno fa sempre per una celebrazione anniversaria. Essendomi stato chiesto di fare un bilancio della storiografia bonhoefferiana, mi pare di aver indicato nel titolo che Bonhoeffer sta ancora davanti a noi come compito.

Chi conosce un po’ Bonhoeffer lo lega alla teologia della secolarizzazione e dunque lo lega anche ad un tempo storico (gli anni Sessanta), che è largamente alle nostre spalle. Sembra quindi che la sua diagnosi di un mondo diventato adulto, capace di vivere da sé, “etsi deus non daretur” (come se Dio non ci fosse) sia stata completamente smentita dagli sviluppi della storia, proprio perché mi pare che gli ultimi anni abbiano rievidenziato una forte ripresa del religioso e del sacrale.

Nonostante ciò io continuerei a proporre che Bonhoeffer non sta alle nostre spalle ma sta davanti a noi e anche chi oggi riprende, rovesciandolo, il suo pensiero (mi riferisco a coloro che, anche a partire da una prospettiva laica, propongono di vivere “etsi deus daretur”, nel senso che non sappiamo se Dio c’è, ma facciamo in modo e pensiamo come se ci fosse) non mette in evidenza la debolezza di Bonhoeffer, ma evidenzia semmai come forse il suo messaggio non sia stato compreso, perché lo si è inteso come se fosse un’analisi sociologica, che come tale è stata smentita (del resto fra vent’anni forse sarà smentito anche il tema della sacralizzazione e torneremo di nuovo indietro o avanti in altre direzioni). Io penso invece che quella di Bonhoeffer non sia stata un’analisi sociologica, ma quella che da filosofo chiamerei un’interpretazione e cioè la comprensione di un tempo e di un fenomeno come l’espressione di una verità. La dimensione della secolarizzazione è quindi per Bonhoeffer qualche cosa che ci dice una verità e non solo ci dice un fatto: tutto ciò continua per me a stare davanti a noi come compito.

Dopo questa premessa vorrei proporre un percorso che attraversa un po’ alcuni temi bonhoefferiani, partendo proprio da quel testo che Nicoletti citava prima, Dieci anni dopo, un testo tra gli ultimi scritti da Bonhoeffer prima del carcere, che a me è sempre piaciuto tantissimo. Il testo è stato scritto ed inviato agli amici nel Natale del 1942. Dieci anni dopo che cosa? Dieci anni dopo la presa del potere di Hitler, nel 1933. In questo testo straordinario, che è un bilancio di quel decennio, Bonhoeffer si domanda per sé e per i suoi amici se questo tempo vissuto sotto la dittatura sia stato un tempo perduto. La sua risposta, nonostante tutto ciò che quel tempo era costato per lui (perché gli era costato lasciare l’insegnamento universitario, gli era costato dover ritornare dall’America per essere fedele al suo popolo, gli era costato fare una serie di rinunce significative e, del resto, si stavano profilando per lui anni più difficili, perché dopo pochi mesi sarebbe stato arrestato), è: “No, questo tempo non è stato un tempo perduto”. Certo, dice, le nostre perdite sono tante, incalcolabili, ma il tempo non lo abbiamo perduto e non è stato vuoto e, resistendo, lo abbiamo vissuto da uomini; però molto è anche andato distrutto, tanto che ormai siamo senza terreno sotto i piedi e l’intera impalcatura culturale di un’epoca ne è uscita sconvolta, dal momento che “la gran mascherata del male ha sconvolto e confuso tutti i concetti etici”.

Ed è proprio a questo proposito che vorrei soffermarmi un momento, perché Bonhoeffer fa qui un’analisi impietosa dei fallimenti culturali di una civiltà, la civiltà occidentale europea, in cui egli si riconosce completamente.

Che cosa è fallito? E’ fallita l’etica degli uomini, degli esseri razionali, di coloro che nella ragione avevano cercato l’argine contro il disordine, è fallita l’etica che Bonhoeffer chiama del fanatismo etico, cioè di quanti avevano usato i principi morali come una forza (per questo parla di fanatismo etico) capace in sé di resistere al male. Ma è fallito anche l’uomo di coscienza, cioè l’uomo che aveva cercato di rinchiudere nella coscienza individuale il criterio del bene e del male, perché alla fine i conflitti, e pensiamo a quali conflitti furono, erano i conflitti del nazismo, sovrastanti la buona coscienza, che magari ciascuno aveva cercato di salvare. Ma non è solo fallito costui, ma è fallito anche l’uomo della morale kantiana, del dovere, perché – come scrive Bonhoeffer, anticipando e comprendendo molto di quello che stava succedendo in Germania – alla fine l’uomo del dovere compirà il suo dovere anche dinanzi al diavolo. Ma è fallito anche l’uomo della libertà, cioè l’uomo che aveva appeso le scelte etiche ad un principio di libertà, perché costui alla fine, per evitare il peggio, sceglierà quello che gli sembrerà il meno peggio, ma forse ciò sarà ancora peggiore di quello che lui non ha scelto e quindi l’idea del gioco della libertà è un gioco che purtroppo non fa i conti con l’inevitabilità del mondo, perché io credo di scegliere il meno peggio per salvare il salvabile, ma finisco con questo per rendere più grave la mia situazione. E infine, e questo dice che l’analisi è davvero impietosa, è fallito anche l’uomo che ha cercato in tutto questo marasma di rifugiarsi nel sacrario del privato, perché è vero che il privato nessuno me lo toglie, ma, perché questo privato resti puro, io devo chiudere gli occhi su tutto quello che mi circonda.

Ora, quando Bonhoeffer fa quest’analisi impietosa ma non disperata – perché questi Dieci anni dopo chiudono dicendo che abbiamo imparato tante cose e abbiamo imparato che dobbiamo ripartire dal basso anziché dall’alto -, porta fino in fondo la consapevolezza che la crisi politica e sociale è una crisi che però ha delle sue radici culturali profonde che investono le matrici stesse della nostra cultura. Tutto questo è in singolare consonanza con altri passaggi dell’Etica, che non sto a sviluppare troppo, ma che in un saggio che s’intitola Funzione formativa dell’etica fanno un’analisi dell’illuminismo e della rivoluzione francese, mostrando con parole che sembrano quasi quelle del Novalis del saggio su Cristianesimo ed Europa (e quindi estremamente conservatrici) come la storia dell’occidente europeo sia stata una storia di divisioni, che, a partire dalla stessa Riforma protestante, hanno prodotto un esasperato ruolo dell’uomo, il quale ha condotto alla rivoluzione francese. Ma la rivoluzione francese è culminata nel terrore e in fondo a questo cammino non c’è che il nichilismo.

Chi ha in mente il Bonhoeffer pensatore della secolarizzazione è messo un po’ a disagio dalle cose che sto dicendo, perché l’analisi che ho appena abbozzato è un’analisi critica e impietosa sulla vicenda del mondo. Il punto è che Bonhoeffer fa anche un altro discorso e lo fa precisamente nello stesso saggio dell’Etica che prima richiamavo, in cui egli dice che, se è vero che le cose storicamente guardate sono andate così, è altrettanto vero che in sede teologica non posso non rivendicare a Cristo questo mondo così come esso è. Non c’è quindi un giudizio positivo sulle vicende della storia, ma c’è un giudizio teologico che mi dice che io non posso retrocedere alle spalle, all’indietro di quelli che sono stati gli esiti della storia e allora da questo punto di vista per Bonhoeffer l’illuminismo diventa, come mi piace chiamarlo, una categoria teologica. Dietro alle conquiste dell’onestà intellettuale, dietro alle conquiste di quell’aria fresca che la ragione dell’uomo affidata a se stessa ha dato nell’illuminismo non si può cioè retrocedere.

Allora possiamo dire che in Bonhoeffer ci sono due elementi: da un lato, la consapevolezza dei guasti non solo possibili astrattamente ma effettivi (che lui paga sulla sua pelle) della nostra vicenda culturale e, dall’altro lato, la consapevolezza teologica che non si può tornare indietro rispetto a tutto questo. La lunga strada verso un’epoca che sia prima di queste vicende, ci è preclusa per sempre.

Questo tema dalla tensione è, secondo me, una chiave di lettura che propongo per pensare Bonhoeffer, che è un grande teologo perché è capace di tenere insieme, come elementi che danno luogo ad una unità tensiva, elementi che sono fra di loro addirittura in opposizione. Del resto, nella sua Etica, che è molto cristologica, quando parla di Cristo, egli non parla solo di lui come essere per gli altri (abbiamo sentito cose molto belle e interessanti in questa direzione), ma dice anche che Cristo è l’unità polemica di cielo e terra. Allora in Cristo perché possiamo sostenere la tensione? Essa è già stata sostenuta una volta, perché in Cristo c’è un luogo dove cielo e terra si incontrano, ma non in un’armonia semplice e spontanea, ma in una tensione persino drammatica e che tuttavia sta insieme.

Questa dimensione della tensione è quella che io proporrei come chiave di lettura complessiva di Bonhoeffer e alla luce di essa suggerisco rapidamente quattro temi, che in parte sono anche stati già toccati, ma che riprendo per dire che in quella luce questi temi possono diventare anche più significativi.

Il primo tema è quello già accennato, bonhoefferiano classico, della secolarizzazione e del mondo diventato adulto. Noi sappiamo che uno dei temi bonhoefferiani è la considerazione del fatto che la società e la storia della nostra cultura occidentale si siano progressivamente distaccarti da Dio. L’espressione bonhoefferiana è “muendig”. “Muendig” è colui che è maggiorenne, ma chi è maggiorenne va via da casa, si separa. Quello che a me preme sottolineare è che il concetto di secolarizzazione di Bonhoeffer è molto diverso dal concetto di secolarizzazione di Gogarten. Nella teologia protestante abbiamo già avuto delle analisi di questo genere, ma queste analisi, che riconoscevano che c’era un processo di secolarizzazione, fondavano la secolarizzazione direttamente in Cristo. Dicevano cioè che la secolarizzazione è cominciata con il cristianesimo, tanto è vero che gli stessi cristiani all’inizio sono stati condannati, considerati e condannati come atei. Quindi la secolarizzazione è un prodotto del cristianesimo. Poi però questi autori, come Gogarten, si trovavano davanti al problema di vedere che tutta questa vicenda del mondo non è che andasse tanto nella direzione di Cristo. E allora che cosa facevano? Dicevano, in breve, che c’era una secolarizzazione “buona”, che si chiama secolarizzazione e una secolarizzazione “cattiva” che si chiama secolarismo. A parte il fatto che a un filosofo questa distinzione appare un po’ troppo comoda, perché si tratta di stabilire quale sia il criterio che distingue l’una dall’altra, quello che soprattutto va perduto in questa visione, che io chiamo irenica e continuistica della secolarizzazione, è che la secolarizzazione è uno strappo, una rottura, una cesura nella storia. Bonhoeffer invece lo sa e qui si radica quanto dicevo prima sulla tensione. Bonhoeffer è il teologo della secolarizzazione, certo, ma è anche colui che sa che la secolarizzazione è una dolorosa rottura, una ferita nella storia, solo che, aggiunge, non c’è modo di rimarginare questa ferita se non in sede teologica e quindi solo riscattandola e rivendicandola in un altro significato.

Il secondo tema riguarda il fatto che Bonhoeffer sia un teologo che si occupa di etica. Anche se Resistenza e resa è il libro che più immediatamente prende il cuore, è certo che il suo libro più importante è L’etica, in cui c’è già tutto Resistenza e resa. Un teologo protestante di matrice barthiana, come ha giustamente ricordato Rosino Gibbelini, che si occupa di etica, desta immediatamente dei sospetti, perché dal punto di vista di Barth, che non mancò di far sapere a Bonhoeffer che non era proprio contento di questa sua direzione, il problema non è l’etica, ma la verticalità della parola di Dio. Invece Bonhoeffer scrive come opera fondamentale l’Etica, ma fa ancora di peggio o qualcosa di paradossale, perché in un brano dell’Etica dice che dal punto di vista cristiano ogni etica è inutile, proprio perché ogni etica è il tentativo presuntuoso di voler distinguere fra il bene e il male ed è quindi esso stesso un tentativo già peccaminoso.

Quindi, che cosa fa questo teologo, che invece di occuparsi di parola di Dio si occupa di etica e poi dice che l’etica è una scienza fallimentare, perché è la scienza superba che vuole distinguere il bene dal male? Non fa altro che essere coerente con quello che ho cercato di mostrare con le mie parole introduttive: l’etica cioè è il nostro luogo teologico. Noi non possiamo se non partire dal basso, non possiamo se non partire da quella che è la nostra vita, la nostra storia, i nostri conflitti, la nostra responsabilità, la nostra realizzazione, il mondo e quindi, se voglio parlare di Dio, non posso eludere la questione del luogo concreto in cui mi trovo, proprio perché la parola di Dio o è concreta o non c’è. Allora l’etica è il luogo teologico concreto in cui si pone la domanda fondamentale: “Che cosa costituisce la realtà come una realtà buona?”. La risposta è Cristo. Quindi ecco che l’etica diventa teologica, l’etica non diventa il manuale normativo di quello che è bene o male o di quello che debbo fare, ma diventa la presa d’atto che per parlare di Dio oggi debbo parlare del mondo, che Dio io lo incontro a partire da questa mia terrestrità.

Il terzo tema riguarda il famoso discorso di un cristianesimo non religioso. Qui Bonhoeffer è erede, come sappiamo, di Barth, il primo grande teologo che polemizza contro la religione in modo estremo. Sappiamo che Barth dice che la religione è l’ultimo, il più grande, il più alto, ma comunque resta anche il più grave dei peccati dell’uomo, perché è il tentativo di dare la scalata a Dio, di istituire un ponte che mi mette in relazione con Lui. Quindi, quando Bonhoeffer parla di cristianesimo non religioso, ha alle spalle la accettata polemica di Barth contro la religione. Ma il cristianesimo non religioso di Bonhoeffer è molto più radicale di quella delle affermazioni barthiane e questo lo vediamo se prendiamo in considerazione ciò che dice a proposito di Bultmann. Bonhoeffer aveva letto in quegli anni un altro grande modo di affrontare il problema del comprendere Dio, quello offerto da Bultmann. Questi in polemica con Barth aveva detto che è giusto partire dalla parola di Dio, ma, quando prendo la verticalità di essa, devo poi pormi subito un altro problema e cioè come comprendo questa parola. Per comprenderla, secondo lui, devo attualizzarla e devo spogliarla da una serie di modi che si sono sedimentati nel tempo e che sono antichi, che chiamiamo miti e che sono presenti anche nella Sacra Scrittura. Ma siccome essi sono modi che oggi rendono impossibile all’uomo moderno comprendere autenticamente Dio, si tratta di demitizzare o demitologizzare la religione.

Bonhoeffer sostiene che quello che dice Bultman vada bene e che si possa accettare ma, secondo lui, esso è abbastanza inessenziale perché forse nelle espressioni mitologiche della religione c’è molta più verità di quanto noi non sospettiamo. Il problema per Bonhoeffer è molto più radicale. Dobbiamo cioè togliere un’interpretazione religiosa del cristianesimo, non solo togliere un’interpretazione mitica, perché l’interpretazione religiosa del cristianesimo è quella che fa di Dio un tappabuchi, cioè che usa Dio come un’ipotesi di lavoro. Tutte le visioni del mondo che incapsulano Dio come un elemento essenziale per il sistema l’hanno già tradito e quindi noi dobbiamo provare a fare senza questa visione ideologica, anche se poi in questo modo non resta più niente. Ecco di nuovo il tema della tensione. Bonhoeffer propone a questo riguardo la “disciplina dell’arcano”, secondo cui noi oggi dobbiamo proteggere il silenzio, dobbiamo proteggere il mistero, dobbiamo proteggere la differenza, cioè dobbiamo impedire che si utilizzi Dio come chiave per risolvere i problemi dell’uomo. L’uomo ha la forza e il dovere di risolverli da sé, ma così facendo noi lasciamo uno spazio molto più importante per Dio, perché lo poniamo non come elemento per costruire il mondo, ma come la radice ultima della realtà.

L’ultimo tema riguarda quella che chiamerei bonhoefferianamente la polifonia della vita. Un altro elemento che a un filosofo come me interessa moltissimo in Bonhoeffer è questa idea non solo della tensione, che ho cercato di illustrare, ma anche l’idea che la realtà sia molto più complessa e fatta di tanti strati. Per spiegarlo faccio un esempio. In un bellissimo saggio di Bonhoeffer, che si intitola “Che cosa significa dire la verità”, egli si pone questa questione divertente, ma che in realtà credo dia luogo a ragionamenti più interessanti: “Se un bambino durante la lezione è interpellato dal maestro, che gli chiede: ‘Tuo padre beve, è forse un ubriacone?’, che cosa deve rispondere questo bambino, dal momento che il padre beve ed è un ubriacone?”. Bonhoeffer, facendosi questa domanda, ha dietro di sé Kant che si era fatto la stessa domanda in un contesto diverso. Kant sosteneva quella filosofia che diceva che verità e parola devono corrispondere e che quindi, se il padre è un ubriacone, la logica dice che verità vuol dire che il padre è un ubriacone. Ovviamente la risposta di Bonhoeffer è che il bambino deve rispondere che il padre non beve, ma quello che è interessante di questa risposta è che essa non è un “escamotage”, cioè non tende a dire che bisogna trovare un’eccezione al criterio di verità, che il criterio di verità è dire come stanno le cose, ma che in certi momenti è meglio non dirlo e trovare un eccezione. Egli fa un ragionamento molto più approfondito e dice: “La verità è rispettare e far crescere la realtà ed è falsità tutto ciò che la ferisce, le fa violenza, è unilaterale”. Allora il maestro, che entra dentro la realtà sacra dell’intimità famigliare con una domanda così violenta, ha ferito e ha posto nella condizione della falsità, quindi la risposta deve essere una risposta di protezione della verità. Qui allora si vede che il reale non si risolve in una corrispondenza, non sono i fatti il reale. Il reale sono i fatti, il loro significato, il loro senso, la responsabilità che ho per essi e cioè tutto l’insieme di queste cose. Bonhoeffer dice: “Noi tedeschi non sappiamo mantenere il velo, noi vogliamo svelare tutto”. La polemica è anche contro Heidegger e il suo concetto di rivelazione. Noi pensiamo che la verità sia mettere a nudo, invece la verità è proteggere, che è un’altra cosa. E proteggere vuol dire anche tenere il velo. Solo davanti a Dio, dice Bonhoeffer, in confessione, è lecito togliere del tutto il velo. Ma perché? Perché, penso io, Dio ha uno sguardo vorrei dire spettrografico, che cioè è capace di vedere la mia meschinità ma anche quel po’ di generosità che c’è, l’insieme degli strati o l’insieme delle maschere (Bonhoeffer usa quest’espressione sulla scia di Nietzsche), che costituiscono la mia identità. Dio non le trapassa per prenderne una, ma le trapassa e le vede tutte. Gli uomini invece feriscono e prendono una delle maschere, allora quella non è verità. La verità è la protezione polifonica del reale nella sua complessità.

Vorrei chiudere con due citazioni, che cercano di riprendere un po’ i temi del discorso che ho fatto.

Per quanto riguarda il tema della tensione, la citazione è tratta da Resistenza e resa e dice: “Da tempo amo in maniera particolare il periodo fra la Pasqua e l’ascensione”. Anche qui si tratta di una grande tensione, ma come possono gli uomini far fronte alle tensioni terrene se non sanno nulla della tensione fra cielo e terra?. Questa tensione è centrale in quello che dice Bonhoeffer.

L’altra citazione è sempre tratta da Resistenza e resa. Bonhoeffer, riferendosi ai colloqui con la fidanzata e con i parenti, che all’inizio della sua prigionia erano relativamente frequenti (perché la prima fase della prigionia è stata non così difficile come lo fu poi l’ultima), e meditando su di essi, riflette anche sul tempo e dice: “Quando voi andate via, uno comincia a misurare il tempo fra questo momento in cui siete stati con me e quello poi in cui voi tornerete. Allora religiosamente si è portati a dire: ‘Bene. Dio mi aiuterà a riempire questo tempo fra un incontro e l’altro incontro’”. Ma poi si corregge e dice: “Dio non mi aiuterà a riempire, ma mi aiuterà a tenere vuoto questo tempo, cioè a reggere questa tensione, perché riempirlo è un compito mio”.


[1] Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.2.2006 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.