Romano Guardini, uno dei maestri della Rosa Bianca

Per tutti noi oggi c’è il rischio tragico di un venir meno, di una eclissi della memoria. Proprio qualche tempo fa in Germania, un giudice con una sentenza scandalosa ha affermato che è perfettamente legittimo negare lo sterminio degli ebrei, questa terribile macchia della coscienza tedesca ed europea. Quando assistiamo a questa eclissi della memoria, quando si rimuove il ricordo che inquieta, tutto può ritornare: anche la violenza più atroce. La pulizia etnica sta del resto riemergendo non come un fantasma, ma come un dato di cronaca e non solo nel lontano Ruanda, ma nell’ex-Jugoslavia, qui alle nostre porte. Oggi ritorneremo dunque a fare memoria, ricordando i ragazzi della Rosa Bianca, e – dal momento che siamo a Brescia, la città dell’editrice Morcelliana –, ricordando anche il loro Maestro, Romano Guardini, di cui la Morcelliana sta pubblicando tutte le opere, tra cui i due bellissimi testi dedicati proprio ai ragazzi della Rosa Bianca

Quando la ghigliottina nazista, nel 1943, spezzò le loro vite, Hans Scholl aveva 24 anni, Alexander Schmorell 25 così come Willi Graf, Christoph Probst ne aveva 23 e la ragazza del gruppo, Sophie Scholl, sorella di Hans e studentessa di filosofia e biologia, 21 appena. I ragazzi erano tutti studenti universitari di medicina, inquadrati in una compagnia militare studentesca. Davanti ai giudici del tribunale speciale nazista, si sentirono gettare addosso come massima infamia l’aver «pugnalato alle spalle» l’esercito tedesco, proprio mentre grazie alla magnanimità del Führer potevano continuare a frequentare l’Università, e per giunta con una borsa di studio statale.

Dunque fu davvero una giovane e ardente resistenza quella della Rosa Bianca. E fu anche una breve resistenza, perché nell’azione effettiva del suo nucleo originario durò nemmeno otto mesi, dal giugno 1942 al febbraio 1943. E fu una piccola resistenza, perché produsse complessivamente 6 volantini (di cui i primi quattro stampati in poche centinaia di copie e solo gli ultimi due a tiratura discretamente elevata) e qualche decina di scritte murali contro Hitler.

Quattro aggettivi per definirla: giovane, ardente, breve, piccola resistenza. Forse per questo, nei libri di storia e anche nelle opere specifiche sulla resistenza tedesca, la Rosa Bianca è spesso liquidata in poche righe, come un nobile ma un po’ patetico esperimento di ragazzi di buona famiglia. Insomma, secondo una linea interpretativa pragmatico-realistica (che troviamo esposta nel saggio di Hans Mommsen e nel libro di Christian Petry), la Rosa Bianca sarebbe stata un’avventura giovanilistica e velleitaria, certo una luce accesa nella notte, una pagina straordinariamente poetica, ma di scarso spessore storico.

Giustamente, però, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’arresto dei fratelli Scholl all’Università di Monaco, il Presidente della Repubblica Federale Tedesca, Richard von Weizsäcker, ha efficacemente confutato queste tesi riduzionistiche, affermando che l’appello al ripristino dell’etica e della legalità – lanciato dai volantini della Rosa Bianca – è in realtà un atto peculiarmente politico.

Ma ci sono perlomeno altre due ragioni per cui la storia della Rosa Bianca merita di essere riletta e analizzata sempre più a fondo, anche in Italia dove è ancora per larga parte sconosciuta.

La prima è metodologica: il valore di una resistenza non si misura sull’efficienza della sua organizzazione e sull’efficacia dei suoi risultati. Se questo fosse il metro di giudizio, che cosa dovremmo dire dei cospiratori del 20 luglio 1944, la cui attività pur giganteggia nelle ricostruzioni dell’opposizione al nazismo in Germania? Non è forse fallito anche quel complotto, che pur disponeva di mezzi organizzativi e finanziari, e di un retroterra politico ben più importanti di quelli degli studenti universitari di Monaco?

La seconda ragione è sostanziale: la Rosa Bianca non può esser valutata solo in base al drammatico epilogo del 18 febbraio 1943 e alle brevi, seppur intense, biografie dei suoi protagonisti. Il gruppo che si era formato attorno ad Hans Scholl e Alexander Schmorell, per quanto fosse di matrice borghese e di ispirazione cristiana, per quanto imbevuto di cultura letteraria e pervaso da inquietudini esistenziali e in certi casi da tensioni mistiche, aveva in realtà un progetto politico. Basta leggere per intero i sei volantini.

Certo che possono apparire ingenui, romantici, a tratti anche retorici. Ma rileggiamo al di là del linguaggio utilizzato, alcuni passaggi chiave.

Dal I volantino: «Ogni singolo, consapevole della propria responsabilità come membro della cultura cristiana e occidentale, deve coscientemente difendersi con tutte le sue forze, opporsi in quest’ultima ora al flagello dell’umanità, al fascismo e ad ogni sistema simile di Stato assoluto. Fate resistenza passiva, resistenza ovunque vi troviate… Non dimenticate che ogni popolo merita il governo che tollera!».

Dal II volantino: «Non è ancora troppo tardi per eliminare questo governo, che è il più abominevole e mostruoso di tutti quelli che abbiamo avuto, per non addossarci ancora più colpa. … L’unico ed il più alto dovere, il più santo per ogni tedesco, deve essere quello di sterminare queste belve».

Il III volantino elenca addirittura una serie di azioni di sabotaggio da mettere in atto per intralciare la macchina bellica e intaccare il consenso organizzato dalla propaganda del regime.

E gli ultimi due volantini, proprio a marcare l’esigenza di eliminare ogni equivoco di tipo giovanilistico-romantico, abbandonano lo stesso nome di Rosa Bianca, per definirsi “Volantini del Movimento di resistenza in Germania”. E sappiamo che, proprio per i giorni immediatamente successivi all’arresto, era stato programmato un appuntamento a Berlino tra Hans Scholl e Falk Harnack, che doveva metterlo in contatto con il circolo Bonhoeffer e, quindi,con gli ambienti più rilevanti della resistenza tedesca. Dunque erano sì giovani, illusi, ingenui, naïf, ma che comunque non si accontentavano di un “bel gesto”, di una microtestimonianza radicale e profetica: stavano per diventare adulti e lo sarebbe di certo diventata anche la loro resistenza, se Hans e Sophie Scholl non avessero compiuto il fatale azzardo della distribuzione dei volantini dentro l’università, se non avessero alzato il tiro dell’attività clandestina e se la Gestapo, afferrato il filo rosso dei fratelli di Ulm, non l’avesse tirato fino a distruggere un’intera rete di resistenza e complicità.

Si legge nel V volantino: «L’idea imperialista del potere, da qualunque parte essa provenga, deve essere resa innocua per sempre. Un militarismo prussiano non deve più giungere al potere. Solo attraverso un’ampia collaborazione dei popoli europei si può creare una base su cui sarà possibile una costruzione nuova. Ogni potere centralizzato, come quello che lo Stato prussiano ha cercato di instaurare in Germania e in Europa, deve essere soffocato sul nascere». E seguivano le indicazioni di un «sano federalismo» e di un «ragionevole socialismo».

Indubbiamente, aveva qualche ragione il filologo Herder, a cui la Gestapo affidò il compito di tracciare l’identikit dell’autore dei volantini, ancora per poco sconosciuto: non si trattava di un politico con le idee chiare e un programma preciso, bensì di un intellettuale abituato a leggere la Bibbia e i filosofi, incline ad un’enfasi predicatoria. Ma le rivoluzioni ideali non nascono mai da fredde analisi a tavolino, quanto piuttosto da slanci utopici che si incarnano in energie umane reali. «Separatevi in tempo da tutto ciò che è collegato a nazionalsocialismo! Libertà di parola, libertà di fede, difesa dei singoli cittadini dall’arbitrio di Stati criminali che si fondano sulla violenza: queste sono le basi della nuova Europa», si legge nel quinto volantino, nell’«Appello a tutti i tedeschi».

E allora come si fa a dire che la Rosa Bianca non avesse una strategia politica? Certo, peccò di ingenuità, fece errori di valutazione, dovette soccombere alla sproporzione tra i mezzi e gli obiettivi. Ma non per questo fu meno politica. Come disse il professor Kurt Huber, che fu condannato con i suoi studenti, nella sua apologia davanti al tribunale del popolo: «Mio obiettivo era il risveglio degli ambienti studenteschi, servendomi non di un’organizzazione, ma di semplici parole, per provocare non atti di violenza, ma un giudizio morale sui gravi mali presenti nella vita politica. Il ritorno a principi chiari, morali, allo Stato di diritto, alla fiducia reciproca, non è un atto illegale, ma al contrario il ripristino della legalità».

E c’è forse qualcosa di più politico del ripristino della legalità, della lotta per far rinascere uno Stato di diritto?

Certo, nelle ricostruzioni della Rosa Bianca c’è un altro pericolo di segno opposto in agguato. Quello di lasciarsi conquistare dall’intatta giovinezza dei suoi protagonisti, dalla loro morte coraggiosa, dalle parole così intense e poetiche che hanno lasciato nelle lettere e nei diari, per trasformare una concreta esperienza storica in un contesto atroce come quello della dittatura di Hitler, in una specie di avventura romantica. Non è un caso che, se gli storici hanno per lo più trascurato questa pagina resistenziale, vi si sono dedicati invece numerosi scrittori, giornalisti, registi. Ma dopo aver messo in conto il pericolo di fare della vicenda della Rosa Bianca materiale per un romanzo di azione e commozione, non si può negare (come appare dal bellissimo libro di Paolo Ghezzi) che quella della Rosa Bianca è in sé una storia straordinaria che è, al di qua di ogni stilizzazione retorica e di ogni facile mitologia, resa possibile dall’incontro di forti individualità, che hanno trovato nell’amicizia profonda e nel mistero delle affinità elettive la forza eroica di sfidare il regime della massificazione e dell’annullamento delle personalità. Hanno creduto nella parola perché le parole sono state le loro armi, in un’epoca storica in cui le parole erano state pervertite dalla immane macchina propagandistica del nazionalsocialismo e, come scrissero in un loro volantino, ogni parola che usciva dalla bocca di Hitler era una menzogna. Quando dice pace, vuol dire guerra.

I loro volantini, nella modestia della veste tipografica, nell’appassionato fervore di certi passaggi, diventano così un attentato e un alto tradimento: perché attentano al monopolio della comunicazione e dell’informazione che erano uno dei cardini del sistema nazionalsocialista. Non è da sottovalutare la funzione di “voce alternativa” che intendevano rivestire, come veicolo di notizie altrimenti ufficialmente negate: dallo sterminio degli ebrei in Polonia alla disfatta di Stalingrado, fino alle crescenti difficoltà militari della macchina bellica hitleriana. Non furono i soli strumenti di comunicazione dissidenti, non possono esser dimenticati i volantini dell’opposizione socialista e comunista, soprattutto nei primi anni della dittatura. Ma furono tra le pochissime voci che riuscirono a inquietare le autorità politiche naziste: e non è un caso che proprio un loro volantino fu scelto dagli Alleati per essere lanciato sulle città tedesche da parte degli aerei dell’aeronautica militare inglese insieme alle bombe.

Non sono stati gli unici a sfidare la dittatura, ma sono stati certamente tra i pochi, rispetto alla maggioranza silenziosa che veniva trainata dalla minoranza osannante. All’Università di Monaco i loro compagni di studi festeggiarono … il bidello Jakob Schmid, che aveva fatto arrestare i fratelli Scholl, come un eroe, poche ore dopo l’esecuzione della sentenza di morte. Dovette essere uno studente cosiddetto “mezzo-ebreo” che veniva da Amburgo, Hans Leipelt, ad esprimere una concreta solidarietà nei confronti della vedova e degli orfani del professor Huber: e anche Hans Leipelt – che pure non aveva mai conosciuto direttamente gli Scholl e gli altri – pagò con la vita il proprio coraggio.

La storia della Rosa Bianca appartiene al capitolo della Widerstand, termine che in tedesco è una parola di genere maschile, più forte della nostra parola “resistenza”, perché c’è dentro il wider che significa contro, e dunque ergersi, stare in piedi, dritti, in contrapposizione a qualcosa. Non semplicemente in difesa delle proprie convinzioni, ma contro qualcos’altro.

Hans e Sophie Scholl, Willi Graf, Alex Schmorell, Christoph Probst, il professor Kurt Huber, Hans Leipelt e le decine di altre persone che sono state coinvolte e in molti casi processate e condannate per l’attività della Rosa Bianca, ci insegnano proprio che – quando le libertà fondamentali sono calpestate – bisogna individuare il nemico e combattere. Il come appartiene alla sfera della coscienza e delle inclinazioni individuali, ma la lotta è obbligatoria. Quei giovani l’hanno fatto – ha scritto Anneliese Graf – con incondizionata intensità, con inesorabile disponibilità, con coraggio. Tanti riconoscevano i crimini del nazionalsocialismo, ma pochi, troppo pochi, hanno osato agire, proclamare quella verità dai tetti, per usare un’espressione evangelica.

E c’è da sottolineare che la loro scelta comincia quando hanno intorno ai vent’anni: sia Graf sia Scholl vengono processati solo per aver partecipato alle organizzazioni giovanili che si contrapponevano alla Gioventù hitleriana, di cui per altro i fratelli Scholl avevano fatto parte, e con entusiasmo, per un paio d’anni.

Dunque c’è una coerenza che comincia da lontano: c’è una tendenza all’opposizione, al non-conformismo, al pensiero e alla prassi alternativi, che li inquieta ben prima delle drammatiche svolte belliche che spingeranno anche gli aristocratici e gli alti gradi militari, finalmente, a intessere la cospirazione che culminerà nel fallito attentato a Hitler.

Proviamo a tracciare – per grandi linee – una cronologia parallela, che testimonia come questi giovani studenti-soldati abbiano maturato la scelta della resistenza ben prima dell’inizio della crisi militare tedesca.

6 aprile 1941: inizio della campagna contro Jugoslavia e Grecia. Vi partecipa anche Graf, che poi sarà destinato al fronte orientale.

Fine maggio: a casa di Alexander Schmorell, Hans Scholl fa la conoscenza di Christoph Probst.

31 luglio: Heydrich è incaricato di definire i preparativi per una soluzione finale della questione ebraica in Europa.

19 settembre: imposizione della stella di David per gli ebrei che risiedono nel territorio del Reich.

Autunno 1941: Scholl legge le coraggiose prediche del vescovo di Münster, Clemens August Graf von Galen, contro lo sterminio dei “Nichtmenschen”: zingari, handicappati, malati. Il testo era arrivato con la posta, nella loro casa di Ulm. E la sorella Inge ricorda che Hans disse: “Bisognerebbe avere un ciclostile”.

Sempre nell’autunno 1941, Scholl comincia a frequentare la casa di Carl Muth, editore della rivista cattolica aperta Hochland, ne riordina la biblioteca e approfondisce la conoscenza di autori come Maritain, Bernanos, Bloy, Dostoevskij.

11 dicembre: la Germania dichiara guerra agli Stati Uniti d’America.

21 gennaio 1942: controffensiva di Rommel in Libia.

Aprile 1942: Graf torna dal fronte russo.

3 giugno 1942: Hans e Sophie Scholl, Probst e Schmorell parlano a lungo con il professor Huber, in una serata presso la signora Martens.

In quel mese, Graf incontra Scholl e Schmorell nella Studentenkompanie di Monaco, e a fine giugno viene diffuso il primo volantino, seguito – fino al 12 luglio – dagli altri tre, in una tiratura molto limitata: circa 100 copie per ogni volantino, spedite principalmente per posta ad indirizzi dell’università e della zona di Monaco.

23 luglio: partenza di Scholl, Graf e Schmorell per il fronte russo.

20 agosto: la Wehrmacht raggiunge il Volga e Dubovka e tocca le difese esterne di Stalingrado.

30 ottobre: Scholl, Graf e Schmorell tornano dal fronte russo; si intensificano gli incontri e le discussioni su come sviluppare l’attività di resistenza.

11 novembre: le truppe tedesche occupano il territorio francese controllato dal governo di Vichy.

23 novembre: accerchiamento della sesta armata tedesca a Stalingrado.

Fine novembre: Scholl e Schmorell vanno a Stoccarda, da Eugen Grimminger, un commercialista amico del padre di Scholl, che offre loro una consistente somma di danaro per finanziare la produzione dei volantini.

17 dicembre: in casa del professore Huber si decide che anche il docente parteciperà alla preparazione dei testi clandestini.

1 gennaio 1943: Hitler si rivolge alla nazione dicendo: «Popolo tedesco, nazionalsocialisti, nazionalsocialiste, compagni di partito! Per la quarta volta il destino mi obbliga a rivolgere l’appello del nuovo anno al popolo tedesco in uno stato di guerra. In questi quattro anni è però diventato chiaro anche al popolo tedesco che … si tratta davvero di essere o non essere. Noi siamo decisi, dopo che la guerra non era più evitabile, a condurla con tutto il fanatismo di cui noi nazionalsocialisti siamo capaci … Il singolo deve passare e come sempre passerà, solo il popolo deve rimanere».

Vacanze di Natale 1942-1943: Graf a Saarbrücken, i fratelli Scholl a Ulm, cercano di conquistare gli amici alla causa della resistenza, riuscendovi in alcuni casi.

4 gennaio 1943: Göbbels chiede alla stampa di sostenere il morale della popolazione nell’impegno totale di tutte le forze e le riserve.

6 gennaio: il comandante delle SS Himmler invia una circolare sulle modalità di esecuzione capitale da seguire nei campi di concentramento.

7 gennaio: comincia la diffusione del quinto volantino, non solo a Monaco, ma anche a Ulm, Stoccarda, Augsburg. Centinaia di copie vengono spedite anche da Salisburgo, Vienna e Linz, indirizzate tra l’altro a persone di Francoforte. Alcuni esemplari vengono portati anche a Berlino.

13 gennaio: con decreto del Führer, sull’impiego di tutti gli uomini e le donne a difesa del Reich, comincia la “mobilitazione totale” del popolo tedesco.

13 gennaio: tumulti al Deutsches Museum per il discorso maschilista del Gauleiter (capo delle organizzazioni nazionalsocialiste di un distretto). Anneliese Graf ne riferisce al fratello Willi, agli Scholl, e ad altri amici: il gruppo decide di accelerare il programma di azione, per approfittare delle prime, apparenti crepe nel consenso al regime.

Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio, 118 bombardieri tedeschi attaccano Londra.

20 gennaio: prime deportazioni dal ghetto di Terezin al campo di concentramento di Auschwitz.

3 febbraio: annuncio della disfatta di Stalingrado.

Nella notte tra il 3 e il 4 febbraio, Scholl e Schmorell scrivono con vernice al catrame sui muri del centro di Monaco, a caratteri cubitali, slogan come Freiheit (Libertà) e Nieder mit Hitler (Abbasso Hitler).

5 febbraio: a Berlino comincia una conferenza di tutti i quadri del partito nazionalsocialista per organizzare la mobilitazione totale del popolo.

La notte tra l’8 e il 9 febbraio, ancora slogan sui muri.

11 febbraio: comincia l’arruolamento degli studenti che hanno compiuto 15 anni come aiutanti della contraerea.

12-15 febbraio: produzione e diffusione del sesto volantino, redatto dal professor Huber.

14 febbraio: le truppe tedesche in Nordafrica intraprendono l’operazione “Vento di primavera”, un attacco al secondo corpo d’armata americano in Tunisia.

16 febbraio: nuovo “raid” notturno di Scholl, Graf e Schmorell con scritte murali.

18 febbraio: Joseph Göbbels, ministro della propaganda, al palazzo dello sport di Berlino, davanti a migliaia di spettatori scelti ed entusiasti, afferma che  «Stalingrado era ed è il grande grido d’allarme del destino della nazione tedesca». Al pubblico pone dieci domande, la prima suona: «Credete con il Führer e con noi alla definitiva, totale vittoria del popolo tedesco?». «Sì» tuona l’immensa platea, e un’ovazione simile risponde ad ogni domanda, che chiede l’impegno totale dei tedeschi per la guerra totale. Nel suo diario, Göbbels annoterà successivamente: «Quell’ora di idiozia. Se io avessi detto loro che dovevano buttarsi dal terzo piano della Columbus Haus, l’avrebbero fatto».

18 febbraio (lo stesso giorno): distribuzione del sesto volantino nell’Università di Monaco ed arresto dei fratelli Scholl. Nell’appello agli studenti si legge: «In nome della gioventù tedesca esigiamo dallo Stato di Adolf Hitler la restituzione della libertà personale … Il nostro popolo si leva contro l’asservimento dell’Europa da parte del nazionalsocialismo».

Questa dunque la loro piccola storia inserita nella grande storia: una storia che a mezzo secolo e più di distanza conserva intatta la capacità di affascinare e contagiare, forse proprio perché – pur essendo incarnata a Monaco e nella Germania meridionale, nell’ambiente universitario e nello strato sociale borghese – ha tratti così autenticamente universali da essere decodificabile anche per altre epoche, altri contesti geopolitici. Tratti universali dovuti al singolare rapporto che questi ragazzi, questi giovani avevano con la verità, al loro ripudio della menzogna. Infatti con incredibile lucidità Sophie Scholl, nel settembre del 1940, dunque a soli 19 anni d’età, scriveva a Fritz Hartnagel, il suo amico ufficiale al fronte: «Come può un soldato avere un atteggiamento fedele alla verità, quando è costretto alla menzogna? … Trovo ingiusto che un tedesco o un francese, o quello che sia, difenda ottusamente il suo popolo solo perché è il suo popolo. Spesso i sentimenti portano a sbagliare».

Uno dei maestri: Romano Guardini

Certo il tribunale del popolo, che aveva condannato a morte i ragazzi della Rosa Bianca per le loro azioni di sabotaggio ideologico, non poteva certo analizzare né tanto meno supporre il retroterra etico e culturale dove la decisione della resistenza era cresciuta. Si trattava di un territorio miracolosamente sopravvissuto all’alluvione della follia nazionalsocialista e coltivato da maestri, letti sui libri o ascoltati di persona: un territorio davvero inimmaginabile ed incomprensibile a chi considerava il Mein Kampf di Hitler il libro per eccellenza, anzi l’unico libro che valesse la pena di leggere.

Tra i molti maestri, trovandoci qui a Brescia, vorrei ricordare soltanto Romano Guardini con cui in particolare Willi Graf aveva un legame personale indiretto (oltre alle frequenti letture dei testi guardiniani) attraverso Hans Eckert (1914-1941), un amico dell’“Ordine Grigio”, che era stato processato con lui nel 1938, davanti al tribunale speciale di Mannheim, per attività illegali nelle associazioni giovanili proibite dal nazionalsocialismo. Eckert fu assistente di Guardini fra il ’39 e il ’40 nella comunità studentesca di Berlino, proprio nel momento in cui lo stesso Guardini si vedrà togliere dai nazisti la sua cattedra di visione cattolica del mondo (1939). Eckert riferì spesso a Graf le tesi di Guardini e, a sua volta, Graf ne parlava a Scholl ed agli altri amici della Rosa Bianca. Di Graf si può addirittura dire che sia stato formato dall’insegnamento guardiniano. Basta citare una sua  annotazione sul diario scritta mentre si trovava sul fronte russo: «18. 9. 1942. Smette di piovere. Eppure mi riesce oggi, nelle tranquille ore del mezzogiorno, di leggere Guardini». E il 24 novembre a Monaco, in casa di amici: «La sera ne arrivano altri, leggiamo Guardini…»; o il primo dicembre in una lettera ad un amico: «Leggo e rileggo spesso Guardini, che ha così tanto da spiegarci e da dirci. Questo in effetti è il lavoro che in questo momento mi sembra importante». Leggere Guardini per Graf e per gli amici della Rosa Bianca diventerà un antidoto e un supporto immunitario dinanzi alla disumanità ed all’ubriacatura dell’ideologia hitleriana.

Vorrei in particolare considerare due punti del pensiero di Guardini, importanti allora per i ragazzi della Rosa Bianca, ma importanti anche per noi, oggi.

Parola e politica

I ragazzi della Rosa Bianca diffondevano volantini, cioè parole. Ma può la parola avere importanza decisiva in politica?

Uno dei temi fondamentali di Guardini è il silenzio, o meglio il rapporto tra il silenzio e la parola. È indubbio che a fondamento della politica sta la comunicazione, che anche allora disponeva di potentissimi mezzi di espressione. Ma la comunicazione è la possibilità di pronunciare e di ascoltare parole che siano autentiche e che possano essere comprese senza decadere a parole rituali, a slogan, quindi a parole che occultano e creano insuperabili muri di separatezza. C’è una parola autentica e c’è una parola inautentica. Questa è una dialettica esistenziale, strutturale per l’uomo che sempre può parlare con verità o con intenzione menzognera, sempre può prostituire la parola o elevarla. Ma al di là di questo dilemma umano perenne, il dilemma diventa epocale perché la nostra età, il tempo che Guardini tra i primi chiama “post-moderno”, non solo ha smarrito il silenzio nel trionfo ossessivo del rumore, ma rischia la morte della parola sapida, verace. Di questa situazione, la politica è una testimonianza emblematica. La politica, che è povera di silenzi, è invece ricca di parole stupide e menzognere.

La politica, dice Guardini, ha un rapporto fondamentale con la verità, anzi con la virtù della veracità, ma può esserci una caduta tragica della parola quando si tradisce la comunione nella verità con l’altro e le parole mentono, creando la deleteria e intossicata atmosfera della menzogna. La parola quindi crea la comunicazione e fonda la politica. Ma questo può avvenire in senso autentico non solo quando si evita la menzogna plateale, dice Guardini, ma positivamente quando uno dice soltanto quello di cui è personalmente convinto e se ne fa anche interiormente garante. Quando il discorso politico è di tal natura, da chi parla si esige che la sua persona si trasfonda veramente nella parola e dall’uditore, invece, che sappia di essere messo di fronte a una parola personale e che quindi egli stesso si decida ad assumere un atteggiamento personale. Proviamo ad applicare questa dimensione alla realtà politica e vediamo quanto sia difficile ad affermarsi. È ancora possibile questo in un’età davastata linguisticamente, dove ognuno parla di tutto ad ogni istante, per cui la parola sorprende, scandalizza, forse eccita, ma è qualcosa di labile, non ne sentiamo più la forza, non urla più, non colpisce più, è solo una debole struttura di suono e timbro?

Siamo, infatti, in un’età culturale e politica di parole senz’anima, di parole usa e getta, di parole gettone che trasmettiamo ad altri, come si passa una moneta da una mano all’altra, non si sa che aspetto abbia, non si sa che cosa ci sia sopra, si sa soltanto che per essa si riceve tanto.

Così il linguaggio politico è un frettoloso suonar delle “parole-monete”, quasi una macchina numeratrice che distribuisca le monete e nulla sappia di esse.

Dunque parole esangui, pallide, scarnificate, del tutto prive di forza figurativa. Se le parole che pronunciamo nella dialettica politica fossero per noi qualcosa di più di un suono, che significa genericamente qualcosa, come potremmo sentirne e assorbirne tante? In realtà si tratta di larve di parole, che «godono per breve tempo di una parvenza di vita, finché le avvolge il fascino della loro origine, ma ben presto sono ridotte ad un paio di luoghi comuni e nulla più».

L’insegnamento di Guardini è che in un tempo povero di verità testimoniata, anche se ricco di parolai, occorre una vera e propria ascesi della parola: occorre nutrire una pregiudiziale sfiducia per tutte le parole grosse, come si nutre sfiducia per carta-moneta di dubbio valore. Bisogna riamare in politica la semplicità della parola contro gli eccessi, riconciliare parola e persona, parola e cosa.

«Basta con le larve di parole, rimettiamoci di fronte alle cose, evadiamo dalle sabbie infide delle idee abusate ed indeterminate, riapriamo gli occhi alla forza penetrante del reale, deponiamo la veste glaciale delle frasi fatte».

Certo, questo in un primo momento ci sconcerterà, ci costringerà al silenzio, perché troppe parole non sembrano più utilizzabili, tanto sono devastate e prostituite dal prolungato abuso. La crisi della politica è allora, per Guardini, essenzialmente la crisi della parola. L’esodo da tale crisi è solo l’ascesi della parola.

«Uno può tenere splendidi discorsi politici, ma se dà informazioni false, se giudica alla leggera, se trascura lo stato reale dei fatti, enfatizzando o ridimensionando con la parola, è un pirata dell’opinione pubblica ed è anche un distruttore dello Stato».

Far politica, dunque, significa ridare valore alle parole, essere fedeli alle parole, rispettare la verità delle cose e delle persone, sentire dentro sé l’autorità della coscienza.

Politica e salvezza

C’è una singolare vicinanza tra uno dei più celebri scritti di Guardini, quello su Il Salvatore, sul portatore della salvezza nella politica, chiaro riferimento a Hitler, e l’importante introduzione di don Giuseppe Dossetti al volume di Luciano Gherardi Le querce di Montesole. C’è la stessa analisi che anticipava Guardini: il totalitarismo come esito di una dinamica religiosa, anche se artificiale. Nella realtà dello Stato, è sempre presente il pericolo di esorbitare dalle proprie funzioni, un rischio totalizzante. Questo Guardini lo avverte fino dagli anni ’20. Nel famoso saggio filosofico sull’Opposizione polare, Guardini critica chi vuole sottomettere lo Stato

in maniera rigida al benessere dei cittadini. Lo Stato ha vita propria e non può ridursi a semplice strumento degli individui. Ma è proprio questa autonomia della Stato, questa consistenza propria, che può portare lo Stato a privilegiare il bene del tutto e ad occuparsi del singolo cittadino solo per garantirsi la propria sopravvivenza. Di fronte a questa permanente tendenza totalizzante, per Guardini ciò che solo può porre un limite allo Stato è la fede. La fede, affermando l’extraterritorialità della persona rispetto alla Storia, sottrae e salva l’individuo da un totale assorbimento nello Stato e quindi limita i poteri di ogni ordine costituito. La fede è la forza che relativizza ogni ordine temporale, è l’elemento decisivo che è in grado di mantenere in tensione e di non risolvere mai in una pericolosa sintesi la polarità fra individuo e Stato. Scrive Guardini:

«Solo la fede che innalza i diritti di Dio sull’anima dell’uomo, al di sopra di tutti i diritti di Cesare, può vincere l’egoismo superiore, di sua natura cieco, della collettività».

Il cattolicesimo dunque per Guardini non è una forza che legittima, che sacralizza l’ordine politico, ma è invece la forza che ne afferma e ne rafforza la piena secolarità, è la vera garanzia della laicità dell’ordine pubblico. Questo radicamento teologico della concezione guardiniana della politica costituisce la premessa dell’atteggiamento riguardo al totalitarismo nazista degli anni ’30. Il giudizio di Guardini sul nazismo è chiaro. Durante la guerra, quando il regime aveva gettato completamente la maschera, in occasione della visita di un amico in uniforme, Guardini indicando la pistola d’ordinanza disse: «Se uno la puntasse contro Hitler, chi potrebbe condannarlo?». In quanto totalitario, infatti il regime nazista non poteva più considerarsi un regime di diritto, ma era un regime che aveva sconvolto l’ordine ontologico, l’ordine dell’essere. Nel bellissimo scritto uscito a stampa nel ’46, ma concepito negli anni del regime, intitolato Il Salvatore, il portatore di salvezza  attraverso il mito, la rivelazione e la politica, Guardini inserisce il nazismo nell’ambito dei miti soteriologici, portatori di salvezza come Osiride, Apollo, Dioniso, Baltur. Quei miti esprimevano il ritmo del ciclo naturale della vita, il succedersi di vita e morte, di salute e malattia e il disperato bisogno di salvezza che afferra l’individuo di fronte a questa alternanza che sempre incombe e lo inquieta. Sono, dunque, anche miti pacificanti. Ma la salvezza che offrono non è mai quella dell’individuo singolo, è la salvezza della specie, della collettività. La morte si può esorcizzare solo negando la propria individualità, abbandonandosi all’eterna vita della natura che vince la morte e sconfigge la malattia. All’interno di questo orizzonte mitico, il detentore del potere politico, il re, il duce, non è solo il vertice dell’organizzazione statale e l’espressione dell’autorità politica, ma l’incarnazione di un potere, numinoso e sacro, di un salvatore.

La venuta di Cristo spezza la catena dei miti pagani e offre al singolo una possibilità personale di salvezza. L’individuo non è più obbligato a dissolvere se stesso nel ritmo cosmico della natura, ma al contrario sollecitato ad approfondire la propria personalità impegnandola in una decisione per Dio. Cristo distrugge ogni identificazione del portatore di Salvezza, con il sovrano, con il capo politico.

NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 15.5.1995 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.