Sindona e Ambrosoli. L’Italia dei corrotti, l’Italia degli onestti

Giornale di Brescia, 20 febbraio 2010

Umberto Ambrosoli: «Mio padre fu ucciso perché cittadino normale, che credeva nel bene comune»

Un viaggio a ritroso dalla morte di Michele Sindona, la mattina del 20 marzo 1986 nel carcere di Voghera, a quella di Giorgio Ambrosoli, che della Banca Privata di Sindona fu il liquidatore e di cui il finanziere commissionò l’assassinio, avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1979. È il percorso che è stato proposto ieri al Sancarlino nell’incontro promosso dalla Casa della Memoria con la Cooperativa Cattolico Democratica di Cultura, nell’ambito della serie di riflessioni sugli anni Settanta che la settimana scorsa ha ospitato anche le testimonianze di Mario Calabresi e Benedetta Tobagi, figli di vittime del terrorismo di quel decennio.
Ieri è stata la volta di Umberto Ambrosoli, che nel libro «Qualunque cosa succeda» ha rievocato la figura del padre Giorgio e il contesto nel quale il suo omicidio giunse a maturazione.
I ricordi di Simoni e Martinazzoli
Prima di Ambrosoli, nel dibattito coordinato dalla giornalista Annachiara Valle, è intervenuto Gianni Simoni, l’ex magistrato bresciano che indagò sulla morte di Sindona e ne ha scritto, con Giuliano Turone, nel libro «Il caffè di Sindona». Le conclusioni sono state affidate a Mino Martinazzoli. All’epoca di quella morte, era ministro della Giustizia: «Quella mattina – ha ricordato – andai a Palazzo Chigi con l’intenzione di annunciare le mie dimissioni perché sembrava che lo Stato, nonostante i molti accorgimenti messi in atto, fosse stato battuto nella sua capacità di garantire la tutela».
Il ricordo di quelle vicende offre l’occasione – lo ha suggerito in apertura Manlio Milani, della Casa della Memoria – per riflettere «su cosa spinge una persona ad essere fedele al bene comune». In particolare quando la sua azione si esercita nella solitudine, come ha sottolineato Umberto Ambrosoli: «Nei cinque anni in cui operò come commissario liquidatore, mio padre era isolato: le istituzioni politiche davano l’impressione di interloquire più volentieri con la sua controparte, l’attenzione mediatica per la vicenda e le attestazioni di solidarietà erano scarse. Al suo funerale, lo Stato non c’era».
Le eccezioni, anche allora, non mancavano: i magistrati che svolgevano le indagini, i collaboratori di Ambrosoli, la Banca d’Italia che – lo ricorda Carlo Azeglio Ciampi nella prefazione al libro – alla morte di Ambrosoli stabilì di dare «un sostanziale concorso al mantenimento e all’educazione dei tre orfani».
«Si può resistere ai compromessi»
Ma il rischio dell’isolamento è presente ancora oggi, e su questo ha riflettuto il figlio: «Per evitarlo, dobbiamo incarnare nella nostra vita concreta l’idea che chi crede nel primato della legge merita la nostra solidarietà. A spingere all’impegno per il Paese è, secondo me, la consapevolezza: delle nostre potenzialità, dei nostri limiti, del tempo a disposizione, del contesto. Mio padre era tra coloro che sanno ascoltare la propria consapevolezza. Da essa nasce l’amore disinteressato per il Paese». L’esempio di Giorgio Ambrosoli «mostra che è possibile negare luoghi comuni come l’idea che, raggiunto un certo livello di potere, sia impossibile evitare i compromessi. Invece è possibile, e quando lo apprendiamo sulla base di un’esperienza realizzata da chi non era diverso da noi, allora possiamo fortificarci nella legittima ambizione di non piegarci né omologarci».
Perché Ambrosoli non era un eroe: «Ha saputo essere normale in un momento in cui il contesto sociale aveva fatto un passo indietro».
L’entità di questo «passo indietro» è stata sintetizzata da Gianni Simoni: i legami di Sindona con il mondo politico e con la banca vaticana dello Ior, con la P2, con le famiglie mafiose dei Bontade e degli Inzerillo. L’indagine concluse che la sua morte era dovuta a suicidio: «Molti però sono ancora convinti che sia stato avvelenato», ha detto Simoni. «Mi hanno assassinato» esclamò Sindona prima di morire: aveva bevuto una tazza di caffè americano al cianuro, «una miscela puzzolente, disgustosa e urticante, che lui però ingoiò fino in fondo». A 66 anni, il prigioniero Sindona era un uomo «molto disturbato, ormai sul lastrico, ossessionato dall’idea della morte. Già nel 1982, intervistato da Enzo Biagi, aveva detto che in Italia è facilissimo procurarsi del cianuro». Perché allora simulare un omicidio? «Era un grande teatrante e non seppe rinunciare all’ultimo colpo di scena. Voleva beffare gli inquirenti, lasciare di sé un’immagine da vittima. Aveva stipulato una lucrosa polizza assicurativa intestata alla figlia. E la sua morte misteriosa avrebbe potuto intossicare il lavoro dei giudici inquirenti».
Martinazzoli osserva infine come, nonostante la drammaticità delle vicende rievocate, Umberto Ambrosoli riesca nel libro a gettarvi «uno sguardo sereno». Forse un lascito del padre, «che oggi avrebbe più o meno la mia età e apparteneva a una generazione degli inizi, cresciuta nel dopoguerra in un’epoca carica di fiducia nel futuro, di cose da costruire». Nella sua tesi di laurea, dedicata al Consiglio superiore della magistratura, traspariva già «la forte idea della supremazia dell’uomo sulle leggi, di quanto il senso della giustizia sia affidato alla probità del magistrato». Sapeva, insomma, che il nostro riscatto «è nella possibilità di ciascuno di fare il suo mestiere, commisurando il proprio utile a quello collettivo».