Storia di una poesia

Autori: Luzi Mario
Tematiche: Letteratura

Sono nato nel 1914, all’inizio della guerra e, in fondo, non ho conosciuto un periodo di vera tranquillità, né sociale né collettiva e, di riflesso, neanche privata. Un poeta, oltre che un rabdomante del suo tempo, è uno che sa cogliere le inquietudini della propria epoca, inquietudini che si riflettono in lui e nella sua opera.

Le poesie scritte subito dopo la seconda guerra mondiale sono il riflesso di uno stato d’animo d’angoscia e d’aspettativa insieme. E’ infatti, quello postbellico, il momento di una specie di ripresa, di partenza ex novo dopo la distruzione e il nulla della guerra.

Vari sono gli accenti che si alternano nel corso di una lunga, se non troppo abbondante, opera; lunga nel tempo ad ogni modo. Sono accenti da cui traspare un’angoscia intimamente legata alle esperienze del male, alle esperienze tragiche che ci sono state riservate: le torture, le eliminazioni, le soppressioni, gli stermini.

A quel punto anch’io ho pericolato.

Di qui la spontanea assimilazione, in un certo senso, alla storia più diretta e centrale della poesia moderna, che nasce da un pensiero negativo. Basti accennare, a questo proposito, al pensiero critico o critico-pessimistico di Leopardi o di Baudelaire o al pensiero negativo di tipo apocalittico di Nietzsche e di tutta la tradizione, diciamo così, visionaria.

Come mai la poesia si attesta in quanto tale proprio su questo “no” al mondo, su questo rifiuto alla storia, su questo rifiuto della modernità? Perché la poesia moderna invece di un inno alla modernità, invece di una celebrazione del proprio tempo, esprime il suo rifiuto nei confronti della modernità, manifestandosi antagonistica rispetto alla propria epoca? Credo che ciò vada ricercato nel fatto che la poesia moderna nasce come coscienza (soprattutto in Leopardi e Baudelaire che ne sono gli antesignani) di un processo di disumanizzazione del mondo; il mondo assoggettato a leggi di pura e brutale utilità economica fino alla separazione dall’umanesimo, fino alla crisi della società, dello stato umanistico. Il mondo in cui il progresso tecnico-scientifico e la separazione, implicita allo scientismo nascente, tra bello e utile, ha consacrato le leggi dell’utilità come leggi dello Stato, della società, come leggi della vita privata.

Già Rousseau aveva sentito il progresso come una minaccia, come risultato di un rapporto dialettico in cui i lati positivi erano soverchiati dalla preponderanza degli aspetti negativi: il progresso aumenta le conoscenze e le acquisizioni tecnico-scientifiche ma, al tempo stesso, ci allontana da molti beni, da molti stati profondi dell’uomo che giacciono in noi fin dalle origini.

In Leopardi questa coscienza dialettica della modernità è meno evidente. Egli considera il mondo moderno come mondo della scienza disertato dalla fantasia, dalla naturalezza, dagli dèi potremmo dire, e in quanto tale esso gli appare come un deserto. “Deserto” è una parola ricorrente nella poesia moderna, è anzi addirittura un termine polarizzante. Da Leopardi in poi questo termine sintetizza una quantità di significati nei quali si riassume però la condizione di solitudine dell’uomo moderno.

Se le possibilità analitiche della conoscenza sono accresciute, l’oggetto della conoscenza è rimasto ignoto, dunque non c’è più nemmeno la possibilità di riempire di favole questo intervallo. Allora questa delusione, questo disinganno filosofico dell’intellettuale moderno, del poeta come uomo consapevole della condizione storica del mondo sfocia in questo fondamentale sentimento negativo della poesia moderna.

Baudelaire ha potuto vedere la nascita della città capitalistica: Parigi, la sua città, una città viva, tenerissima e atroce al tempo stesso, la città per antonomasia; ma anche la città moderna, numeraria, massificata dove le leggi della produzione impongono l’urbanesimo, dove l’umanità è abbrutita dalle nuove realtà dei tempi moderni ed è loro subalterna. Le cose cominciano a contare più degli uomini, le leggi automatiche del produrre a prevalere sulla dignità dell’individuo e sulla natura. C’è uno spiraglio, uno scampo maledetto: il vino in Baudelaire oppure la droga, piaga non solo del giorno d’oggi.

Dunque tutte le ragioni della consapevolezza filosofica e critica della storia in atto nella società portavano a lamentare questa condizione avvilita, diminuita, dell’uomo. La poesia non può non prendere su di sé questo grande dramma della storia moderna, non può non interpretarlo, viverlo, a vari livelli, con vario intelletto, ma nasce da ciò questo antagonismo: la poesia che difende le ragioni dell’umanità proprio per principio, anzi in essenza essendo, in un certo senso, la depositaria se non altro del linguaggio, che è la cosa più preziosa dell’umanità e nel quale si riflette, anche involontariamente, tutta la storia e la continuità di domande. La poesia diventa così antagonistica e si incentra su questo tema negativo. La società va per conto suo, prospera, forse apparentemente, su queste leggi che l’hanno separata dalla ragione fondamentale di ciò che era il dettato dell’umanesimo. Da ciò il conflitto. Tutta la poesia moderna, in fondo, quella della contestazione, della rivolta, la poesia del lamento e dell’elegia deriva da questa premessa; in tutti i modi, secondo tutte le tonalità c’è questo divorzio fra società e poesia, tra istituzioni culturali ufficiali, fatte proprie dal potere, e la poesia. La poesia che per la sua nuda, necessaria aderenza alla realtà naturale dell’uomo si vede costretta a testimoniare contro la società moderna. Questi tutti i vari aspetti, da quelli più clamorosi ai più intimi sofferti nella solitudine. Fino ai nostri tempi.

Se penso ai poeti che già all’atto del mio esordio, della mia prima apparizione nel mondo della cultura e della poesia, erano significativi, stavano diventando emblematici – Ungaretti e Montale soprattutto ma anche altri, Saba, Cardarelli ecc… – devo riconoscere che esiste, come proiezione del discorso che stavo facendo, questa situazione di diniego, di rifiuto anche negli anni di allora, gli anni Trenta.

E’ un discorso sul mondo già chiuso in partenza. Montale nega ogni valore all’esperienza, alla vita fin dal principio, accentuando molto, per converso, il valore della consapevolezza; situazione che diventa perfino eroica, ma è una situazione negativa che pregiudica fin dalla premessa ogni giudizio su un’esperienza, su una vita che anche Montale ha pure vissuto con grande coerenza sempre, drammatizzando ma poi addirittura quasi nullificando il senso della vita. Le ultime espressioni della poesia di Montale sfiorano addirittura il nichilismo in quanto negano anche il valore della coscienza su cui egli aveva molto insistito.

Lo stesso fa anche Ungaretti quando parla di naufragio, di impossibilità sia della conoscenza che dell’esperienza e dunque anche dell’esistenza, salvo qualche scoppio di felicità fisica, sensibile, sensuale, che però non incide sulla coscienza poetica.

Quando scrissi il libretto Primizie del deserto del 1952 ho in fondo richiamato questa nozione del deserto, questa immagine desolata per un prevalere del senso della catastrofe che avevo vissuto. Però c’è questa parola “primizie” che evidentemente vuol dire qualcosa (non so se quando ho messo questo titolo avevo chiaro fino in fondo il senso di questa parola: ci sono cose che si capiscono meglio dopo, a posteriori). “Primizie”: deve nascere qualcosa da questa solitudine, da questo deserto, da questo vuoto, da questo naufragio, da tutte queste cose che la poesia moderna s’è portata dietro come un retaggio glorioso, con tanti testimoni splendidi e catastrofici, da Leopardi a Baudelaire fino ai poeti di cui abbiamo parlato.

Comunque, sono stato anch’io un po’ nel bilico, nell’insicurezza probabile di ricadere; dico ricadere perché le mie prime poesie rese pubbliche in una ristretta cerchia (le dizioni intorno alla metà degli anni Trenta erano limitatissime ma lette negli ambiti interessati) si erano affermate in tutt’altro modo: La barca, il mio primo libretto del ’35 e poi l’altro del ’40, Avvento notturno, avevano in qualche modo lasciato impregiudicato il giudizio sul mondo, si erano poste come un interrogativo, come qualcosa che si affida all’avventura e all’esperienza; in altre parole l’idea che nulla è negativo in partenza, che tutto è da tentare, da sperimentare, da vivere sia pure la contraddizione, sia pure l’incongruenza del mondo.

L’eventualità di una modificazione io l’ho sempre lasciata aperta. Questo mi ha in qualche modo distinto dagli altri scrittori, da quelli che erano venuti prima di me, che in qualche modo sono dei punti di riferimento inevitabili, che ho considerato grandi, che ho ammirato e continuo ad ammirare. Però, ecco, mi volevo distinguere in questo: avevo in me una specie di rifiuto del loro rifiuto, di ribellione al loro “no” preventivo sul valore dell’esperienza, del mondo, della storia.

Si è trattato, tuttavia, di un’apertura molto combattuta perché, in fondo, nulla asseconda o nulla può illudere completamente neppure un giovane, quale ero io allora, che le cose non abbiano il loro prezzo di incomprensibilità e di ingiustizia. E quindi quello che c’è di desiderio, di volontà di modificazione, di speranza della trasformazione, di fiducia nell’eventualità, non vela gli occhi sulla realtà dolorosa, violenta e tragica del tempo. Del tempo di allora, che era il tempo del fascismo; del tempo che è venuto, cioè il tempo della guerra; ma anche del tempo interiore degli uomini, perché tra storia esterna ed interiore c’è una specularità molto desolante; sono rari coloro che mantengono la luce dentro di sé contro il buio dell’esterno.

Quindi ho voluto non contrapporre un giudizio già formato, una pretesa intellettuale di conoscenza già formulata o, comunque, del suo orgoglio, già dichiaratasi delusa ad un mondo astratto. Il mondo non è fuori dì me, è anche in me. Tra l’intelletto che giudica e la cosa giudicata c’è un rapporto. Se l’intelletto si modifica, si modifica anche l’oggetto del giudizio; se si modifica l’oggetto del giudizio si modifica anche l’intelletto: c’è questa reciprocità. Io questo l’ho sentito fin dal principio. Sempre di più l’ho sentito. Prima, in certa misura, come motivo di contemplazione; in seguito, anche più prepotentemente, come esigenza di respiro e di vita. Allora anche all’interno della mia produzione c’è una modifica: la tensione a penetrare sempre più profondamente le cose che intanto mutano, si trasformano; lo sforzo di non separare il discorso dalle cose che motivano il discorso; di non separare il giudizio e la prospettiva interna, ossia l’interpretazione della realtà, dall’accadere delle cose in cui io sono immerso. Da qui nasce questa poesia detta “magmatica” (del resto, una mia raccolta di poesie ha per titolo Nel magma).

Dunque rispetto al poeta (come ciascuno di quelli dianzi nominati) che di fronte al mondo si pone in atteggiamento di diniego o di assenso, io ho cercato di pormi interrogativamente davanti alle cose e agli uomini. Ma questo perché ho sentito come necessità quella di essere colui che dà anche la parola agli altri, oltre che cercare nella parola degli altri una rispondenza, un confronto, un contrasto con la sua, per una conoscenza che non può essere preliminare, ma che deve farsi, costruirsi giorno per giorno. Come, del resto, accade un po’ in tutti gli aspetti della cultura: nulla è più “dato”, tutto è “cercato”. Se c’è una verità questa è da conseguire, non ci è stata data una volta per tutte; anche quella che abbiamo ritenuto e avuto come verità, magari come Rivelazione, va comprovata, va rimessa a fuoco. Questo mi pare il messaggio della nuova Chiesa post-conciliare; non per nulla anche la Chiesa si è fatta, in un certo senso, alleata della storia e non è più in contrasto preliminare con il mondo. Vuole intervenire anche con la sua ricerca di verità nella realtà concreta. Quindi anche senza rendermene conto può darsi che riflettessi tutto un processo sviluppatosi nella cultura moderna proprio in questi ultimi decenni: nelle scienze fisiche come nella filosofia.

C’è stato poi, al centro di questa modificazione, il grande incontro con la lettura di Teilhard de Chardin che mi ha aperto, assecondato in questa aspettativa, in questo desiderio di collocare il senso dell’esperienza nella direzione del futuro e non solo verso il rimpianto di una perfezione perduta.

Questo il percorso, queste le esigenze che hanno in qualche modo regolato il corso di questa vita e di questa lunga attività.

La mia impressione è che la poesia di questi ultimi decenni sia, da questo punto di vista, una poesia fatta non più contro il mondo. Da un antagonismo, da un contrasto preliminare del poeta nei confronti del mondo di cui dichiara l’impossibilità, ci troviamo oggi nella condizione in cui il poeta è dentro al mondo, parla dall’interno del mondo, di questo mondo spesso molto doloroso, troppo doloroso. Perché questo cambiamento? Io credo che ciò sia dovuto alla crisi in cui versano le istituzioni, anche quelle ostili, quelle che si erano edificate sulla legge antiumanistica della pura utilità e dell’accumulo di ricchezza. Oggi anche la poesia, così consapevole e così critica, non ha un antagonista in nessuno perché tutti siamo, in un certo senso, alla ricerca, in una interrogazione generale. Siamo un po’ tutti nella stessa barca.

Percependo la gravità delle cose che accadono, l’abnormità aberrante del manifestarsi della violenza di questa crisi, sentendo, forse un po’ oscuramente, che qualcosa sta nascendo in modo doloroso ci rendiamo conto che il pericolo è di perdere la coscienza, di perdere la misura umana di queste violenze, di queste trasformazioni, di questi rischi di disumanizzazione disseminati nel mondo. Ma vorrei che non si perdesse neppure quella sorta di capacità di scavalcare l’immediato con l’aspettativa di altro. Del resto la consapevolezza storica molto lunga dovrebbe averci messo in guardia, anche istintivamente, contro idee troppo particolari di catastrofe. C’è, evidentemente, un’alternanza, una mescolanza, una miscela difficile a viversi di bene e di male, di disperazione e speranza. Ma essa non deve essere ceduta completamente al nulla come qualcuno va predicando.

E’ anche difficile vivere la speranza, ma tutto in me si rifiuta di credere che, al fondo, ci sia una casualità perfida che ci impone la sofferenza, dispendio di energie, di forze e di dolore. Per nulla.

E’ difficile a viversi anche come semplice aspettativa, ma forse non avrebbe senso per un uomo minimamente illuminato, anche solo dal suo passato, arrestarsi su un solo aspetto. Se non altro la dialettica, se non la fede, dovrebbe almeno sollevare dalla disperazione.

Io non posso innalzare bandiere di. luminose certezze. Questo non è dato nella nostra epoca a nessuno, credo, perché in fondo tutto ha valore anche per il suo contrario. Anche la speranza si alimenta un po’ di disperazione, la fiducia di sconforto. E’ un dramma continuo. Però vivete questo dramma, viviamo questo dramma; non rifuggiamo nell’alibi del nulla, della vanificazione totale. A coloro che nel pensiero e nella letteratura vengono definiti “maestri del nulla” io vorrei, pur con tutto il rispetto e la comprensione, opporre un atteggiamento diverso. Quell’atteggiamento che ho cercato di tenere pagandolo caro. Naturalmente.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 18.10.1983 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.