Tempo e coscienza

TEMPO E COSCIENZA[1]

 1. IL TEMPO PERDUTO: IL CONCETTO BASTARDO DI «TEMPO SPAZIALIZZATO» – L’INTRUSIONE DELLO SPAZIO IN PSICOLOGIA

 Le riflessioni svolte da Bergson nel Saggio sono direttamente legate al «grande stupore», che è all’origine della svolta filosofica. Quello stupore, però, per tradursi in acquisto di verità aveva bisogno di un difficile lavoro di smascheramento degli schemi e delle immagini del «tempo spazializzato», cioè ridotto a spazio e pensato come se non fosse altro che spazio. Questa prima figurazione del tempo è rappresentata dal tempo convenzionale del calendario e degli orologi, che regola il trambusto quotidiano e lo svolgersi della vita sociale, ma che viene usato anche da alcune scienze finalizzate al dominio delle cose. Consideriamo il tempo scandito da un orologio. La lancetta che segna i secondi copre in un minuto primo uno spazio suddiviso in sessanta parti. Ognuna delle parti dello spazio raggiunta dalla lancetta è omogenea all’altra e tutte coesistono in uno spazio omogeneo. Essendo uguali e collocate le une accanto alle altre, le parti dello spazio non si potrebbero distinguere se non fossero l’una fuori dell’altra, l’una esterna all’altra. La lancetta sul quadrante simbolizza la successione dei secondi con le porzioni di spazio che occupa. Il suo tempo è, quindi, perfettamente «spazializzato», ha cioè i caratteri che troviamo nello spazio. Spogliate di ogni differenza qualitativa, le porzioni di spazio, identificate con il tempo occorrente per coprirle, possono essere contate, mediante l’aggiunta di unità a unità: sono misurabili in rapporto alla quantità di spazio che occupano. Noi siamo convinti che l’orologio ci indichi delle variazioni temporali, ma i suoi prima e i suoi dopo non sono altro che dei qua e dei là. Un tempo così concepito non può essere che un «concetto bastardo» (concept bâtard, Essai sul les donnés immédiates de la conscience, Oeuvres, Édition du Centenaire, PUF, 1959, 19702, 66), perché irrimediabilmente compromesso dall’idea di spazio.

La confusione del tempo e dello spazio è così abituale che l’uno e l’altro vengono trattati come cose del medesimo genere e collocate sul medesimo piano. Si indagano prima la natura e le funzioni dello spazio e poi se ne trasferiscono le conclusioni sul tempo; e poiché lo spazio è definito come l’omogeneo da cui è assente ogni qualità, il tempo spazializzato non può essere che l’altra faccia dell’omogeneo, quella in cui la coesistenza appare nella forma della successione (ibid., 66). Accade allora che noi pensiamo allo spazio quando parliamo del tempo, e quando chiamiamo il tempo, all’appello risponde lo spazio. Per una specie di osmosi si attribuisce al movimento e al tempo la divisibilità dello spazio, e in tal modo si cade nella trappola di Zenone.

Sul finire del XIX secolo si è fatta avanti, cercando di darsi un suo statuto epistemologico, una nuova scienza, la psicologia. Ed ecco che già si cerca di sottometterla ai pretesi postulati e ai metodi delle scienze fisico-matematiche: postulati e metodi che implicano la cancellazione della qualità dei fatti psichici a vantaggio della loro quantificazione, il determinismo meccanicistico, in ultima analisi l’ossessiva riduzione del tempo allo spazio omogeneo. In tal modo la psicologia diventa nient’altro che psico-fisica, come in Fechner e Wundt. In un’epoca dominata dal positivismo e ancor più dallo scientismo, si mette sul conto di una scienza, così necessaria e promettente come la psicologia, un’aporia insolubile: quella di «innalzare a grandezza un’intensità pura come se si trattasse di un’estensione» (ibid., 6), applicando la dimensione spaziale là dove non c’è spazio, l’esteriorità alla interiorità, l’estensione a una realtà inestesa. In una parola, ciò che noi pensiamo della spazialità estesa e numerabile della materia diviene arbitrariamente il modo di inquadrare e di spiegare il tempo vissuto della coscienza. «Ci si potrebbe chiedere – scrive Bergson nella “Premessa” al Saggio – se le difficoltà insormontabili che certi problemi filosofici sollevano non dipendano dal fatto che ci ostiniamo a sovrapporre nello spazio i fenomeni che non occupano spazio… Quando una traduzione illegittima dell’inesteso in esteso, delle qualità in quantità, ha installato la contraddizione nel cuore stesso della domanda, deve meravigliare se la contraddizione si ritrova nelle soluzioni che se ne danno?» (ibid., 3).

Noi interpretiamo un cambiamento di qualità come se fosse un cambiamento di grandezza, ma nulla ci autorizza a farlo. Un numero può essere più grande di un altro quando sta dopo di esso nella serie naturale dei numeri e può quindi contenerlo; ma possiamo dire la stessa cosa, scorgendo il meno in seno al più, di un sentimento o di una sensazione, quasi che essi abbiano un’intensità superiore per essere passati prima attraverso una intensità inferiore? «Che cosa, dal punto di vista della grandezza, può esserci mai di comune fra l’estensivo e l’intensivo, fra l’esteso e l’inesteso?» (ibid., 6). Ci si dovrebbe, invece, render conto, se si fosse più rispettosi dell’esperienza, che «più si scende nelle profondità della coscienza, meno si ha il diritto di trattare i fatti psicologici come delle cose che si giustappongono» (ibid., 10).

La riduzione a spazialità di ciò che non è spaziale – anche se vive in un corpo e opera attraverso un corpo che si ritaglia un suo spazio – è per Bergson uno dei casi più evidenti di «problema mal posto», nel quale si fa intervenire questo tipo di meccanismo: nell’analizzare un dato di natura mista, come tutto ciò che attiene all’esperienza umana, si raggruppano in modo univoco, arbitrariamente, cose che differiscono per natura. Un problema è «falso» se i termini in cui è formulato non rispondono a delle «articolazioni naturali» (L’Évolution créatrice, Oeuvres 827) e, pertanto, deformano la natura stessa delle cose, obbligando a vedere in ogni fenomeno solo differenze di posizione, intensità e proporzione; in ultima analisi, differenze di grado fra «il meno» e «il più» su una stessa linea. Il maggior rimprovero che Bergson rivolge ai filosofi moderni della natura è di non aver visto la pluralità qualitativa di piani, di direzioni, di sviluppi, in primo luogo nella vita della coscienza e poi anche all’interno dei processi evolutivi. L’operazione che si compie è sempre la stessa: «Noi sciogliamo le differenze qualitative nell’omogeneità dello spazio che le sottende» (L’Évolution créatrice, Oeuvres 679). Non c’è da stupirsi poi se, all’interno di questa rappresentazione, non sappiamo distinguere i due elementi fondamentali che differiscono in natura: la durata e l’estensione, il tempo vissuto e il tempo spazializzato. Il fenomeno della materia, com’è pensato dalla fisica meccanica, indica effettivamente il versante per il quale le cose tendono a presentarsi tra loro, e a presentarci, solo differenze di grado. Se si conosce, però, un solo genere di fenomeni, se vi è un solo tipo di scienza, ci si condanna a diventare uomini a una sola dimensione.

Ma l’ossessione spazializzatrice non è solo un’abitudine a vedere le cose in modo sbagliato: essa espone l’umanità a un grave rischio. «A mano a mano che le nostre conoscenze si accrescono, noi percepiamo sempre più l’estensivo dietro l’intensivo e la quantità dietro la qualità, e tendiamo sempre più a mettere il primo termine nel secondo» (ibid., 49). Se la confusione della qualità con la quantità si limitasse a ognuno dei fatti di coscienza presi isolatamente, – conclude Bergson alla fine del primo capitolo del Saggio – piuttosto che problemi, creerebbe oscurità. Ma invadendo la serie dei nostri stati psicologici, essa introduce lo spazio nella nostra concezione della durata e così corrompe, alla loro stessa sorgente, le nostre rappresentazioni del cambiamento esterno e del cambiamento interno, del movimento e della libertà (ibid., 51). Occorre, dunque, chiederci, seguendo l’Autore del Saggio, in che cosa consiste la durata e come si riconosce un libero agire.

 2. IL TEMPO RITROVATO: LA «DURATA REALE»

 Occorreva spezzare i quadri del linguaggio e «scavare al di sotto della superficie di contatto tra l’io e le cose esteriori» (Essai sul les donnés immédiates de la conscience, Oeuvres 90) per restituire al tempo la sua autenticità e per imboccare il sentiero dell’esperienza metafisica. La critica del concetto bastardo di tempo ci apre l’accesso a più di una verità: il tempo non è lo spazio, lo spazio non è l’unica dimensione della realtà; dunque ciò che è nello spazio non esaurisce affatto tutto il reale e tutte le esperienze; di fronte alla materia, di cui i sensi ci fanno conoscere qualcosa e di cui la maggior parte delle scienze cerca di penetrare la condotta, sta il nostro essere interiore che solo la coscienza è capace di rivelarci. Un oggetto esteriore all’io è un fenomeno per l’io, ma l’io non è un fenomeno di nulla: è una realtà vivente e, nello svolgersi della propria vita, l’esperienza che ha del suo divenire è una sola cosa con il suo essere, è il suo stesso essere. La coscienza di sé è, dunque, l’esperienza metafisica fondamentale ed è la condizione di ogni altra esperienza. A quella vivente realtà dell’io, che ogni uomo veramente capace di concentrazione e di autoapprofondimento può attingere in sé, Bergson ha dato il nome di «durata reale» (durée réelle). A coglierla nella sua purezza, e a mostrarcela nella diversità delle sue forme, il filosofo francese ha dedicato tutta la sua vita. E quasi certamente alludeva anche a se stesso quando, al Congresso di Bologna del 1911, dichiarava: «Un filosofo degno di questo nome non ha mai detto che una sola cosa; anzi, piuttosto che dirla effettivamente, ha cercato di dirla» (L’intuizione filosofica, in La pensée e le mouvment, 1350). Bergson ha cercato di dirci che cosa è la durata reale.

La durata è il tempo vissuto della coscienza di un soggetto, è il suo io che vive e sente, intende, vuole. È l’insostituibile punto di partenza sia della filosofia, sia dell’avventura umana di ogni singolo, sul piano esistenziale, ed è alla sua durata che l’io deve tornare di continuo per riappropriarsi della sua vita interiore. Partecipare dall’interno a questa esperienza originaria significa sperimentare finalmente la concretezza effettuale dello spirito, la realtà più nostra di qualsiasi altra, che l’attività spazializzatrice dell’intelligenza ha invece indotto a concepire nella maniera più aberrante, quasi fosse una sorta di supporto immobile, un ignoto sostegno, vuoto e incolore, di quelle che pure sono le sue attività ed espressioni. Ma uno spirito così definito è addirittura impensabile, è negato e, peggio ancora, è screditato nella sua realtà profonda.

La mobilità e la non-spazialità sono, al contrario, i modi propri in cui si manifesta la vita della coscienza, di cui il tempo reale, quello vissuto, diventa pertanto il ritmo e l’intensità. Già «il semplice buon senso ci dice che il tempo è ciò che impedisce che tutto sia dato in un sol colpo» (ibid., 1333), attestando così che esso è «elaborazione», «veicolo di creazione e di scelta». Bergson si serve del termine di durata, intendendo con ciò non solo quella fluidità, per cui tutti gli esseri dotati di vita psichica non cessano di mutare, ma anche la loro continuità nel mutamento e il loro stabilirsi sempre di nuovo nell’esistenza. L’io che dura è in primo luogo, infatti, una vita che si va facendo e che, di volta in volta, traccia i sentieri per i quali passa il compimento o la dissipazione del proprio destino.

In una lettera del 1916, rispondendo alle obiezioni mossegli da Harald Höffding, Bergson individua nella durata reale il cuore stesso della sua visione della vita. «Secondo me – scrive al filosofo danese – ogni compendio dei miei principi li deformerà, nel loro insieme, e li esporrà ad un vasto numero di obiezioni, se tale compendio non si colloca innanzitutto e non ritorna, quindi, incessantemente a quello che io considero come il centro stesso della dottrina: l’intuizione della durata. La rappresentazione di una molteplicità di penetrazione reciproca, diversissima dalla molteplicità numerica – ossia la rappresentazione di una durata eterogenea, qualitativa, creatrice – è il mio punto di partenza e quello a cui io sono costantemente ritornato. Essa domanda allo spirito un grandissimo sforzo, il superamento di numerosi schemi, qualcosa come un nuovo metodo di pensare (poiché l’immediato è ben diverso da ciò ch’è più facile scorgere). Ma una volta che si sia giunti ad una tale rappresentazione, e che la si possieda nella sua forma semplice, che non bisogna confondere con una rappresentazione per concetti, ci si vede costretti a mutare il proprio punto di vista sulla realtà; ci si accorge che le maggiori difficoltà sono nate dal fatto che i filosofi hanno sempre messo tempo e spazio sulla medesima linea: e la maggior parte di tali difficoltà si attenuano e svaniscono» (Écrits et paroles II, 356).

L’originarietà e la spiritualità del tempo vissuto della coscienza si possono cogliere solo attraverso l’approfondimento dell’esperienza interiore; ma il filosofo perviene alla sua convalida con un duro lavoro di smascheramento delle illusioni, dei comodi errori di una mentalità che confonde il tempo con lo spazio, conferendo a tale confusione il crisma dell’abitudine, e di un’abitudine con cui spontaneamente s’accordano il senso comune e la scienza. La pars destruens è, quindi, parte integrante del lavoro di disvelamento della natura della durata reale.

Si è visto che il tempo spazializzato si caratterizza per l’esteriorità reciproca delle parti, la loro giustapposizione, l’estensione, la reversibilità o ripetizione di quello che è già stato. Il mondo a cui il tempo spazializzato si applica è quello della materia pensata e presentata come omogenea, delle convenzioni sociali e di quelle scienze che non hanno come oggetto delle loro indagini i fenomeni della vita e della coscienza. Il tempo della durata reale, invece, si caratterizza per la reciproca compenetrazione o fusione, l’interiorità e la non-estensione, l’irreversibilità degli stati di coscienza. La durata reale è, infatti, molteplicità qualitativa, reciproca compenetrazione e solidarietà dei suoi momenti; essa è, inoltre, continuità di vita e creazione continua di novità, conservazione di tutto il passato e imprevedibile invenzione del futuro.

Vi è una differenza incolmabile fra la somma meramente numerica di secondi e ore, tutte uguali tra loro e il tempo vissuto della coscienza, per la quale ogni atto è come l’agave mediterranea: fiorisce una sola volta. «Prendete il sentimento più semplice, – scrive Bergson – supponetelo costante, e assorbitevi la personalità tutta intera: la coscienza che accompagna tale sentimento non potrà restare identica a se stessa per due momenti di seguito, perché il momento successivo contiene sempre, in più del precedente, il ricordo che quest’ultimo ha lasciato di sé» (Introduzione alla metafisica, in La pensée e le mouvment, 1398). L’esperienza ci obbliga, dunque, a formulare un’osservazione incontestabile: «Non vi sono due momenti identici in un essere cosciente (il n’y a pas deux moments identiques chez un être conscient)».

Vi è almeno una realtà che noi cogliamo dall’interno, per intuizione: la nostra persona nel suo scorrere attraverso il tempo, il nostro io che dura. Che all’io appartenga l’unità, è sicuro. Ma una simile affermazione non ci dice nulla sulla natura straordinaria di quell’unità che è la persona. Che il nostro io sia molteplice, lo riconoscono in tanti. Masi tratta di una molteplicità che non ha nulla in comune con qualsiasi altra. «Ciò che veramente importa alla filosofia è sapere quale unità, quale molteplicità, quale realtà superiore all’uno e al molteplice astratti, sia l’unità molteplice della persona. E la filosofia non lo saprà se non cogliendo l’intuizione semplice dell’io da parte dell’io» (ibid., 1409).

La vita interiore è «unità molteplice e molteplicità una» in un senso ben preciso. Al fondo di me, in ciò che più durevolmente è me stesso, vi è un flusso continuo, una corrente di vita che è molteplicità qualitativa, del tutto diversa dalla molteplicità numerica di ciò che è nello spazio. Si tratta di una successione di stati, ciascuno dei quali preannunzia quello che lo segue. Essi non costituiscono stati molteplici se non quando io sono già passato oltre ad essi e mi volto indietro a osservarne la traccia. Mentre li provavo, erano profondamente animati da una stessa vita, al punto che non avrei saputo dire dove finisse l’uno e cominciasse l’altro. In realtà, nessuno di essi comincia o finisce, perché tutti si prolungano gli uni negli altri. Insomma, la durata è una totalità organica di molteplici stati, una molteplicità qualitativa in cui non vi è giustapposizione di parti, ma solidarietà e fusione degli stati di coscienza. Questi non sono affatto quello che fantasticavano Taine e gli associazionisti: non sono atomi psichici, separati fra loro e poi associati secondo leggi meccaniche inesorabili nel loro determinismo. «La vita interiore è variare di qualità, continuità di progresso, unità di direzione» (ibid., 1399). La durata è sviluppo di un tutto nella cui mobile unità ogni momento acquista il suo significato e la sua funzione, il suo tono originale; sì che, scisso dagli altri, non sarebbe più quello che è. È vero che nessuna immagine rende perfettamente l’unità molteplice della coscienza; almeno una, però, è meno deviante e più allusiva delle altre: l’analogia tra l’unità di coscienza e la frase musicale. Secondo Bergson gli stati psicologici si fondono in una coscienza come le note di una melodia: note che si succedono e che noi, tuttavia, cogliamo le une nelle altre. Prova ne è che «se rompiamo la misura, insistendo più del ragionevole su una nota della melodia, non è la sua lunghezza esagerata, in quanto lunghezza, che ci avvertirà del nostro sbaglio, ma il cambiamento qualitativo che così abbiamo apportato all’insieme della frase musicale» (Essai sul les donnés immédiates de la conscience, Oeuvres 67).

Per l’io che dura esistere significa mutare, ma il suo mutamento non è mai un mero andare, non è il perdersi di ogni cosa, il «tutto passa» (panta rei) di Eraclito. In una nota aggiunta alla seconda edizione dell’Introduzione alla metafisica, Bergson precisava che, dicendo «la realtà è mobilità», «noi non mettiamo per nulla da parte la sostanza; al contrario affermiamo il permanere di ciò che esiste e crediamo di averne facilitata la rappresentazione». Di qui l’accorata protesta: «Come si è potuto avvicinare questa dottrina a quella di Eraclito?» (La pensée e le mouvment, 1420).

Non è vero affatto che «tutto passa», e su questo punto decisivo Freud si dirà d’accordo con Bergson. Nella vita della coscienza il passato non passa per nulla: anzi l’io dura perché continuo è il processo di conservazione e trasformazione di tutto quello che ha vissuto. «Coscienza significa memoria» (conscience signifie mémoire, ibid., 1397). Il passato ci segue dappertutto e si accresce di continuo, inglobando in sé quello che di volta in volta è il presente; e, d’altra parte, il presente non sarebbe nemmeno senza la memoria del passato. Io non sono più lo stesso di ieri, questo è certo; ma non per questo sono altro, al punto di essere estraneo a me stesso. Poiché la durata è memoria, io non sono altro; poiché la durata è creazione, io non sono lo stesso. Ciò che occorre fare è «rappresentarsi la sostanzialità dell’io come la sua stessa durata» ibid., 1312). La coscienza è continuità di vita ed è nello stesso tempo zampillìo di novità e creazione. Ed è una cosa, proprio perché è insieme l’altra. Vi è, dunque, una mutua immanenza nello spirito tra un passato che rivive nell’oggi e quella spinta verso un domani che deve ancora nascere e verso il quale ci portano tutte le potenze che sono in noi. Né questi aspetti sono contraddittori, essendo anzi la loro unità a formare l’essenza stessa dello spirito. Ogni atto dello spirito si appoggia, pertanto, su ciò che lo precede, senza che per questo ci sia ripetizione e ricominciamento. Nello stesso tempo l’io elabora senza sosta qualcosa di nuovo, essendo chiamato a creare con le sue decisioni ciò che prima non c’era. Per l’uomo, nel profondo del suo spirito, vivere significa avere una promessa che è sempre da adempiere. L’io, insomma, è memoria e libertà.


[1] Testo tratto da Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, La Scuola Editrice, Brescia 1996, pp. 21-27, esaurito.