Testimonianze letterarie latine sul cristianesimo

Una precedente Guida («Nuova secondaria», X/8 [1993], pp.55-58) sulla cultura romana di fronte al Cristianesimo nei primi due secoli dell’Impero ha presentato una bibliografia utile a illustrare quale sia stata, nel periodo delle origini, la reazione della cultura pagana di Roma davanti al fenomeno della nuova religione. L’esposizione era però limitata alla cultura generale e alle testimonianze indirette. La presente Guida conserva i limiti e il punto di vista di quella (la sola cultura romana), ma si propone di esporre indicazioni sulle testimonianze dirette di parte pagana, attenendosi però alle più esplicite e meno controverse. La restrizione comporta una drastica riduzione rispetto ai molti casi, che in via ipotetica si potrebbero ricondurre al fatto cristiano, a volte molto noti, come Pomponia Graecina, di cui Tacito, “Ann”. 13, 32 dice che fu accusata superstitionis externae senza esplicitare se cristiana. Testimonianze di questo genere sono accolte probabilmente con corriva larghezza da L. HERRMANN, “Chrestos. Tèmoignages paiens et juifs sur le Christianisme du premier siècle », Coll. Latomus 109, Bruxelles 1970, che si giova di una analisi fin troppo ingegnosa. Quelle qui riportate saranno molto inferiori di numero; l’ordine sarà insieme cronologico e tematico, con indicazioni bibliografiche specifiche. Per la bibliografia generale valgano invece i titoli apparsi nella prima Guida; ricordo in particolare richiamati o sottintesi:
– S BENKO, “Pagan Criticism of Christianity”, «Aufstieg und Niedergang der rom. Welt», II, 32, 2 (1980), l055-1118; P. CARRARA, “I Pagani di fronte al Cristianesimo. Testimonianze dei secoli I e II”, Nardini, Firenze 1984; G. CASTELLI e M. LANA, “La pietra scartata. Antologia di testi da Tacito ad Agostino sulla figura di Gesù Cristo”, Paravia, Torino 1984; J. MOREAU, “La persecuzione del Cristianesimo nell’Impero Romano”, ed. it., Paideia, Brescia 1977; C. MORESCHINI, “Cristianesimo e Impero”, Sansoni Scuola aperta, Firenze 1973; R. PENNA, “L’ambiente storico culturale delle origini cristiane”, Centro Edit. Dehoniano, Bologna 1984; P. SINISCALCO, “Il cammino di Cristo nell’Impero Romano”, Laterza, Roma-Bari 1983; M. SORDI, “Il Cristianesimo e Roma” (Storia di Roma dell’ Istit. di Studi Romani XIX), Cappelli, Bologna 1965 e “I cristiani e l’Impero Romano”. Jaca Book, Milano 1983. La bibliografia specifica sarà inevitabilmente meno manualistica e più internazionale, anche se limitata a pochi titoli per ogni autore.

 

La corrispondenza Seneca – S. Paolo
Nessuna testimonianza di parte romana risale al I secolo, se si eccettua il gruppo delle otto lettere di Seneca a San Paolo, che i più ritengono apocrife (come l’intero carteggio, che comprende 14 lettere) fin dai tempi di Valla (per ragioni stilistiche) e di Erasmo (per contenuto e atteggiamenti). Tuttavia qualche dubbio rimane: se ne era reso interprete ancora nel 1981 E Franceschini in un breve saggio (“È veramente apocrifo l’epistolario Seneca-S. Paolo?”), inserito nel vol. II degli “Studi in onore di E. Paratore”, dal titolo “Letterature comparate. Problemi e metodo”, Patron, Bologna 827-841, soprattutto pensando alla tesi contraria di A. MOMIGLIANO, “Note sulla leggenda del Cristianesimo di Seneca”, «Riv. stor. ital.», 62 (1950), 325-344, ora in “Contributo alla storia degli studi classici”, Ediz. di storia e letteratura, Roma 1955, 13-32, Franceschini mostra qualche favore verso l’autenticità, giustificando l’uso del latino (senza altri esempi in Paolo, che però da tempo si trovava a Roma), spogliando i due corrispondenti della veste cattedratica, che loro conferisce la tradizione (e questo spiega la semplicità dei testi) e separando il problema dell’autenticità dalla leggenda del cristianesimo di Seneca (che nasce nel Trecento proprio dall’epistolario).

In realtà dal carteggio risulta un apostolo, che, senza mai nominare elementi dottrinali precisi, mira alla conversione del filosofo e alla fine (epist. XIV) sembra esserci riuscito, non tanto per merito dei suoi scritti alle chiese (che l’altro avrebbe letto) quanto forse per effetto indiretto della persecuzione neroniana. Il saggio di Franceschini è comunque molto utile per la chiara esposizione dei termini della questione e l’edizione del testo con traduzione. Oltre il testo un’esposizione completa della problematica si trova nella pubblicazione di L. BOCCIOLINI PALAGI, “Il carteggio apocrifo di Seneca e S. Paolo”, Olschki, Firenze 1978. Se il carteggio è un falso, rimane però una prova della conciliazione tra classicità e cristianesimo, che è l’esito (certamente posteriore a Seneca!) della lunga vicenda parallela, costellata di scontri e di conflitti di coscienza (S. Gerolamo!). La cristianizzazione degli elementi classici compatibili col cristianesimo permette di fare dei primi il precedente storico e la preparazione al secondo, oltre che di definire le sfere di competenza (ragione vs rivelazione, filosofia vs teologia). Il caso di Seneca «morale» si presta bene anche perché l’autore come tale è criticato e rinnegato dai conservatori (Quintiliano, Gellio, Frontone); il filosofo è stoico e questa dottrina è avversata e perseguitata con metodi non dissimili da quelli usati contro i cristiani (SORDI, “I cristiani” 41, 168). Le lettere a Lucilio specialmente sono una vera e propria «direzione spirituale»; l’espressione Seneca noster ricorre negli scrittori cristiani, e il filosofo ha una vasta udienza (P. MASTANDREA, “Lettori cristiani di Seneca filosofo”, Paideia, Brescia 1988).
Ma c’è di più: come eminente personaggio politico Seneca non può non essere stato informato del cristianesimo, perché anche delle vicende periferiche giungevano notizie al palazzo neroniano prima ancora dell’incendio e della persecuzione del 64. Come minimo ne aveva avuto informazione attraverso il fratello Gallione, che nel 50 a Corinto, in qualità di proconsole dell’Acaia, aveva incontrato l’apostolo Paolo (Atti 18, 12). Deve indirettamente avvicinarlo ai cristiani la sua conoscenza dell’ebraismo: se non aveva incontrato Filone, ambasciatore della cultura ebreo-alessandrina, perché allora si trovava in esilio in Corsica, ne aveva certo conosciuto le orme al suo rientro nella capitale; e da giovane era stato in Egitto, centro vivace della diaspora.
“Il pensiero religioso di Seneca e l’ambiente ebraico e cristiano” costituiscono l’oggetto di uno studio specifico di G. Scarpat, Paideia, Brescia 1977, in cui si trovano molte analisi e suggestioni (sulla corrispondenza con S. Paolo e il preteso cristianesimo del filosofo 112 ss.). In relazione al nostro tema i contatti del filosofo pongono in modo acuto il problema della conoscenza da parte romana dell’ebraismo (cfr. M. PUCCI BEN ZEEV, “Cosa pensavano i romani degli ebrei?” «Athenaeum» 65, 1987, 335-359), perché si può sospettare che l’anticristianesimo fosse qualche volta fomentato dal giudaismo (forse già Poppea nel 64?) e perché, per un tempo più o meno lungo, giudei e cristiani venivano confusi (ma il mancato riconoscimento ai secondi del privilegio di non partecipare al culto dell’imperatore è un segno di chiara distinzione). Così Flavio Clemente, perseguitato da Domiziano per i suoi costumi giudaici, potrebbe in realtà essere stato cristiano (Sinlscalco 68, Sordi, “I cristiani” 56-58, Benko 1063, Moreau 38). Soprattutto una maggiore attenzione alla presenza culturale ebraica consente di allargare l’ orizzonte del mondo romano, scolasticamente ristretto all’ellenismo.

« Superstitio»: Plinio, Tacito e Svetonio
Può darsi che sia riferibile ai cristiani anche la testimonianza di Svetonio, Claud 25, 11 Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit, se il provvedimento del 49 è lo stesso (Scarpat 99), che colpisce Aquila e Priscilla (Atti 18, 2), certamente ebrei cristiani, che Paolo incontra esuli a Corinto e saluta, rientrati a Roma, nel 57 (Rom. 16, 3). Il Chrestus (o Christus : come per i Chrestiani-Christiani di Tac., Ann. 15, 44 esiste una discussa questione testuale), potrebbe essere un oscuro agitatore (il nome era diffuso, prima che la pietà dei cristiani lo riservasse al figlio di Dio, e si prestava anche a giochi di parole) oppure proprio Gesù (Moreau 31, Siniscalco 23, Benko 1057 ss., contra SORDI, “Il cristianesimo” 57), creduto vivo e presente o almeno occasione di dispute messianiche, come quelle di Antiochia e Tessalonica raccontate in Atti 13, 44 e 17, 1-9, quando anche Paolo si proclamava ancora fariseo (Atti 23, 6). Non solo l’opinione pubblica (e la fonte qui adoperata da Svetonio) confondeva ebrei e cristiani, ma i cristiani erano per lo più ebrei convertiti, mentre l’opinione pubblica non capiva la risurrezione (Carrara 69-71). Quale che sia l’interpretazione da darsi al passo citato, Svetonio (o la sua fonte) parla esplicitamente di cristiani in Nero 16, 3: afflicti suppliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae et maleficae e si riferisce al 64; sullo stesso anno si diffonde Tacito, Ann. 15, 44, quando racconta che Nerone, per allontanare da se l’accusa di aver incendiato Roma, subdidit reos et quaesitissimis poenis affecit quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. La stesura dei due passi è posteriore alla testimonianza di Plinio, che nell’epist. 10, 96, 9, lamentandosi che superstitionis istius contagio pervagata est nella Bitinia da lui amministrata, si riferisce però a un fatto contemporaneo, 111-112, quindi più tardo di mezzo secolo.
È da notare che in tutti e tre i passi il cristianesimo è definito superstitio; differiscono gli aggettivi, nova e malefica in Svetonio, exitiabilis in Tacito, prava et immodica (8) in Plinio (che ha parlato però anche di pertinacia, obstinatio, amentia). Ma gli attributi non aggiungono molto (se nova = recente, non = rivoluzionaria); tutta la condanna sta già nel sostantivo contrapposto negativamente a religio già in Cic. “De nat. Deorum” 2, 28, 71 non enim philosophi solum, verum etiam maiores nostri superstitionem a religione separaverunt. Superstitio significa metastasi, anomalia, deviazione. Non è una definizione che colga la natura della cosa, ma solo il suo carattere di eccesso e di distorsione (sul termine tornano tutti gli studiosi interessati al rapporto romanità-cristianesimo, tra cui R. FREUDENBERGER, “Das Verhalten der röm. Behorden gegen die Christen im 2. Jahrhundert, dargestellt am Brief des Plinius an Trajan und den Reskripten Trajans und Hadrians”, Beck, München 1969, Exkurs V, 189-199), ma esiste anche una bibliografia specifica sulla complessa storia sia di superstitio che di religio, la quale va molto oltre il problema: G. LIEBERG, “Considerazioni sull’etimologia e sul significato di religio”, “Riv. Filol. Istruz. Class.“ 102, 1974, 34-57; S. CALDERONE, “Superstitio”, «Aufstieg und Niedergang der röm.Welt»», 1, 2, (1972), 377-396 (dalle citazioni qui raccolte risulta che superstitio = 1) eccesso o fraintendimento di religio; 2) connessa con riti segreti o dubbi, o addirittura con reati; 3) comporta inquietudine; 4) è un errore mentale; 5) è sovversivismo). Ma, mentre Svetonio si accontenta di collegare la repressione ai tumulti e Tacito dà per scontati i flagitia dei perseguitati, Plinio, forse per la prima volta nei rapporti romani con il cristianesimo, indaga per sapere e capire qualche cosa. I risultati, che egli comunica a Traiano, dimostrano chiaramente la difficoltà per l’intellettuale romano di percepire la novità e l’essenza del movimento: egli legge il cristianesimo con gli occhi del romano e con la sua cultura, che conosce precedenti repressivi e metodi di accertamento del lealismo. Il sacramentum è per lui solo l’impegno dei cristiani a osservare un codice morale, in cui risaltano virtù civiche e sociali (7, ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent ne fidem fallerent), e non è facile definire a che momento del rito in realtà alluda (K. PRÜMM, “Il cristianesimo come novità di vita. Mondo pagano e mondo cristiano esaminati e studiati nel loro primo incontro.” ed. it. Morcelliana, Brescia 1955, 135). I fedeli risultano comunque sudditi leali; fra l’altro hanno rinunciato alle riunioni conviviali, in obbedienza all’editto antieterie, benché fossero del tutto innocenti. L’inquisitore ha in mente le accuse di cene tiestee, incesti e infanticidi, rivolte contro le società misteriche; quindi conduce l’interrogatorio pensando a precedenti illustri, come la repressione dei Baccanali del 186 a.C., che doveva aver fatto testo, anche solo attraverso il racconto di Livio 39, 8-18: F. FOURRIER, “La lettre de Pline à Trajan sur les Chrétiens” (X, 97), «Recherches de Théologie ancienne»» 31, 1964, 161-174; R.M. GRANT, “Pliny and the Cristians”, «The Harvard Theological Review» 1948, 273-274. A. RONCONI, “Tacito, Plinio e i cristiani” in Vari, “Studi in onore di U.E. Paoli”, Le Monnier, Firenze 1956, 615-628. Il risultato dell’indagine è ovviamente condizionato dal tenore e dalla direzione delle domande poste, tanto che non si capisce bene, e si discute, se Plinio si riferisca alle assemblee liturgiche festive o al rito del battesimo o se confonda le due cose. Non è chiaro neanche che cosa sia il carmen cantato invicem (a voci alterne o senza sacerdote?) dai cristiani (Fourrier cit. 167. R.P. MARTIN, “The Bithynian Christians’ Carmen Christo”, in F.L. Cross ed., «Studia patristica» VIII, Akademie Verlag, Oxford 1963. 259-265).
Nella sua relazione manca invece qualsiasi cenno a momenti forti come il comandamento dell’amore o la prassi penitenziale. Anche accertando l’assenza di flagitia, il governatore è spaventato dalla grande diffusione del fenomeno cristiano. Questa è una preoccupazione schiettamente politica, non senza risvolti economici, (la crisi del mercato delle carni dei sacrifici, rifiutate dai cristiani: cfr. Paolo 1 Cor. 10, 23-30; Atti 15, 28-29; Minucio, Oct. 12, 5). Plinio ritiene che la posizione si possa sanare si sit paenitentiae locus (10}.
Paenitentia nel § 2 e nella risposta di Traiano indica certamente l’apostasia. Ma in questo paragrafo 10 sembra assumere una valenza diversa, non lontana da quella che si sorprende nella lettera 9, 21, l a proposito di un liberto colpevole, il quale fidem fecit paenitentiae verae, cioè si dimostra pentito prima ancora di ricevere minacce di punizione (ma per le conseguenze sulla procedura, spostamento cioè dal nomen al flagitium, cfr. P. V. COVA, “Plinio il Giovane e il problema delle persecuzioni”, «Bollettino di Studi Latini» 5, 1975, 293-314). Questo significato si avvicinerebbe a quello cristiano (come tale è usato dall’autore dell’epist. VI a S. Paolo: cfr. Bocciolini Palagi cit. p. 124), in quanto sposta l’attenzione dall’atto formale alla disposizione interiore, e toglie ragione al test di lealismo, eliminando il quale cadrebbero le conseguenze politiche e giudiziarie.
Quale che sia l’intenzione di Plinio, la sua proposta riesce ambigua e reticente tanto per la timidezza del proponente quanto per la probabilmente scarsa chiarezza nella sua stessa mente. Comunque Traiano non permette nessuna innovazione: ribadisce la concessione del perdono agli apostati che dimostrano di rinnegare la fede (veniam ex paenitentia); la forma prescritta è la supplicazione agli dei (nessun cenno agli onori all’imperatore e alle imprecazioni a Cristo). Così la lettera di Plinio costituisce l’occasione per la prima sicura fondazione giuridica delle persecuzioni; ma il suo significato nel quadro dell’atteggiamento della cultura romana è molto più grande per le novità che contiene, soprattutto l’esigenza di conoscere il fenomeno. La bibliografia però insiste sul problema giuridico, ma non mancano ottimi commenti analitici: ricorderò, oltre le raccolte elencate all’inizio, Freudenberger cit. 41-85; A.N. SHERWIN-WHITE, “The Letters of Pliny. A historical and social Commentary”, Clarendon, Oxford 1966, 691-712; A. WLOSOK, “Rome und die Christen. Zur Auseinandersetzung zwischen Christentum und römischem Staat, Klett, Stuttgart 1970, 27-39. Dunque la posizione di Plinio è molto più avanzata e aperta di quella dei suoi amici storici. Svetonio non collega neanche la persecuzione con l’incendio neroniano (ma forse solo in obbedienza alla struttura per rubriche della sua opera) e soprattutto colloca la notizia di 16, 3 tra i provvedimenti moralizzatori dell’imperatore (Benko 1061), che sono però di ben diverso livello (limite alle vendite gastronomiche e freno alle licenze degli aurighi del circo!). Tacito odia Nerone, ma non si sforza di capire le sue vittime. I cristiani sono confusi con la feccia cosmopolita, che fa la vergogna della capitale. Eppure Tacito non doveva essere privo di informazioni sia come storico che come amico di Plinio e come governatore lui stesso dell’Asia. La bibliografia, che lo riguarda a proposito del tema in oggetto, spesso lo accomuna a Plinio (Ronconi, Winter).
Poco sull’argomento nelle grandi monografie: il “Tacito” di R. Syme, ed. it. Paideia, Brescia 1967-71 gli dedica qualche pagina qua e là, in cui emerge una valutazione politico-sociale (p. 702: lo scrittore temeva l’indebolimento dell’aristocrazia e la caduta della plebe in braccio ai fanatismi e ai falsi profeti).
Su Svetonio, Tacito e Plinio insieme, buone sintesi in A. HAMMAN, “Chrétiens et Christianisme vus et jugés par Svetone, Tacite et Pline le Jeune”, in VARI, “Forma Futuri. Studi in onore del card M Pellegrino”, Bottega di Erasmo, Torino 1975, 91-109 e M. SORDI, “Il Cristianesimo nella cultura romana dell’età postflavia”, «Civiltà Classica e Cristiana», 6 (1985), 99-117 (dove sono riprese posizioni apparse in precedenti saggi, alcuni dei quali ricordati in questa guida, incentrati sul livello di conoscenza che i tre autori mostrano dei cristiani). Alla Sordi pare che Plinio abbia inteso abbastanza bene il sacramentum come assemblea liturgica basata sul sacrificio, che comporta un impegno di vita; nega recisamente, e con buone ragioni. che Svetonio, Claud 25,4 ( = 25,11) si riferisca ai cristiani, sia per la data sia per la conoscenza dimostrata altrove dallo storico.

«Amentia». Marco Aurelio e ancora Plinio
Prima di procedere all’indagine e alla conseguente sospensione dei processi in attesa di istruzioni, Plinio ha condannato i cristiani che gli venivano denunciati, non perché tali (il nomen) né per i flagilia (che forse fino allora dava per scontati), ma per la loro pertinaciam et inflexibilem obstinationem di rifiutare il test di lealismo loro proposto (supplicazioni all’immagine degli dei e dell’imperatore, maledizioni a Cristo). Infatti il rifiuto dell’atto forma!e è una sfida al potere (Moreau cit. 44), un gesto di opposizione, dunque la prova della sovversione. Quando il governatore si renderà conto che i cristiani sono sudditi onesti e leali allora entrerà in crisi, perché costaterà che solo la prova, cui li sotttopone, li rende colpevoli. D’altra parte non capisce perché essi non si adattino a un gesto formale, che secondo la mentalità romana non impegna la coscienza e non lede la libertà di pensiero (ben pochi credevano a quegli dèi ufficiali cui rendevano onore per ragioni di stato!). Non sospetta che per i cristiani è imperativa la coerenza fra atti e pensieri; non ha letto l’evangelico “date a Cesare”; crede che la scelta sia tra vita e morte, non tra vita mortale e eternità. Quindi giudica amentia questo atteggiamento ostinato anche di esseri deboli e indifesi. La valutazione è coerente con quella di superstitio, anzi l’una conduce all’altra: la superstitio è uno dei mentis morbi secondo Orazio, serm. 2, 3, 77, un error insanus a detta di Seneca, epist. ad Luc. 123, 16.
Irrazionalità e opposizione sono la critica concorde che i maggiori stoici dell’epoca rivolgono ai cristiani. Cosi Marco Aurelio. Non importa qui considerare gli aspetti giuridici e le ragioni politiche degli episodi di persecuzione sotto il suo regno (sotto il primo profilo conferma le disposizioni di Traiano, sotto il secondo può essere stato sollecitato dall’estremismo dei montanisti). Su questi aspetti si può vedere D. KERESZTES, “Marcus Aurelius a Persecutor?” “Harvard Theological Review” 61, 1968, 321-341, che non attribuisce tutti i fatti alla volontà dell’imperatore e distingue due fasi, la seconda delle quali riportabile ai cosiddetti «nuovi decreti» (provvedimenti contro i sacrilegi, in cui potevano essere ricompresi i cristiani, forse per eludere le restrizioni traianee).
Non sappiamo le sue reazioni alle apologie, che gli venivano rivolte. L’unico documento esplicito del suo atteggiamento mentale (anche questo ritenuto da alcuni una interpolazione) è costituito da una frase dei “Ricordi” 11, 3, in cui accusa i cristiani di pura e semplice paràtaxin cioè spirito di contraddizione e atteggiamento di opposizione, alludendo certo a situazioni di pertinacia e obstinatio come quelle riferite da Plinio, oppure al fatto di massa dei martiri di Lione o alle vicende di Proteo Peregrino (contraffazione del modo di vivere cristiano, terminata con una morte spettacolare; Penna 265). Si tratta anche per lui di amentia cioè di irrazionalità. Nel contesto dello stesso pensiero egli esalta la capacità di affrontare coraggiosamente la morte, quale che sia il momento in cui essa si presenta. Ma questa prontezza deve venire da convinzione personale. Si tratta cioè della tipica autosufficienza del saggio, fondata sulla ragione, conforme al dettato stoico. Sulla stessa linea si pongono giudizi di Epitteto e di Galeno: questi è disposto a riconoscere che i cristiani sono filosofi (cioè hanno una linea di condotta) senza filosofia (cioè irrazionale e fideistica). Questa posizione (come poi l’invito di Celso a collaborare) è pur sempre indizio, se non di comprensione, certo di attenzione per un fenomeno spirituale che ormai si imponeva.
Con speciale riguardo a Marco Aurelio è da vedere F. MARTINAZZOLI, “Parataxeis. Le testimonianze stoiche sul cristianesimo”, La Nuova Italia, Firenze 1953, il quale insiste più sulla follia che sull’opposizione (ma l’una genera l’altra), nel quadro della generale contrarietà a tutti i tentativi di vincere la natura (magie, miracoli). Un commento al passo dei Ricordi si legge nella prima parte del saggio di P.A. BRUNT, “Marcus Aurelius and the Christians”, in C. Deroux (ed.) “Studies in Latin Literature and Roman History”, Coll. Latomus 164, Bruxelles 1980, I, 483-498 (con speciale interesse alla problematica del suicidio, anche pratica; la seconda parte, 498-520, si occupa delle persecuzioni e delle loro motivazioni, anche culturali). Qualche pagina ha dedicato all’argomento anche l’ “Appendice 4” dell’edizione italiana del “Marco Aurelio” di A. Birley, Rusconi, 1990 (spec. 348 e 356), che però è piuttosto attento agli aspetti generali del rapporto col cristianesimo.

I «flagitia» e Frontone
Al tempo di Marco Aurelio l’accusa ai cristiani di innominabili flagitia sembra tramontata per lasciare il posto a giudizi più seri di irrazionalità e a maggiore comprensione. Ma proprio l’esponente maggiore della cultura romana del momento rispolvera la descrizione delle cene incestuose, cui si abbandonerebbero i cristiani nell’oscurità delle loro riunioni promiscue: lo testimonia Minucio, Oct. 9, 6-7, mettendola in bocca al pagano Cecilio.
A prima vista sembra incredibile che un intellettuale ancora a metà del II secolo potesse ripetere le dicerie del popolino, anche se è noto che le persone colte sapevano poco di religione. Del fatto sono state date diverse spiegazioni. La prima è che proprio al celebre retore fosse stato affidato il lancio di una campagna, che preparasse l’opinione pubblica a una persecuzione (Frontone era convinto che le masse non si governano con i ragionamenti, ma sollecitandone le inclinazioni). Così tra gli altri M. C. CRISTOFORI, “L’oratio di Frontone contro i cristiani e la persecuzione di Marco Aurelio”, «Riv. di st. della Chiesa in Italia» 32, 1978, 130-139 si propone dichiaratamente di rivalutare l’influenza politica e culturale del retore, e rivede in sintesi tutta la problematica pertinente. Anche A. HENRICHS “Pagan ritual and the alleged crimes of the early Christians: a reconsideration” in VARI, Kyriakon, Festschrift J Quasten, Aschendorff, Münster 1970, I, 18-35, che si occupa in genere delle accuse ai cristiani di flagitia rituali, considera Frontone come portavoce della politica ufficiale contro di loro (26-27). Ma il vecchio maestro dei principi non era un personaggio così importante e celebre, come sembrerebbe a prima vista dall’ epistolario.
Una spiegazione più sottile si rifà al concetto di reato di sovversione, legato ai flagitia sociali con un rapporto di necessità tale, per cui i termini diventano interscambiabili tra loro. Una terza spiegazione nega che esista una vera e propria oratio anticristiana di Frontone: egli avrebbe semplicemente accennato alle cene cristiane in margine a un discorso contro un certo Pelope, il cui nome suggeriva agevolmente il ricordo di questo specifico tipo di turpitudini, per cui andava famosa la dinastia di Micene (E. CHAMPLIN, “Fronto and Antonine Rome”, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass.- London 1980, 65).
Di fatto Minucio mostra di attribuire al Cirtense solo l’accenno alle cene. Si veda l’attacco di 9,6 et de convivio notum est, passim omnes loquuntur. id etiam Certensis nostri testatur oratio. Parallelamente nella sua risposta Ottavio cita Frontone solo a proposito di questa accusa: 31, l et de incesto convivio… Quindi sembra arbitrario attribuire al retore tutte le altre accuse volgari sciorinate da Cecilio (che sono del resto res communis, cfr. Henrichs) e puntualmente confutate da Ottavio, o addirittura ricostruire con esse l’intero discorso del vecchio senatore, come ha fatto con successo P. FRASSINETTI, “L’orazione di Frontone contro i cristiani” («Giornale italiano di filologia» 2, 1949, 238-254), il quale si fonda sul metodo di Minucio (collage d’autori diversi) e di Frontone, letterato non storico (quindi l’uso di stereotipi, in questo caso il racconto dei baccanali) e ritiene si sia trattato di un vero discorso in senato o in tribunale.
Al contrario Martinazzoli 3 liquida l’intervento come puramente letterario. Sullo stesso piano si pongono le più recenti monografie frontoniane, le quali concedono nessuno o pochissimo spazio a questo episodio (una sintesi in P. V. COVA, “Marco Cornelio Frontone”, «Aufstieg und Niedergang der röm. Welt» II, 34, 2). Paradossalmente svalutatori e rivalutatori del rilievo politico dell’oratio frontoniana si trovano d’accordo nel presupporre in ogni caso nel suo autore la piena disponibilità a servire il potere, mettendogli a disposizione la propria competenza (in questo caso la retorica) senza discutere le idee. È certo che Frontone, diffidente avversario della filosofia, non poteva neanche sollevarsi al livello del giudizio critico degli stoici del suo tempo. Però proprio la retorica, col suo antidogmatismo e l’apertura problematica, avrebbe dovuto aiutarlo a superare l’antinomia fra razionalismo e irrazionalità, che trattiene Marco Aurelio da un giudizio più equo. Il suo atteggiamento dimostra la difficoltà che, ancora dopo la metà del II secolo, la cultura romana incontra quando viene a contatto col cristianesimo.
 

Nuova Secondaria, n.1 del 15.9.1994, pp. 63-66.