Transizione ecologica: utopia o progetto?

Autori: Giraud Gaël

– La scienza ha scoperto l’effetto serra all’inizio del 900, ci sono voluti 100 anni per far sì che la comunità politica mondiale prendesse coscienza pienamente della situazione, alla Coop 21di Parigi nel  2015. Ora sono passati altri sette anni. Lo stile di vita californiano, al centro delle fantasie di tutto il pianeta, non è sostenibile. Negli ultimi anni, la data dell’Overshooting Day è incredibilmente arretrata, accorciando in maniera sensibile il periodo durante il quale l’umanità consuma le risorse naturali disponibili: nel 1970 la data simbolo era il 31 dicembre, nel 2022 è stata individuata nel 28 luglio, con la conseguenza che, all’attuale ritmo di sfruttamento delle risorse, servirebbero 1,7 pianeti Terra. Di conseguenza, sia la questione dello “sviluppo”, che tanto ossessiona l’approccio postcoloniale dei Paesi del Sud, sia quella della “crescita”, che da vari decenni funge da obiettivo irraggiungibile per le società del Nord, vengono radicalmente messe in discussione dai vincoli ambientali: perché promuovere il miraggio della “crescita” e dello “sviluppo”, anche se “sostenibili”, sené l’uno né l’altra sono tecnicamente compatibili con la sopravvivenza della specie umana? Una domanda così incredibilmente semplice impone un cambiamento di paradigma talmente ampio che la maggior parte degli economisti – che considera i servizi del mercato come uniche fonti di valore sociale – si sente incapace di rispondere. A livello governativo si è fatto poco; una ministra francese ha fatto passare una legge per la transizione ecologica che ha chiesto alle banche di implementare un climate stress test. Si tratta però solo di un test, non è sufficiente. Negli Stati Uniti d’America il partito democratico aveva organizzato un piano per un green new deal, molto amplio, l’amministrazione Biden lo ha preso e lo ha ridotto a 350 miliardi di dollari, che non sono sufficienti, però è una prima tappa. A livello degli economisti, c’è una parte della comunità scientifica degli economisti che sta ripetendo le parole del premio Nobel William Nordhaus, che però non comprendono la gravità della situazione. È chiaro che un aumento di sei gradi è l’apocalisse per la terra, tutte le simulazioni che ho fatto con la mia equipe sono chiarissime a riguardo, con sei gradi in più è l’apocalisse. L’altra parte degli economisti ha invece capito la gravità della situazione e sta lavorando moltissimo per capire le condizioni di possibilità per una transizione ecologica a livello nazionale. A livello della finanza c’è una crescita di consapevolezza sulla gravità del cambiamento climatico, per esempio nel 2015 il governatore della Banca centrale di Inghilterra, Mark Carney, aveva organizzato una conferenza intitolata “La tragedia dell’orizzonte” dove aveva detto che la minaccia più grande per la stabilità finanziaria è il cambiamento climatico. Ed era la prima volta che una persona con responsabilità di così alto livello nel mondo delle banche e della finanza affermeva una cosa simile. A livello della società civile ci sono moltissime iniziative, qui in Italia ci sono le comunità energetiche, delle cooperative decentralizzate di produzione di energia, che in Germania sono state invece privatizzate.  La fonte dell’ottimismo è la società civile.

– Oggi sappiamo che il costo della transizione ecologica, dell’investimento per l’infrastruttura verde,  può essere stimato in  novanta mila miliardi di dollari entro il 2035, un costo quasi pari al  Pil mondiale, che  è di 100mila miliardi. Gli Stati Uniti hanno istituito il fondo nazionale verde per aiutare i paesi del sud a finanziare la transizione ecologica, questo fondo dovrebbe ricevere dalla comunità internazionale 100 miliardi di dollari e oggi ha ricevuto meno di 50 miliardi, non è sufficiente. La grande questione è come possiamo finanziare la transizione ecologica e come la attuiamo se otteniamo il denaro? La transizione dovrebbe costare ad ogni stato circa il 2% del suo Pil all’anno. Per la Francia abbiamo studiato due scenari e abbiamo fatto la differenza del costo per lo stato e per il settore privato e la differenza non è enorme. Bisogna ridirigere una parte del finanziamento che oggi va al settore energetico sporco (energie fossili), per esempio il governo francese ha deciso, la settimana scorsa, di porre fine al finanziamento pubblico del petrolio francese (Total), che era un’assurdità. I punti più importanti per la transizione ecologica, in Francia (e dovrebbe essere lo stesso anche per l’Italia), sono:

  1. Il miglioramento dell’efficienza termica degli edifici pubblici e privati; intervento costoso, ma che crea posti di lavoro verdi. Opportunità fantastica per lottare contro la disoccupazione.
  2. La mobilità verde; rete di treni a livello nazionale. Il treno ad alta velocità non è la risposta, perché abbiamo più bisogno di una rete ferroviaria che passi per ogni paese e lo stesso dovrebbe essere per l’Italia. Anche in questo caso si creano posti di lavoro. In questo modo non è necessario prendere l’auto per spostarsi.
  3. L’industria verde; questo è il punto più difficile da realizzare. Si parla di una decarbonizzazione al 50% del settore industriale nel 2050. Abbiamo però la foresta che è una fonte per assorbire la co2 che ancora emetteremo nel 2050, quindi ci saranno ancora un po’ di emissioni, ma ciò verrà compensato dalla presenza delle foreste.

La questione è se è possibile per il settore bancario finanziare tutto questo e io dico che è possibile, però c’è un ostacolo molto grande che sono le attività finanziarie  fossili che sono ancora oggi nel bilancio delle banche francesi. Abbiamo pubblicato l’anno scorso un rapporto che mostra che se guardiamo le prime 11 banche europee le attività fossili, cioè legate all’energia sporca (carbone, petrolio, gas), rappresentano 530 miliardi di euro, cioè un valore pari al 95% del capitale di queste banche! Se vietassimo completamente l’utilizzo delle energie fossili il prezzo di mercato di queste attività finanziari si azzererebbe e tutte queste banche fallirebbero… I banchieri lo hanno capito anni fa e questa mi sembra la ragione profonda del perché, indipendentemente dalla conoscenza di un banchiere della gravità della crisi ecologica, le banche non possono aiutare davvero la transizione ecologica, perché sono consapevoli che ciò comporterebbe il rischio di fallimento. Se ci sono questi attivi fossili nei bilanci delle banche è perché noi, le nostre società, abbiamo deciso per più di 50 anni di vivere utilizzando il petrolio, il carbone e il gas. La colpa è solo parzialmente delle banche, perché si tratta di una colpa collettiva e tutti dobbiamo impegnarci a trovare una soluzione. Potremmo proporre come soluzione quella di creare insieme una banca pubblica che compra queste attività finanziarie presenti nei bilanci delle banche private; dopo di che, se il prezzo di mercato di queste attività  scendesse e la banca pubblica perdesse miliardi,  le perdite diventerebbero nuovo debito pubblico dello stato. Questa non può essere la soluzione giusta secondo me. C’è una soluzione alternativa che non costa niente a nessuno e che può salvare il sistema bancario, facendo in modo che le banche possano finanziare la transizione ecologica. Bisognerebbe chiedere alla Banca centrale europea di giocare il ruolo della banca pubblica, ovvero comprare queste attività finanziarie, e rischiare di perdere miliardi, sapendo che una banca centrale può sempre ricapitalizzarsi. Tecnicamente questa procedura può essere fatta, ma a livello politico non viene considerata come una buona procedura perché sarebbe una minaccia per la credibilità della Banca Centrale, e creerebbe  il richio di un aumento dell’inflazione. Oggi l’euro è debole rispetto al dollaro, e l’inflazione ha rialzato la testa. Però se noi scegliessimo questa strada avremmo un’opportunità per finanziare la transizione ecologica, che è anche un’opportunità fantastica per ridurre la nostra dipendenza dall’energia fossile russa. Questa è la migliore difesa nella situazione in cui ci troviamo. Se l’Europa non investe sul cambiamento climatico è la sua fine, già nel 2040 si prevedono situazioni invivibili. L’unica risposta è andare verso un’economia decarbonizzata. L’ostacolo più grande sono le banche, ma se troviamo insieme una soluzione per salvare le nostre banche, allora sarà possibile finanziare la transizione ecologica. Non abbiamo più tempo per aspettare.

– C’è una relazione tra la struttura energetica di una società e la sua struttura politica. Il fatto che la rivoluzione industriale ha basato tutto sul carbone ha avuto un forte impatto sociale, perché il carbone è molto costoso da trasportare, è molto pesante. Il petrolio è invece facile da trasportare e i lavoratori hanno perso il potere della negoziazione. Le strutture politiche si adeguano e cambiano a seconda che si faccia uso del carbone o del petrolio.

La grande questione per noi oggi è quale sia la struttura politica che possa meglio funzionare con l’utilizzo dell’energia rinnovabile. È chiaro che la maggioranza degli attivisti e degli ecologisti pensano che ci sia una sola opzione, ovvero una società fortemente decentralizzata con beni comuni e con la possibilità per una famiglia di produrre la propria energia (pannelli solari, torri eoliche). La Germania, per esempio, aveva cominciato questo processo nel 2010. La transizione economica potrebbe attribuire un ruolo decisivo elle energie rinnovabili, a un’economia “deglobalizzata” in cui i territori torneranno a svolgere un ruolo nella storia e dove i cittadini saranno in grado di produrre e scambiare energia. Sarà l’inizio di una democrazia partecipativa? Io sono a favore di questa opzione, però sfortunatamente c’è anche un secondo tipo di società completamente compatibile con l’energia rinnovabile ed è una società centralizzata, antidemocratica, autoritaria, vincolata ad un settore privato molto forte, perché le energie rinnovabili possono essere anche gestite in un modo estremamente capitalistico, cosa che molti attivisti ecologisti non hanno capito. Questo è il programma della Cina, ad è anche quello di Macron in Francia. Nè la Cina né Macron  perseguono una strategia incentrata sui beni comuni. Una parte del problema della transizione ecologica è l’assolutizzazione della proprietà, privata e pubblica. Negli Stati Uniti se io sono proprietario di un giardino e ho scoperto che c’è un po’ di petrolio, posso sfruttarlo a mio piacimento e nessuno può dire niente, perché sono il proprietario assoluto, non c’è limite alla proprietà privata; lo stesso meccanismo vale per la proprietà pubblica, per esempio il governo brasiliano non ha fatto niente per difendere la foresta amazzonica, ed è da considerare un crimine contro l’umanità, ma nessuno può dire niente perché la foresta amazzonica è proprietà dello stato brasiliano. Non ci sono limiti alla sovranità di uno Stato e questo crea problema. Bisogna discutere sui limiti della proprietà privata e pubblica e l’alternativa a queste due forme di proprietà sono i beni comuni. Non si tratta di cancellare tutta la proprietà privata e pubblica, ma di porre dei limiti. I beni comuni sono i beni più antichi dell’umanità, prima dell’agricoltura esistevano solo beni comuni. La comunità dovrebbe discutere della gestione di questi beni comuni in modo democratico.  L’acqua, il clima, la biodiversità, la sanità devono essere tutti beni comuni, non devono essere privatizzati. La sanità deve essere gestita come un bene comune e globale. Deve esserci un dibattito democratico sui beni che dovrebbero essere gestiti come beni comuni. La Chiesa ha una tradizione importante in questo senso, negli Atti degli Apostoli si legge che per la prima comunità cristiana tutti i beni erano comuni, tutto era comune. Questo  può indicare la strada verso una soluzione a livello mondiale.

Nota: Trascrizione, non rivista dall’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 21.2.2022 da Gaël Giraud, sollecitato dal prof. Enrico Minelli, su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.