Ulisse, l’altra faccia dell’eroe fraudolento

Due sono gli aspetti più noti di Ulisse, intrecciati tra loro: il fraudolento e l’esploratore. Al primo è connaturata l’arte della parola (scelerum inventor e fandi fictor), il secondo diventa simbolo dell’umano desiderio di conoscere (da experiens a sapiens). I due aspetti sono ben uniti in Dante, che dispone dell’arte di condannare ed esaltare nello stesso tempo, come fa nel celeberrimo episodio di Francesca da Rimini. Anche Ulisse è collocato al fondo dell’inferno nella bolgia dei fraudolenti, con una scelta antologia dei suoi misfatti (il cavallo di Troia, l’inganno a Deidamia, il furto del Palladio). Nello stesso tempo gli viene messa in bocca la celebre «orazion picciola». che è di altissimo livello intellettuale e morale: «Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza». Dall’incontro il poeta cristiano trae comunque l’insegnamento a “raffrenare l’ingegno” secondo criteri morali.
La tradizione antica però, per obbedire al gusto popolare dell’ avventura e dell’intrigo, ha privilegiato l’impiego, che Ulisse fa del suo ingegno, per ingannare e riuscire comunque nel suo intento. È lui che scopre Achille sotto vesti femminili nella casa di Licomede e Deidamia, dove la divina madre lo aveva nascosto per sottrarlo al destino di morte che l’attendeva sotto Troia. È lui che con l’inseparabile Diomede sottrae ai troiani il Palladio, la statua garanzia della salvezza della città, fingendosi un mendicante nella rocca assediata, e nell’incursione notturna nel campo avverso cattura Dolone, lo fa parlare con promessa di impunità, e poi lo uccide. Altrettanto impietosamente aveva fatto abbandonare Palamede nell’isola di Lemno a causa di una ferita purulenta, per poi tornare a sottrargli l’arco fatale, da cui dipendeva la vittoria su Troia. Dopo la quale è ancora lui che si assume il compito di sottrarre il piccolo Astianatte alla madre Andromaca, per eliminare qualsiasi ricordo di Ettore.
Nell’Odissea poi l’arte di foggiare menzogne viene sparsa a larghe mani, persino nei rapporti con gli dei e anche quando non ce n’è bisogno. Al fido Eumeo Ulisse architetta una storia mista di verità. Racconta di essere un cretese, che esercitava la nobile arte della pirateria, ma di esser stato rovinato dalla guerra di Troia, che aveva chiamato lui alle armi e interrotto i traffici marittimi. Il vertice dell’arte sua Ulisse lo raggiunse quando, nella disputa con Aiace per il possesso delle armi di Achille (che equivaleva a una sorta di riconoscimento dell’eccellenza in battaglia) riuscì a prevalere sull’ antagonista, che certo era oratore meno eloquente, ma miglior guerriero di lui. Una concezione più elevata reinterpreta questi e privilegia altri fatti come mossi dal desiderio di conoscenza e quindi prova di spirito superiore: Ulisse si fa incatenare per poter ascoltare le Sirene, per interrogare i morti sul suo destino, affronta gratuitamente persino l’incognita di Polifemo. Nella grande mostra, attualmente aperta a Roma, nel Palazzo delle Esposizioni, su Ulisse, il mito e la memoria, le imprese di questo tipo ci sono tutte, raffigurate in mosaico o in affresco, su vasi o in statue di ogni dimensione.
Al centro stanno due colossali ricostruzioni di gruppi marmorei provenienti da Sperlonga; Tiberio li aveva commissionati ad artisti specializzati nella riproduzione di originali ellenistici per poterli ammirare (insieme ad altri dello stesso mito), mentre sedeva con gli amici e i maggiorenti nel triclinio collocato tra la grotta e il mare. E come Tiberio a Sperlonga, così Claudio a Baia e Domiziano a Castel Gandolfo e altrove altri imperatori e signori amavano vedersi sotto gli occhi Odisseo come un modello positivo e alto da imitare. Ceti elevati e strati popolari concordavano, comunque, nel considerare Ulisse un vincente. Eppure Virgilio nel libro terzo dell’Eneide lo definisce due volte “infelice”. L’occasione gli è offerta dall’incontro di Enea con Achemenide nella terra dei Ciclopi, dalla quale Ulisse è passato tre mesi prima. Achemenide, che è un fedele gregario del re di Itaca, esalta e compiange il suo comandante: ne ricorda il grande coraggio nell’ affrontare Polifemo, eppure lo considera uno sventurato. La ragione di questo giudizio, ripreso poco dopo in proprio dal poeta, sta nel significato dell’episodio. Virgilio non vede l’accecamento del Ciclope come una lotta fra Davide e Golia, fra ragione e violenza, ma come un atto di empietà. L’uomo stoico, al quale egli pensa, deve vivere secondo natura, ma non varcare i limiti che gli sono imposti; non tutto in natura è buono e concesso ai mortali. Polifemo è come l’Etna, un fenomeno non umano. È una follia usare l’ingegno per varcare le colonne d’Ercole della ragione.
Lo stesso giudizio, tra ironico e paradossale, darà dell’ eroe omerico l’erasmiano Elogio della pazzia: “Il suo senno era veramente eccessivo, si allontanava quant’altri mai dalla guida della natura”. Infatti Circe lo aveva invano consigliato di non affrontare Scilla con la sua spada umana. Anche Dante ha giudicato folle il “volo” di Ulisse nell’oceano e condannato il suo eroe al naufragio. Come spesso, la colpa è la pena: il dannato è fissato per sempre nel suo peccato. Anche per Virgilio Ulisse è un infelice per l’empietà che commette. Ma c’è una differenza fondamentale. Virgilio non condanna in modo definitivo. Ulisse non ricompare più nell’Eneide se non nel ricordo che ne fa molto più avanti Diomede, quando rifiuta di scendere di nuovo in guerra contro i Troiani in Italia.
L’inseparabile compagno di molte violenze di Ulisse e lui stesso empio (a Troia ha osato ferire una dea!) a questo punto è un convertito, che invita alla pace e non alla guerra, perché si dice ammaestrato dalle sciagure, che hanno colpito anche i greci vittoriosi. Per Ulisse ricorda proprio l’incontro con Polifemo, non dunque un trionfo, ma una sconfitta, forse, però, anche per lui un’occasione di cambiamento.
Se non per Ulisse, la lezione vale almeno per Enea. Passando davanti a Itaca qualche tempo prima, i troiani avevo definito “crudele” il re di quell’isola (che altre volte è detto “ingannatore, menzognero, funesto”). Adesso è infelice, perché le disgrazie, che hanno colpito Enea nelle tappe successive, hanno insegnato al troiano che la sofferenza è compagna dell’esistenza e che agli uomini conviene non lottare tra loro ma “confederarsi”, se non contro una leopardiana natura matrigna , almeno per sopportare i limiti della condizione umana. Poiché il dolore “ha una voce e non varia», i troiani, a questo punto della loro maturazione, possono accogliere senza esitare Achemenide, benché sia greco e nemico.
In questo modo Virgilio ha sublimato e riempito di senso morale una terza dimensione di Ulisse, che era presente ma inerte nella tradizione. Anche Omero in apertura dell’Odissea annunciava che l’eroe “molti dentro del cor sofferse affanni”, come traduce aulicamente il Pindemonte. Questi travagli non lo fanno “bello di fama e di sventura”, come vuole il Foscolo, ma un fuscello in balia del vento. Una versione del mito lo identificava con Nanos, che dovrebbe significare l’Errante. Un’altra tradizione, raccolta anche da Seneca, limita i viaggi decennali al solo bacino del basso Tirreno, dunque ne fa un aggirarsi vano, un avvitarsi su se medesimo. A ragione Marco Aurelio definiva “labirinto di Ulisse” questo inutile lungo viaggiare in un piccolo tratto di mare. E Servio, commentando le vicende dell’eroe dopo il ritorno in patria, non lo presenta già come il vincitore dei Proci, che ritrova fedele la sposa Penelope, ma come uno che arretra davanti al disordine della sua casa, all’adulterio della moglie, al figlio deforme dei Proci. Secondo la versione accolta dall’antico commentatore di Virgilio, Ulisse riparte subito da Itaca, ma non per trovare la terra che non conosce il remo, come voleva la profezia di Tiresia in Omero, né per fuggire senza meta: cum fugeret in errores è la formula intraducibile di Servio.
Nonostante queste testimonianze l’Ulisse infelice, il terzo Ulisse, non ha avuto fortuna: all’opinione comune non piacciono i vinti, ma i vincitori. Già Ovidio, riprendendo polemicamente l’episodio virgiliano nelle sue Metamorfosi, restituisce ad Achemenide l’albagìa del greco, che vuole scusarsi di aver accettato l’ospitalità dei “barbari” troiani, e a Ulisse la qualifica tradizionale di experiens, l’uomo che ama fare esperienze per conoscere.
 

Giornale di Brescia, 26.5.1996.