Una lettera sulla Chiesa domestica

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Vorrei riprendere il mio discorso sul concetto di “chiesa domestica”.
Confesso che mi sta molto a cuore questa espressione diventata di grande attualità, dopo che il Concilio Vaticano II l’ha fatta sua. Mi sta a cuore anche perché, a badarci bene, può essere intesa in due modi diversi, fra loro correlativi: può infatti indicare sia la famiglia in quanto chiesa sia la Chiesa in quanto famiglia.
Nella Chiesa nascente questi aspetti quasi si confondono. “Dove due o tre di voi sono riuniti nel mio nome – aveva detto Gesù – io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 19-20). E gli Atti d’apostoli: “Erano assidui nell’ascoltare gli insegnamenti degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere…Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a cassa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore” (Atti 2, 42-47). E ancora: “la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune” (Atti 4, 32).
Da questi testi si evincono gli elementi che costituiscono la Chiesa: l’assiduità all’insegnamento dei testimoni di Cristo, la preghiera comune, lo spezzare il pane, che è poi l’Eucarestia, la carità (“un cuore solo, un’anima sola”) espressa anche dalla condivisione dei beni.
La Chiesa-famiglia delle origini aveva delle porte molto aperte.
Vi erano invitati anche i Gentili, a pieno diritto, non più come stranieri né solo come ospiti, ma come, appunto, “familiari di Dio” e “fratelli in Cristo” (cfr. Ef 2, 10-20). Nei rapporti interni regnava una grande sincerità e franchezza (parresia). Paolo, ad esempio, non esiterà a riprendere il fratello Pietro, allorché questi, col suo comportamento incerto, stava per mettere in forse il principio, fondamentale per la Chiesa, per la sua cattolicità, della salvezza di Dio offerta a tutti mediante la fede e non per le opere della Legge (ebraica), principio che collocava sullo stesso piano, di fronte al Cristo e nella comunione ecclesiale, i Gentili e gli Ebrei, creando fra loro uguaglianza.
Col passare del tempo e con l’aumento di numero dei credenti, famiglia e Chiesa si distinguono sempre più, ma senza perdere il loro senso originale. La famiglia continua ad essere veramente una chiesa, nella misura in cui mantiene viva in sé la fede e la vita di Cristo, in quanto cioè il Cristo continua ad esservi presente. Alla pari, la Chiesa conserva il significato e le caratteristiche di una famiglia.
Il Cristo è presente in una famiglia innanzitutto in forza del battesimo che i suoi membri hanno ricevuto. I suoi membri dovrebbero ricordare il giorno della loro nascita in Cristo come decisivo anche ai fini della comunione familiare. È infatti il battesimo che più strettamente li unisce in Cristo e fra di loro.
La Parola di Dio, in una famiglia che intenda essere una chiesa, deve conservare un posto d’onore e una reale preminenza. La Bibbia dovrebbe trovarsi a portata di mano per poter essere da tutti più facilmente letta e meditata, con spirito di fede e di preghiera. E perché non leggerne insieme qualche passo, prima, ad esempio, del pasto serale che più facilmente trova unita la famiglia?
Quanto alla S. Eucarestia domenicale, sarà bene, per quanto possibile, ma senza insistenze fuori posto, parteciparvi e celebrarla insieme: padre, madre e figli. Essa potrebbe avere un seguito a casa. Si potrebbe trovare il momento buono per sminuzzare ai figli l’omelia, forse per loro troppo difficile, tenuta dal celebrante. Il gesto, poi, del pane spezzato a tavola dal papà, se preceduto da un breve cenno di preghiera, potrebbe assumere facilmente un significato eucaristico, contribuendo a valorizzare la mensa familiare come realtà ecclesiale. Si eviterebbe il pericolo che la S. Messa fosse considerata una parentesi chiusa.
Infine, una parola sulla carità, che resta l’elemento più qualificante per una famiglia che voglia intendersi come chiesa. San Paolo la dichiara vincolo della perfezione e dono dello Spirito che unifica tutti i cuori.
Trasmessa ai figli attraverso l’esempio dei genitori, la carità come scoperta dell’altro, li condurrà progressivamente all’età adulta. La carità è la “bontà del cuore” (D. Fabbri) che avvicina gli uomini tra di loro e rende comuni i loro bisogni spirituali e materiali. È per questo che gli Atti accennano alla comunanza dei beni che veniva praticata dalla Chiesa nascente al fine di rendervi più concreto il volersi bene dei fratelli.
Ma vorrei ora soffermarmi sull’altro significato dell’espressione di cui ci occupiamo in questa lettera.
La Chiesa, dicevo, è una realtà domestica, una famiglia. Lo è in quanto i rapporti personali e fraterni che vi s’intrattengono prevalgono su quelli formali e burocratici. L’autorità nella Chiesa non è come quella che si esercita in uno Stato.
Dicono ancora gli Atti: “Pietro si alzò in mezzo ai fratelli” (Atti 1, 15). Questa breve ma efficacissima espressione biblica completa il quadro di una Chiesa-casa ospitale, nella quale chiunque abbia spirito di figlio può trovarsi a proprio agio. Tuttavia si deve notare che la Chiesa biblica, normativa, non è una casa consegnata al disordine e all’anarchia. La libertà che vi regna è la libertà dei figli di Dio, tenendo conto che i figli vivaci sono spesso i più promettenti e che, se anche ci danno qualche fastidio, lo possono fare per amore, pensando di rendere ancora più ospitale la loro casa. Essi vanno quindi incoraggiati con fiducia ed eventualmente corretti con spirito fraterno. Una famiglia consapevole dei suoi compiti cerca sempre di valorizzare i propri membri. Il successo di uno porta gioia a tutti, il dispiacere di uno investe tutti.
Essendo un servizio di carità rivolto al benessere e al progresso di tutti, l’autorità ha il dovere di esaminare se stessa con spirito autocritico, favorendo in questo modo la crescita di responsabilità di tutti i membri della comunità. Essa tuttavia, proprio in quanto servizio, è un compito che va adempiuto magari superando tentazioni di scoraggiamento e di stanchezza.
Carissimi sposi, voi siete laici e non clero, eppure questo discorso sulla Chiesa non può non interessarvi, perché la Chiesa è anche vostra, anzi anche voi siete Chiesa e non potete quindi assumere atteggiamenti rinunciatari e di assenteismo nei suoi confronti. La vostra famiglia è una cellula della famiglia ecclesiale: fate in modo che sia una cellula sana. Con affetto.
 

Silvano Margherita e gli altri, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 93-97.