Vendetta senza perdono nei versi antichi

La parte cristiana della sensibilità moderna rimane perplessa di fronte al finale del poema di Virgilio: Enea, il pio Enea, uccide Turno che lo implora. È vero che l’eroe rutulo aveva a sua volta ucciso il giovane Pallante, da poco affidato dal vecchio Evandro alle cure dell’alleato troiano: questi si decide a finire l’avversario, proprio vedendogli addosso il cinturone, che era appartenuto a Pallante. Eppure lo stesso Enea, non molto tempo prima, nell’infuriare della battaglia, aveva compiuto un gesto di pietà, assolutamente rivoluzionario rispetto alle norme dell’epica, restituendo ai compagni il cadavere di Lauso, il giovane e innocente figlio dell’empio Mesenzio, dopo aver anche cercato invano di non ucciderlo.
Si può pensare che Virgilio, se avesse avuto il tempo di rivedere il suo poema, del quale non era contento, avrebbe cercato un finale più consono all’itinerario di conversione, che ha tracciato per il suo eroe. Ma si può anche immaginare che il gesto di Enea sia condizionato da illustri precedenti epici e tragici. Anche nell’Iliade Achille uccide Ettore per vendicare Patroclo, e resta insensibile alla preghiera del troiano che chiede umana sepoltura.
Ma Ettore è un nemico e appartiene ad un’altra gente: Turno invece è di quel popolo, con il quale i troiani si dovranno fondere. Più pertinenti sembrano certe situazioni della tragedia greca, quando il protagonista si trova di fronte al dilemma senza scampo: compie un atto, che sa bene essere delittuoso, avvertendone nel contempo l’obbligatorietà.
Questa è la situazione per esempio di Oreste, che uccide la madre Clitennestra per vendicare la morte violenta del padre Agamennone, perpetrata da lei al ritorno del marito dalla guerra di Troia. Oreste si trova alla fine di una lunga catena di vendette familiari. Già il bisnonno Pelope era stato oggetto di un empio tentativo del padre Tantalo di mettere alla prova gli dei; aveva poi dovuto bandire i figli Atreo e Tieste per l’omicidio di un fratellastro. Impadronitisi del regno di Micene, i due fratelli, invece di alternarsi al trono secondo le intese, erano entrati in feroce lotta tra loro e Atreo aveva rinnovato l’empietà di Tantalo imbandendo a Tieste le carni dei suoi bambini (questa drammaticissima vicenda è oggetto di innumerevoli tragedie grache e latine). Nella generazione successiva il figlio di Atreo, Agamennone, aveva sacrificato alla sua ambizione di comandante supremo della spedizione contro Troia la figlia Ifigenia, immolata sull’altare per ottenere il favore dei venti alla flotta achea. Infine Clitennestra aveva tradito e poi ucciso o fatto uccidere il marito per vendicare la figlia. Ora Oreste, nel momento di consumare a sua volta la vendetta di figlio, sa bene di riuscirci solo a patto di compiere a sua volta un delitto, reso più empio dal vincolo familiare. La tragedia lo rappresenta nel momento, in cui prevede con chiarezza che, dopo l’atto, sarà perseguitato dai rimorsi, personificati dalle Erinni. Ma a lui pare di poter scegliere solo tra le Erinni del padre, se invendicato, e quelle della madre, se uccisa da lui.
I rimorsi non gli daranno tregua finché il giovane non si presenterà all’Areopago, il supremo consesso ateniese, che, per il prestigio della città, funziona quasi come un tribunale internazionale. Il tribunale lo assolve, ponendo così fine ad un’interminabile catena di delitti. Questo intervento riveste un alto significato sociale, perché sostituisce la legge alla vendetta, la giustizia statale al versamento di sangue.
Tuttavia la soluzione giuridica nasconde un altro conflitto possibile con la coscienza. La norma positiva non cambia i cuori e non determina la morale. Forse funziona in una società, che considera sempre la colpa come oggettiva, senza riguardo né per le intenzioni né per le situazioni né per la legge morale. Tuttavia anche nel mondo della tragedia antica si avverte il conflitto. Oreste ha una pausa di riflessione prima del matricidio, e si decide a compierlo solo quando è richiamato dall’obbligo del giuramento prestato per la punizione della donna. Anche Enea ha un momento di indecisione prima di uccidere Turno: è un indizio prezioso, benché non sviluppato e anzi subito spento alla vista del cinturone di Pallante.
Forse in quell’istante egli pensa a suo padre (evocato dalle preghiere di Turno), che con facilità aveva accordato il perdono suo e dei Troiani al greco Achemenide, che pure non aveva negato di essere un fedele di Ulisse, il nemicissimo dei Troiani e il massimo responsabile della caduta della loro città. Anchise era stato commosso dalle sofferenze di Achemenide e si era subito sentito vicino a lui nel dolore. Anche Turno, smesso il suo furore, si abbassa a implorare la vita o almeno la sepoltura, soffrendo nel profondo per il fallimento dei suoi progetti politici e matrimoniali.
A differenza di suo padre, Enea non si commuove. Forse, come Oreste, crede di dover obbedire al giuramento punitivo di vendetta e assumere su di sé il peso del dilemma tragico, che si rinnoverà nel fratricidio consumato alla fondazione Roma: Romolo uccide il gemello Remo solo perché ha violato il solco rituale. In questo dramma i Romani sentivano il peccato originale della loro gente, che si ripete nelle guerre civili stroncate o sopite solo dalla stanchezza o dalla violenza, non da una vera riconciliazione.
Con il suo atteggiamento però Enea si pone in una situazione di grave ritardo di fronte alle esigenze nuove già dei tempi di Virgilio e persino rispetto alla sostituzione della legge alla vendetta sanguinosa.
Eppure qualche spunto poteva venire al poeta anche dalla stessa tragedia greca, alla quale forse qui si ispira. Penso all’Antigone di Sofocle. Il dramma è incentrato sullo scontro fra la legge positiva, sostenuta dal tiranno Creonte, e la legge morale seguita da Antigone. La prima vieta la sepoltura di Polinice come nemico della patria, la seconda fa prevalere le ragioni della pietà e dell’amore fraterno. Alla fine tuttavia il tiranno si lascia convincere da Tiresia, l’interprete degli dei, dunque da un intervento superiore, a rinunciare alla condanna capitale per la violazione dell’editto. Il gesto è significativo anche se tardivo: Antigone lo ha preceduto suicidandosi, ma il suo sacrificio è condiviso dal fidanzato Emone e da Euridice, rispettivamente figlio e moglie di Creonte.
Così chi ha negato a tempo il perdono viene travolto dalla stessa rovina della sua vittima.
 

Giornale di Brescia, 20.3.2003.