Virgilio e Leopardi di fronte ai disastri naturali

L’area mediterranea non conosce i disastrosi fenomeni naturali, come il terremoto-maremoto che ha funestato recentemente il Sud-est asiatico. Tuttavia qualche cosa di simile, in scala ridottissima, è stata osservata anche da noi pochi anni fa, in seguito all’eruzione di uno dei vulcani minori, dai quali è purtroppo caratterizzata l’Italia del basso Tirreno. Probabilmente un fenomeno dello stesso tipo, ma di qualche dimensione, si è verificato secoli fa in occasione della più disastrosa eruzione, che la nostra storia ricordi, quella del Vesuvio dell’anno 79 d.C. Anche allora si trattò dell’eruzione di un vulcano vicino al mare, preceduta, accompagnata e seguita da violente scosse telluriche in un’area abbastanza vasta, epicentro fra Ercolano e Pompei. Delle conseguenze in termini di vittime danno testimonianza le risultanze archeologiche. Dei danni materiali suggeriscono indizi anche le notizie sugli interventi dell’imperatore Tito, il quale nominò una snella commissione di due ex consoli per gli aiuti alle popolazioni colpite e la ricostruzione. Meno informazioni si hanno sullo stato del mare, in mancanza di testimoni diretti o di storici affidabili. Il più ampio di questi ultimi è Cassio Dione, vissuto un secolo dopo l’evento. Il suo racconto è viziato da leggende e comunque centrato quasi esclusivamente sull’eruzione. Un limite analogo a questo secondo si riscontra nelle due lettere vesuviane di Plinio il Giovane a Tacito, che è l’unico testimonio oculare, sia pure periferico (da Miseno), ma che raccolse anche notizie di prima mano sulla morte dello zio, Plinio il Vecchio, dovuta proprio, benché indirettamente, alle esalazioni del Vesuvio. Tuttavia in queste lettere si sorprende qualche indizio intorno alle conseguenze, sul mare, dell’eruzione e dei terremoti connessi. Lo scrittore ha osservato che il mare si era ritirato, senza precisare se era poi tornato verso terra con maggior vigore. La costa risultò alterata per lungo tratto, in seguito all’azione combinata dei materiali eruttati, del sisma e delle onde. Lo zio, che era il comandante della base navale di Miseno, con la sua grossa quadriremi fu spinto a Stabia con vento favorevolissimo, dice il nipote. Ma di lì non poté ripartire con lo stesso mezzo a causa delle condizioni del mare. Eppure anche Stabia si trovava alla periferia del fenomeno, dal lato opposto di Miseno. A parte le reazioni individuali, in questo drammatico racconto non appaiono riflessioni generali, che superino la cronaca, cioè sulla condizione umana di fronte a certe manifestazioni della natura. Salvo una: si trovano ragioni di conforto, se non addirittura di gloria, morendo nel contesto di una catastrofe, che travolge terre bellissime e intere città e popolazioni. Invece proprio a considerazioni filosofiche diciassette secoli più tardi Giacomo Leopardi dedica La Ginestra, una delle sue poesie meno lette anche a scuola, non solo per il suo radicale pessimismo, ma anche per la sua lunghezza. Frequentando, nel suo ultimo soggiorno napoletano, la zona «del formidabil monte / sterminator Vesevo», il poeta non osserva la manifestazione di ostinata volontà di sopravvivenza, che ha ripopolato le adiacenze del monte fin dai primi tempi e nonostante le eruzioni succedutesi fino ai suoi giorni, nota invece la desolazione dei luoghi, nei quali può fiorire solo la ginestra , che si accontenta del deserto. Eppure, se si riesce a superare l’inaccettabile concezione della natura come «matrigna» empia e crudele, dovuta alla eccezionale sensibilità e alla dolorosa esperienza esistenziale di Leopardi, si possono cogliere nella poesia accenti di valore positivo. Se è vero che il genere umano può essere schiacciato da «un’onda di mar commossa», l’uomo «grande e forte» non è colui che si esalta per le «magnifiche sorti e progressive» (citazione polemica), ma colui che non aumenta le miserie «con gli odi e le ire / fraterne» e «tutti abbraccia con vero amor». Risuona dunque l’invito ai mortali a sentirsi solidali, «confederati». È una lezione ben giusta, se intesa entro i suoi corretti confini. Tanti secoli prima di Leopardi Virgilio aveva appunto limitato lo stesso ammonimento di fronte alle manifestazioni anomale e ingovernabili della natura. Anche per lui l’occasione è l’incontro drammatico con un vulcano in attività. Nell’ultimo episodio del terzo libro l’Eneide racconta l’arrivo delle navi di Enea sulle coste sicule orientali. È già buio e i Troiani passano una notte angosciosa alle pendici dell’Etna, turbati da lampi sinistri, tremori della terra, spaventosi boati, non sapendo neanche che si tratta di un vulcano. Il poeta epico, da buon narratore, traduce le sue concezioni in atti di personaggi. Nei pressi localizza Polifemo, il gigante monocolo e mostruoso di omerica memoria. Ma il Ciclope virgiliano è ben diverso da quello omerico, come Enea, che evita piamente lo scontro con le forze ignote, è diverso da Ulisse, che le affronta gratuitamente con arroganza. Il Polifemo virgiliano incarna l’aspetto mostruoso, che nella natura è eccezionale, esattamente come il vulcano: come il vulcano rumoreggia ma non sa parlare, scuote la terra, erutta (il sangue delle sue vittime). La paura di una notte dei Troiani è stata anche, per mesi, l’angoscia di Achemenide, un greco lì dimenticato da Ulisse e i suoi compagni. La prima parte dell’episodio dell’incontro dei Troiani con costui è costruita esattamente come quello col greco Sinone sulla spiaggia di Troia nel libro secondo, per rimarcare la differenza. Sinone si finge nemico personale di Ulisse per rendersi credibile ai Troiani e convincerli a introdurre entro le mura il fatale cavallo di legno, l’inganno preparato dal principe dei fraudolenti per la rovina della città. Achemenide non nega di essere compagno dell’Itacense, ma fa appello alla comune natura umana e alla sofferenza, che lo unisce ai nemici. Per questo i Troiani lo accolgono prontamente e insieme si salveranno. Quelli, che fino allora erano andati fuggendo i greci distruttori della loro patria, incominciano qui la loro riconciliazione con i nemici, la cultura dei quali costituirà nei secoli una delle componenti della civiltà romana.

Giornale di Brescia, 22.1.2005.