Voci d’amore coniugale nei poeti latini

Quando si parla, anche a scuola, di poesia latina d’amore, si pensa subito alle situazioni tipo Catullo e Lesbia o alle opere mondane di Ovidio. Già nel V sec. d.C. Sidonio Apollinare ne compilava un catalogo nel suo trasparentissimo latino: …versum Corinna cum suo Nasone (Ovidio) complevit, Lesbia cum Catullo, Caesennia cum Gaetulico, Argentaria cum Lucano, Cynthia cum Propertio, Delia cum Tibullo. Tra tutti campeggia per i risultati poetici il cantore di Sirmione, travolto da una passione tempestosa e distruttiva, dalla quale il giovane non riuscì mai a liberarsi: ne è testimone la bellissima preghiera agli dei del c.76. Ma la sua aspirazione a un legame stabile e regolare viene proiettata nel mito e in genere nella poesia: egli scrive epitalami per nozze più o meno immaginarie, ammira la fedeltà di Licinio Calvo alla memoria della moglie, trae occasione per il suo componimento più lungo dal matrimonio tra Teti e Peleo, tra una dea e un mortale (sublimazione di quello, che non poteva stringere con Lesbia, anche a lui apparsa la prima volta come candida diva) o per il c.66 dalla lunga fedeltà della regina Berenice per lo sposo lontano. Lo stesso Ovidio contro i maliziosi insegnamenti dell’Ars amatoria, ha steso nelle Heroides un catalogo immaginario di donne di eroi mitici, spesso trepidanti per l’amato lontano, al quale magari mandano consigli antieroici, come Laodamia al marito Protesilao combattente a Troia. E nel suo capolavoro, le Metamorfosi, c’è posto per la commovente storia di Filemone e Bauci, i due vecchietti che, unici nella zona, accolgono nella loro povera capanna gli dei in incognito e, quando i celesti visitatori offrono loro un premio per l’ospitalità, chiedono solo di morire insieme come avevano vissuto: quoniam concordes egimus annos, auferat hora duos eadem. Ma una prova dei sentimenti nascosti del poeta è anche nella descrizione dell’ultima notte a Roma prima della partenza per il lontano inospitale confino, dal quale non ritornerà: pianti e abbracci ripetuti con la moglie. La quale non approfittò dell’assenza del marito per badare ai suoi interessi personali, come pare abbia fatto Terenzia con Cicerone.
In maggiori difficoltà a tradurre in poesia ideali coniugali si trova il celibatario Virgilio (salvo qualche cenno, come il ritrattino della donna sollecita in un paragone dell’Eneide – 8,408-413. che assomiglia a un modello biblico). Nel suo poema il Mantovano fa girare il suo eroe per tutti porti del Mediterraneo senza concedergli le «distrazioni», che la leggenda, come forse il costume dei marinai, gli consentiva. Ma al quadretto familiare dell’eroe, che fugge da Troia col vecchio padre sulle spalle e il figlioletto per mano, manca la moglie Creusa. È vero che va, appena possibile, a cercarla fra le rovine della città, ma il paradossale è che allora gli appare il fantasma di lei, che lo incita a fuggire e gli annuncia una nuova sposa in Italia. Così volevano la tradizione e la narratologia insieme: che l’eroe venuto da lontano impalmasse la figlia del re per succedergli sul trono. Nonostante gli antichi ricordi di eroine delle origini e la presenza letteraria di donne in guerra, come Camilla (ma sul tipo delle Amazzoni), mancava ancora una piena rivalutazione del ruolo coniugale.
Di questa però si avrà un buon saggio alla fine del primo secolo d.C. nell’opera di Plinio il Giovane, che, considerando in più lettere le vicende familiari e politiche delle mogli di alcuni personaggi dell’opposizione al dispotismo condannati a morte o all’esilio, sostiene la tesi che le virtù pubbliche nascono da quelle private, come l’assistenza a malati contagiosi o la stoica accettazione solitaria di un lutto materno per non gravarne il marito a sua volta infermo. Certo Plinio non è un poeta, ma, pur facendo la debita tara alla sua tendenza al sentimentalismo e alle smancerie, alcune lettere scritte alla moglie, in occasione di una lontananza per malattia di lei e per gli impegni pubblici di lui, sfiorano la poesia. Si tenga conto che sono lettere nate da occasioni reali, ma riviste e ordinate, come altre di diverso tipo, per la pubblicazione: lo scrittore non ha nessuna difficoltà a esternare i propri moti dell’animo, il bisogno della presenza di lei e il senso doloroso della lontananza, la commozione per le sue premure, la rilettura delle sue lettere, la forza del proprio amore (citerò per tutte la lettera quinta del libro settimo). Purtroppo Plinio non potè godere a lungo della sua felice unione, come l’amico Macrino (che era vissuto trentanove anni con la moglie senza uno screzio). Infatti la morte lo colse nel pieno dell’età. Il destino ha voluto che l’ultima lettera dell’epistolario di Plinio, allora in missione in Asia Minore, sia indirizzata all’imperatore per chiedergli l’autorizzazione per la moglie a valersi del sistema statale di trasporti per accorrere più sollecitamente in Italia in occasione di un lutto familiare. E qui si ammirano insieme la premura per lei e l’onestà del funzionario, che non vuole abusare della sua carica per ragioni private.
 

Giornale di Brescia 14.12.2003.