11 febbraio 1929, quella sera in casa di Giovanni Battista Montini    

I In Italia dopo il 1922 il fascismo si aprì la via al potere, in Germania Hitler divenne cancelliere nel gennaio del 1933. In due nazioni incapaci di superare il trauma del dopoguerra prendevano così il sopravvento due totalitarismi, che traevano motivo di giustificazione dalla conclamata volontà di opporsi a un altro totalitarismo, quello che nel 1917 si era insediato con Lenin in Russia; ma le somiglianze strutturali fra i tre regimi di oppressione prevalevano nettamente sulla diversità dei rispettivi miti ideologici. In Italia, dopo laboriose trattative, il regime fascista conseguì un risultato di grande rilevanza quando l’11 febbraio del 1929 fu siglato il Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Gli storici hanno scritto a lungo del Concordato, ma pochissimi sanno che la sera stessa in cui Mussolini e il cardinal Gasparri avevano firmato l’accordo, una riunione si tenne a Roma, nell’appartamento in cui abitava il sacerdote bresciano Giovanni Battista Montini – allora “minutante” presso la Segreteria di Stato del Vaticano – in via delle Terme Deciane, sull’Aventino. A quella riunione erano presenti autorevoli amici desiderosi di ritrovarsi insieme e di scambiare i loro pareri sulla stipulazione dei Patti Lateranensi. C’erano, tra gli altri, il direttore de “L’Osservatore Romano” Giuseppe Dalla Torre, Giovanni Battista Montini, Alcide De Gasperi, padre Giulio Bevilacqua; e un giovane professore di storia e filosofia, anch’egli bresciano, Mario Bendiscioli.
Sulla riunione dell’11 febbraio 1929, nell’abitazione di Montini, abbiamo il racconto di un testimone diretto, Giuseppe Cassano, che era iscritto alla Federazione Universitari Cattolici Italiani, la Fuci, movimento di cui Montini era l’assistente nazionale e il vero animatore. Il giovane studente di Taranto, che frequentava la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, era in quel tempo alloggiato provvisoriamente in una stanza dell’appartamento in cui abitava Montini. Il fucino è molto attento, nel suo racconto, a cogliere le sfumature negli interventi dei partecipanti a quella singolarissima riunione. Scrive testualmente: «Io mi trovavo lì solo per caso, come inquilino insomma. La conversazione fu vivacissima: non direi che ne nascessero contrasti radicali veri e propri, dato che ognuno si rendeva conto degli aspetti positivi e negativi che l’avvenimento [della Conciliazione] presentava. De Gasperi ne vedeva prevalentemente il lato negativo, però lo stesso padre Bevilacqua, che naturalmente non amava affatto il prestigio che ne sarebbe derivato al regime, si rendeva conto che era un fatto storico che finalmente, sia pure in circostanze disgraziatissime, avrebbe potuto togliere di mezzo il più forte argomento per l’accusa grossolana di temporalismo che si continuava a rivolgere contro la S. Sede e tutte le sue istituzioni ed organizzazioni, ed anche contro noi cattolici, singolarmente scherniti come “paparealisti”… Naturalmente si prevedeva che non sarebbe stato mai più perdonato ai cattolici italiani di aver utilizzato il regime autoritario per imporre al popolo italiano un patto che si diceva vantaggioso per la Chiesa». Il documento a cui mi riferisco è riportato col titolo Testimonianze di antichi studenti di Mons. G. B. Montini: Giuseppe Cassano, nel “Notiziario dell’Istituto Paolo VI”, 1982, n. 4, pp. 67-68.
A sua volta Mario Bendiscioli – che, come si è detto, era presente a quella riunione – conferma le annotazioni scritte di Cassano in una vivace intervista e le fa proprie non senza aver ribadito: «Ho un ricordo assai vivo di sentimenti e giudizi nei riguardi del Trattato e del Concordato» (Un percorso di esperienze e di studio nella cristianità del ‘900, a cura di Massimo Giuliani, Morcelliana, Brescia 1994, p. 32). Cassano e Bendiscioli ricordano che Montini quella sera fu di un «riserbo estremo», ma che non rimase in silenzio: «Con la sua consueta chiarezza espositiva, egli sottolineava gli aspetti negativi e gli aspetti positivi del fatto, che collocava nella storia più che nella cronaca e negli interessi del momento». Montini si augurava che la Conciliazione ponesse fine ai due integralismi, quello laicista e quello clericale, che dal 1870 avevano profondamente turbato la vita religiosa e politica del Paese. Le riserve sulla Conciliazione egli le aveva espresse prima della sua stipulazione scrivendo ai suoi di Brescia, in data 19 gennaio 1929: «Se la libertà del Papa non è garantita dalla forte libera fede del popolo, e specialmente di quello italiano, quale territorio e quale trattato lo potrà?» (Lettere ai familiari 1919 – 1943, Edizioni Studium, Brescia-Roma 1986, vol II, p. 583). E su “Azione fucina” del 24 febbraio 1929 risuonava forte il suo appello ai cattolici più consapevoli a essere desti, «a non aver più fiducia per il trionfo della verità nell’aiuto delle circostanze esteriori che nell’intima natura della verità stessa».
Nella Chiesa italiana e nella stampa cattolica troppe voci si levarono allora a esaltare il carattere confessionale di “Stato cattolico” che i Patti Lateranensi avrebbero impresso al nostro Paese e generale fu l’esultanza. A ridosso dell’11 febbraio, in vista delle elezioni del 24 marzo di quello stesso anno, per il rinnovo della Camera dei deputati composta ormai solo di fascisti, l’Azione Cattolica per bocca del suo presidente e padre Enrico Rosa, direttore de “La Civiltà Cattolica” e intimo di Pio XI, abbandonando l’apoliticità di un tempo, scesero apertamente in campo, e in modo piuttosto massiccio, perché si votasse a favore del governo che aveva sottoscritto il Concordato. Fu allora insistentemente ripetuto che il voto dei cattolici al plebiscito fascista non significava accettazione a priori di tutti gli atti del regime, ma voleva avere il valore di un atto religioso in quanto riconoscimento positivo dell’avvenuta conciliazione tra Stato e Chiesa. Non trascorse, però, molto tempo e si constatò quanto poco gli interessi propriamente religiosi della Chiesa fossero favoriti da quel patto e con quale spirito Mussolini l’avesse voluto e intendesse applicarlo.

II Nel discorso alla Camera del 13 maggio 1929 Mussolini dichiarò: «Nello Stato la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera… La religione cristiana è nata nella Palestina, ma è diventata cattolica a Roma. Se fosse rimasta nella Palestina, molto probabilmente sarebbe stata una delle tante sette che fiorivano in quell’ambiente arroventato, come ad esempio quelle degli Esseni e dei Terapeuti, e molto probabilmente si sarebbe spenta, senza lasciare traccia di sé… Non abbiamo risuscitato il potere temporale dei Papi: lo abbiamo sepolto». Arturo Carlo Jemolo cita il testo ufficiale del discorso di Mussolini, ma precisa che i giornali del 14 maggio recavano un’altra versione, quella originale, dell’ultima frase: «gli abbiamo lasciato tanto territorio quanto bastasse per seppellirne il cadavere» (A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1948, p. 641).
Pio XI replicò a Mussolini indirizzando una lettera, resa pubblica il 30 maggio, al cardinale Gasparri. In essa si duole «delle parole ed espressioni dure, crude, drastiche» usate dal capo del governo e soprattutto delle sue «espressioni ereticali e peggio che ereticali sulla essenza stessa del Cristianesimo e del Cattolicesimo». La risposta del papa era ferma e abilissima, ma nella conclusione veniva ribadito che, malgrado le intemperanze di linguaggio e l’assenza di autocontrollo di Mussolini, la sostanza degli accordi sottoscritti non poteva minimamente essere scalfita da polemiche e provocazioni di quel genere: «Gli avvenimenti dell’11 febbraio avevano provocato una così universale esplosione di serena gioia, che poche eguali si ebbe nella storia». Trent’anni dopo Padre Bevilacqua scriveva cose del tutto opposte: «Nel lontano febbraio del ‘29 il gelo eccezionale segnato dai barometri si dimostrò ancora inadeguato ad esprimere il gelo che invase gli spiriti all’annuncio, inatteso e clamoroso, dei conclusi Patti Lateranensi. Né euforie di sfere ufficiali, né apologie di stampa imbavagliata, né un clima di viltà o di dimissione, né la messa in moto di tutte le tecniche della degradazione valsero a ridurre o a scalfire un’opposizione che coalizzava imponenti forze di provenienza e finalità contrastanti… La grande maggioranza dei cattolici non riusciva a rendersi ragione come la Chiesa avesse potuto venire a patti con una forza dimostratasi anticristiana in sé, nel fine come nei mezzi» (I Patti Lateranensi dopo trent’anni, in “Humanitas” 1959, n. 3, pp. 182-190). A questo proposito lo storico Giacomo Martina, gesuita, nella sua appendice storica al volume di Alcide De Gasperi Lettere sul Concordato (Morcelliana, Brescia 1970) ha però giustamente osservato: «Se non si può storicamente accettare l’affermazione del padre oratoriano, secondo cui l’opposizione ai Patti raccogliesse la maggioranza dei cattolici, resta il fatto di un’opposizione amara e irriducibile di una minoranza, le cui voci, come spesso avviene nella storia, poco o nulla avvertite allora dall’opinione pubblica, avrebbero avuto in seguito un grande rilievo e avrebbero tracciato degli orientamenti da cui ormai nessuno può prescindere»
Nel giugno di quello stesso 1929 Montini, in una lettera a Bendiscioli, in cui esprimeva giudizi sui libri che aveva esaminato per la Morcelliana, nella parte finale confidava all’amico la profonda amarezza del suo animo, con evidentissimo riferimento all’insultante discorso sul Concordato tenuto da Mussolini alla Camera: «Ho sofferto (ma non in salute) per queste ultime vicende indici della miseria spirituale in cui versa il nostro Paese; ma ho avuto il conforto di essere confermato nell’idea che la nostra politica ha da essere quella della fede, della verità e della giustizia, più su e prima che contro l’interesse del momento».
Il biennio successivo alla Conciliazione, 1929-1931, fu caratterizzato da gravi tensioni, turbolenze e persino da ordini di chiusura dei circoli di Azione cattolica; ma dopo la crisi della primavera del 1931 – il papa vi intervenne di persona con la lettera del 26 aprile al cardinale Schuster, arcivescovo di Milano – tutto rientrò nell’ordine ed ebbe inizio la fase dell’«idillio» tra la Chiesa Cattolica e il fascismo. Una fase che durò dal 1931 al 1936. Quelli furono gli “anni del consenso” massiccio al regime: gli anni in cui Mussolini si fece difensore dell’Austria contro l’annessionismo hitleriano, riuscì a compattare la nazione nella campagna d’Etiopia, presentata come una crociata, e giocò un ruolo da protagonista nella guerra di Spagna a diretto sostegno di Franco. Ma la disillusione non tardò. Pio XI fu particolarmente ferito dalla visita trionfale di Hitler a Roma, in cui nel giorno della Santa Croce era stata inalberata «l’insegna di un’altra croce, che non è la Croce di Cristo». La rottura avvenne nel novembre del 1938, quando il cedimento progressivo di Mussolini a Hitler obbligò la coscienza cattolica a opporsi all’introduzione delle leggi antisemitiche nella legislazione italiana. La tensione aumentava rapidamente e lo scontro appariva ormai inevitabile. Vi era una certa “paurosa aspettazione” per il discorso che il pontefice avrebbe pronunciato l’11 febbraio 1939, nel decimo anniversario del Concordato. Ma all’alba del 10 febbraio Pio XI morì. Probabilmente il giorno seguente si sarebbe avuto il grande spettacolo di un papa che avrebbe confessato di aver errato nel suo giudizio su un partito e sulla sua ideologia. E Pio XI era uomo capace di sfidare Mussolini nel nome della legge cristiana.
Cadde allora l’illusione di “cattolicizzare il fascismo” e, anzi, cominciò il distanziamento nei suoi confronti, prima, e poi un processo di vero e proprio rigetto in nome di valori su cui non si può mai transigere se non si vogliono rinnegare le ragioni stesse dell’essere cristiani. Fu quello il preannuncio, anzi il primo inizio, della resistenza come “rivolta morale e religiosa”, che dopo l’8 settembre ’43 divenne stato d’animo largamente condiviso. La resistenza come “rivolta morale e religiosa” non è certamente tutta la resistenza – che fu anche lotta politica ed evento militare, guerra all’occupante e guerra civile contro i collaborazionisti della Repubblica di Salò – ma ne costituì l’anima, l’aspetto più alto e ricco di futuro, un insieme di principi e aspirazioni a cui si sarebbe ispirata la Costituzione repubblicana.

Giornale di Brescia, 5.2.2001 e 6.2.2001.