America Latina e lotta non violenta

Vengo da un continente che vive la violenza, ma anche la speranza. I popoli, torchiati dalla violenza, cercano di sviluppare i loro cammini di pace e di liberazione. Chiediamoci innanzi tutto quali sono i cammini della pace. La pace non è un problema di un anno, ma qualcosa che si costruisce giorno dopo giorno, un cammino di ricerca, una riscoperta della dignità della persona e dei diritti dell’uomo. C’è un modo abbastanza diffuso di pensare la pace come assenza di conflitti. Da parte di molti la pace viene confusa con la passività, mentre nessun’altra cosa è estranea alla pace come la passività. Benito Pablo Juárez, il grande lottatore messicano, disse: “La pace ha inizio con il rispetto degli altri”. Questa definizione così semplice, ma così concreta, ci indica il cammino della pace. Non possiamo intendere la pace come assenza di conflitti, ma come una dinamica, permanente capacità di comporli e di prevenirli. La pace che vogliamo costruire deve basarsi, infatti, sulla verità e sulla giustizia; altrimenti non esiste. Dinanzi ai nostri occhi si presenta oggi la situazione del mondo: gli arsenali nucleari; i gravissimi problemi del Sud Africa, dell’Afghanistan, del Centro America; l’usura capitalistica che ha moltiplicato l’indebitamento dei Paesi nel Terzo Mondo in una misura così palesemente immorale e ingiusta; il dilagare, in tanti Stati, dei regimi dittatoriali. Dobbiamo allora chiederci com’è possibile in una situazione del genere costruire la pace. Eppure è di questo impegno che ognuno deve farsi carico. La pace, infatti, non è patrimonio di nessuno, bensì dovere, diritto e patrimonio di tutti.
Qualche mese fa ho tenuto una serie di conferenze nelle università degli Stati Uniti soprattutto sulla situazione del Centro America e sulla teologia della liberazione. Negli Stati Uniti i bambini nella scuola cantano una canzone molto bella, le cui parole hanno un senso molto profondo. Questa canzone dice: “Vogliamo libertà e giustizia per tutti”. Allora io ponevo un interrogativo agli abitanti degli Stati Uniti: chi sono “tutti” e se fra i tutti ci siamo anche noi, latino-americani. Anche i paesi del Terzo Mondo hanno questo diritto, però non si vuole riconoscere il diritto alla giustizia e alla libertà per tutti. Per questo noi lottiamo per la nostra liberazione. Non vogliamo parlare della pace in astratto. La pace si rappresenta molto spesso con il bellissimo simbolo della colomba bianca; però se un affamato vede volare una colomba bianca, ha diritto di impallinarla e di mangiarsela.
Si vive in tante zone del mondo una situazione di ingiustizia strutturale, che dobbiamo cambiare, che occorre rimuovere. In America Latina e nel Terzo Mondo i bambini muoiono di fame e spesso le popolazioni indigene sono massacrate, perseguitate. Prima di venire in Italia io sono stato in Brasile per appoggiare la lotta dei contadini che non hanno terra. Ci sono molti morti tra loro solo perché rivendicano il diritto alla terra. Alcuni anni fa doni Helder Camara ed io abbiamo accompagnato nella loro marcia oltre quindicimila contadini che rivendicavano pacificamente il loro diritto alla terra. Essi innalzavano un grande cartello con la scritta: “Chi ha comprato la terra da Dio?” Perché la terra è un bene che Dio ha dato a tutti in forma uguale e non l’ha certo riservata in modo esclusivo ai grandi latifondisti. I beni devono essere distribuiti in forma giusta a tutti. Quando vediamo situazioni in cui i ricchi diventano sempre più ricchi alle spalle dei poveri che diventano sempre più poveri, allora noi ci ribelliamo e lottiamo per la nostra liberazione. La liberazione non è qualcosa di astratto, ma si realizza in concreto giorno dopo giorno nella nostra vita se operiamo congiuntamente il cambio delle strutture e il rinnovamento delle coscienze. Non possiamo tacere i tanti motivi di preoccupazione che desta in noi anche in questo momento la situazione del Centro America. Il Nicaragua non ha ancora il regime di libertà a cui pure aspirava e la minaccia di un’aggressione serve a legittimare una prassi di governo che cancella le libertà democratiche. Nel Guatemala è in corso un vero e proprio genocidio in cui si sta tentando di distruggere i discendenti degli antichi Maya. Né si può dimenticare che nell’Honduras, il paese più povero di tutto il Centro America, dove il popolo soffre la fame, sono stanziati ben quattro eserciti. Esso è, pertanto, a tutti gli effetti, un paese occupato da truppe straniere. Il Salvador si trascina nella guerra civile da oltre sei anni e ha conosciuto di recente l’immane tragedia di uno spaventoso terremoto. Le cose non migliorano se parliamo del Cono Sud del Sud America. Non possiamo dimenticare la situazione dell’Uruguay, della Bolivia, del Brasile. Dittature sanguinose detengono il potere nel Cile e nel Paraguay. Noi argentini solo da poco tempo siamo entrati in un processo costituzionale e democratico e durante questi ultimi anni la lotta contro la dittatura è stata molto dura. Molti bambini sono stati sequestrati e sono scomparsi e ancor più uomini e donne. Quasi quattrocento tra i desaparecidos dell’Argentina sono italiani o discendenti di italiani. E adesso stiamo cercando – e non sarà affatto un’impresa facile – che si arrivi a giudicare i responsabili di questo genocidio. L’atto di porre la scheda dentro un’urna, per quanto importante, non è sufficiente a garantire la democrazia in un paese. L’Argentina conquisterà la democrazia se riuscirà a rendere organica e ordinata la partecipazione del popolo e se la presa di coscienza da parte del popolo dei suoi compiti eviterà la trappola dell’estremismo demagogico.
Ci sono delle persone, dei giovani che di fronte a queste situazioni di ingiustizia hanno optato per la lotta armata; così nacque la guerriglia in molti Paesi dell’America Latina. Noi li comprendiamo, però conosciamo anche le dolorosissime conseguenze di questo tipo di scelta. Occorre conoscere quanto grande sia la sofferenza dei popoli oppressi da regimi criminali. Io ricordo le parole di un martire della mia terra, di un vescovo assassinato dalla dittatura: mons. Enrico Angelelli. “Io non posso – diceva Monsignor Angelelli – predicare la rassegnazione. Dio non vuole uomini e donne rassegnati. Quello che vuole Dio sono uomini e donne che lottano pacificamente per la vita, per la libertà, non per finire in una nuova schiavitù”.
Molte volte si parla di violenza solo quando qualcuno ha un’arma tra le mani; vi è, però una violenza strutturale che genera fame, miseria, sfruttamento, emarginazione del popolo. I popoli non scelgono la violenza; essi sono stati e sono sommersi dalla violenza. Anche l’insopportabile fardello del debito estero è una violenza contro il diritto dei popoli alla sopravvivenza. Violenza è costruire armi: produrre un’arma è già implicitamente offrire uno strumento di morte e metterlo nelle mani di chi la userà per uccidere qualche persona. Non si può fare a meno di chiedersi perché mai uno scienziato, un tecnico debbano usare il loro eccezionale talento per costruire strumenti di morte. Così facendo, essi diventano agenti di morte. Si specializzano nelle scienze e nelle tecniche nelle università più progredite, ma quale coscienza hanno dell’umanità e dei loro obblighi verso di essa? Come possono vendere il loro lavoro, la loro vita, la loro intelligenza alla morte? Dobbiamo avere il coraggio di rompere questa spirale di violenza, che ogni giorno di più sta portando il mondo a riporre la speranza della sua stessa sopravvivenza solo in un equilibrio fondato sulla paura, sul terrore e sulla rassegnazione.
Dobbiamo sviluppare una pedagogia della pace. Occorre formare uomini e donne per la libertà e non per la schiavitù. Ogni volta che si parla di violenza e si parla di non-violenza, ci si chiede qual è l’efficacia della non-violenza, se è veramente efficace la non-violenza per cambiare le strutture di ingiustizia. L’umanità non deve rispondere alla violenza con la violenza, proprio perché la violenza ha cambiato e imbarbarito spaventosamente la vita di tutti. La prospettiva dell’olocausto nucleare angoscia voi europei. Noi dell’America Latina sperimentiamo l’angoscia in un’altra prospettiva, quella della sopravvivenza giornaliera. Il problema quindi della sopravvivenza della razza umana si pone per l’Europa non meno che per l’America Latina, anche se in modi diversi. L’America Latina non è staccata dall’Europa, dall’Africa e dall’Asia, perché tutti apparteniamo alla grande famiglia umana e la lotta per la pace non ha frontiere, consistendo essa in primo luogo nella difesa dei diritti dei popoli alla giustizia sociale, alla libertà di coscienza, a un’esistenza libera e degna.
Noi in America Latina insieme ad altri gruppi abbiamo sviluppato la lotta non-violenta. Abbiamo tradotto questa metodologia nella difesa dei diritti dell’uomo e nella difesa dei diritti dei popoli. E’ una forma di vita, un’azione permanente per rompere i meccanismi di dominazione: affrontando la dittatura attraverso un’azione popolare, rifiutiamo di farci degradare nel nostro intimo dai metodi e dalla mentalità della dittatura contro cui leviamo la nostra voce. Animati da questo spirito, noi tendiamo a trasformare tutto: ciò che è economico, sociale, culturale, educativo e anche le strutture, giuridiche. Occorre inoltre una corretta assunzione degli aspetti tecnologici nei Paesi del sottosviluppo. Gandhi era un uomo che capiva molto bene verso quali mete occorreva indirizzare l’ansia di liberazione dei popoli e unì nella sua persona diversi aspetti: sociale, economico, culturale, spirituale, ma soprattutto l’aspetto etico, così facilmente dimenticato dai politici. Gandhi è stato una grande anima, ma anche un sommo politico. Non dobbiamo avere paura delle parole, perché ogni azione con, per e tra gli nomini è anche politici. In questo senso tutti facciamo politica. Io mi spavento quindi quando mi dicono che la Chiesa non deve fare politica; la Chiesa ha sempre fatto politica, quella buona e l’altra. E’ il modo in cui la fa che conta. La nostra azione non-violenta in America Latina indica chiaramente dei traguardi politici. Gandhi, quando parlava di liberazione, diceva che non era sufficiente scacciare gli inglesi dall’India. L’indipendenza era un passo importante, ma non il definitivo. Egli guardava a un significato molto più profondo della liberazione, quando diceva che la liberazione dell’India si sarebbe effettuata solo quando l’ultimo dei paria sarebbe potuto stare insieme al primo dei bramini. In Argentina si è sviluppata tutta un’azione sociale e politica al seguito delle organizzazioni non-violente. La stessa cosa si è verificata in Uruguay e così pure in Cile, attraverso la resistenza notiviolenta contro la dittatura di Pinochet. Ci sono promettenti inizi di una reazione del popolo del Paraguay all’insostenibile stato di cose che tiene nei ceppi quel paese. In Centro America padre Miguel Descoto, della chiesa nicaraguense, sta svolgendo da parecchio tempo un’azione permanente, non-violenta, per arrivare ad un’intesa di pace tra i paesi di quella tormentata parte del mondo. Io sono stato con il padre Miguel Descoto in Nicaragua e di lì abbiamo lanciato il messaggio della rivolta evangelica.
E’ necessario sviluppare una metodologia di azione non-violenta, una pedagogia della pace, per arrivare a costruire una società senza violenza. Lo spirito della lotta non-violenta si sta espandendo in tutta l’America Latina e anima la lotta dei contadini per la terra, l’azione sociale, in difesa dei più diseredati, le associazioni operaie, le organizzazioni popolari per i diritti dell’uomo. L’azione non-violenta sta crescendo in tutto il continente. Il problema a cui vogliamo dare soluzione è enorme e il nemico da sconfiggere è un mostro potente. Qualche anno fa, a chi mi chiedeva com’è possibile affrontare un potere incomparabilmente più forte, risposi in modo molto semplice: con l’apologo dell’elefante e delle formiche. La formica è molto piccola ed è facile immaginare che cosa succede se l’elefante mette il piede sopra la formica. Però ci sono più formiche che elefanti. E’ necessario organizzarsi, perché i popoli possano scoprire la loro forza. In quest’ottica va visto il rapporto esistente fra il potere che opprime e gli oppressi che cercano la loro liberazione. Quando lavoriamo con gli indigeni nei quartieri popolari, utilizziamo una metodologia molto semplice, nello spirito di quella pedagogia che è stata felicemente espressa da Paulo Freire. Uno è educatore, quando educa; e uno si educa, nell’atto di educare. Siamo educati insieme e impariamo insieme. La nostra preoccupazione fondamentale è quella di suscitare nella povera gente la passione di un impegno comune, che diventi esso stesso, scuola di fraternità. Noi parliamo questo tipo di linguaggio: il pollice da solo non può sollevare neanche un foglio, ma ha bisogno dell’indice. Tutti e due insieme possono fare qualcosa; però, se voglio fare uno sforzo maggiore, ho bisogno di tutte le altre dita, perché unite insieme fanno la forza. Se voglio compiere uno sforzo ancora maggiore, ho bisogno dell’altra mano per sommare una forza all’altra. Se dobbiamo fare delle cose ancora più grandi, come cambiare le strutture, sviluppare un’azione per una vita migliore a favore del popolo, ho bisogno di chiedere a ciascuno di voi che abbiate il coraggio di mettere insieme le vostre mani alle mie. Questo ha un significato molto profondo: si chiama solidarietà. Affinché questo diventi effettivo abbiamo bisogno di riflettere, pensare bene per non fallire. Vi è circolarità tra pensiero e azione e reciproco arricchimento. Se i popoli scoprono la forza che si può sprigionare da un immenso sforzo di solidarietà, allora potranno superare i sistemi di oppressione; fino a quando noi non avremo il coraggio di essere uniti nella lotta non-violenta, sarà difficile raggiungere lo scopo. Molte volte mi succede, girando il mondo, di sentirmi chiedere quale sarà il futuro dell’America Latina quale sarà il futuro del mondo. Io non sono certo un indovino. Ma so che il futuro si costruisce con il coraggio che abbiamo nel costruire il presente. Guardiamo oggi la situazione dei nostri popoli e decidiamo allora che futuro vogliamo. lo posso parlare della prospettiva mia come cristiano dell’America Latina. Però ognuno di voi deve tradurre la mia testimonianza nella dimensione del suo umanesimo e della sua spiritualità. Ognuno di voi deve avere il coraggio di impegnarsi per costruire una società più giusta e più umana per tutti.
Vi ho parlato a cuore aperto non solo delle mie convinzioni, ma anche delle esperienze personali. Voglio qui aggiungere un’aperta confessione: la lotta per la pace nasce nel mio cuore, oggi come ieri, dal comprendere il dinamismo meraviglioso e la forza inesauribilmente innovatrice del Vangelo. Non entrai a lavorare al servizio della pace per un interesse politico, ma in obbedienza a un imperativo della mia coscienza cristiana. Quando io e i miei amici cominciammo ad assumerci le nostre concrete responsabilità di fronte alla situazione del nostro popolo, la scoperta delle sofferenze della povera gente ci fece comprendere ancora meglio quello che il Vangelo esige da noi. Fu questa viva percezione che segnò il cammino mio e di tanti altri. Le figure che hanno ispirato la mia azione sono state fondamentalmente tre: uno statunitense, Thomas Merton; un francese, Charles de Foucauld; un indiano, Gandhi. C’è però una persona, un maestro e un amico che mi ha seguito fin dall’inizio con profonda simpatia, il sudamericano dom Helder Camara. E così, a poco a poco, in collegamento con altra gente, come monsignor Fragoso in Brasile e Proaño in Ecuador, sono nate molte iniziative ed un cammino comune si è compiuto. Oggi possiamo dire che la lotta non-violenta s’è fatta strada nell’America Latina. Abbiamo insegnato ai poveri a lottare con il metodo del Vangelo, suscitando la passione della solidarietà fraterna nelle comunità indigene, tra i contadini, tra i giovani e gli operai. L’assegnazione del Nobel alla mia povera persona è il riconoscimento prestigioso di un’opera che è di molti. Io sono un argentino, un cittadino del mondo, un cristiano che non vuole arrendersi all’iniquità, all’oppressione dell’uomo da parte di altri uomini. Ma come me e meglio di me operino nello stesso senso in ogni angolo del mondo tanti altri uomini La grande battaglia dei diritti dell’uomo conseguirà la sua vittoria se i più, se la stragrande maggioranza non se ne starà in disparte, a guardare dalla finestra. A costoro ci rivolgiamo con animo fraterno e diciamo: abbiate il coraggio di osare anche voi, unitevi all’immenso esercito degli oppressi, non siate indifferenti di fronte a coloro che soffrono ingiustamente. Dobbiamo fare qui ed ora tutto quello che la coscienza ci domanda, affinché non sia mai troppo tardi per nessun essere umano.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 22.10.1986.