Auschwitz, le idee che hanno aperto la via all’orrore

I-Un’idea perversa di nazione, la crisi morale dell’Europa e la perdita del concetto di famiglia umana

Il genocidio degli ebrei in Europa negli anni della seconda guerra mondiale, tra il 1939 e il 1945, supera ogni altro che si sia verificato nella storia e fa di Auschwitz qualcosa di unico. Il calcolo più cauto delle vittime, confermato dalle stesse fonti naziste, è il seguente: furono eliminati nei campi di sterminio 4 milioni di ebrei e altri 2 furono fucilati in Polonia e in territorio sovietico, o perirono di fame e di malattie nei ghetti dell’Europa Orientale. La «pulizia etnica» hitleriana cancellò due terzi della popolazione ebraica europea, cioè un terzo di quella mondiale. Né si deve dimenticare che al conto occorre aggiungere 5 milioni di non ebrei.
L’interrogativo di fondo che si affaccia, quando ci si avvia a considerare quell’orrore immane che designiamo con la parola «Auschwitz», è: com’è stato possibile che in un Paese di tradizioni religiose e culturali come la Germania sia giunto ad imporsi vittoriosamente, con la seduzione e con il terrore, il regime dittatoriale che ha gettato il mondo nella seconda guerra mondiale e che ha prodotto l’inferno di Auschwitz? Vi sono nella storia di quel Paese premesse politiche che, in qualche modo, offrirono all’hitlerismo un «terreno di coltura»?
Nel nostro Risorgimento la lotta per le libertà costituzionali precedette ed accompagnò la lotta per l’indipendenza e l’etica cristiana costituì la premessa – ora esplicita, ora sottaciuta – per collegare nazione e umanità, rivendicazione dei propri diritti e riconoscimento dei diritti degli altri. Così fu per Santorre di Santarosa e per Mazzini, per Cesare Balbo e Cavour, Gioberti, Rosmini.
Lo slargamento dello statuto carloalbertino in regime parlamentare fu opera geniale di Cavour e costituì il suo lascito, la via aperta ad ogni sviluppo progressivo; ciò rese possibile nel nostro Paese, pur nella stretta di difficoltà gravissime di ogni tipo, un sistema politico liberale prima e democratico poi, che trovò sempre in sé, fino alla prima guerra mondiale, la forza di precludere ogni sbocco autoritario.
Altrove non fu così. In Germania il fallimento della rivoluzione del 1848 ebbe come conseguenza la prussianizzazione della politica di unificazione nazionale e il trionfo della «rivoluzione dall’alto» di Bismarck. La borghesia tedesca capitolò dinanzi alla famosa asserzione bismarckiana che i grandi problemi dell’epoca non si sarebbero risolti con i discorsi o con le decisioni delle maggioranze parlamentari, ma col ferro e col sangue. Sotto l’impressione dei successi bismarckiani, vasti strati del popolo tedesco accettarono la concezione cinica della Realpolitik che si appellava solo alla forza e non al diritto e alla morale. Disprezzando la rivoluzione liberale, la democrazia e il movimento socialista, Bismarck fece entrare nell’anima tedesca il duplice veleno dell’incondizionata esaltazione dell’autorità statale e della politica di potenza. «In queste condizioni – ha scritto Karl D. Bracher – Treitschke poteva affermare con grande successo che l’individuo… non possedeva alcun diritto di opporsi all’autorità statale, anche quando questa veniva sentita come immorale» (“La dittatura tedesca”, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1983, p. 36).

Una volta individuati alcuni presupposti, o se si vuole «nessi evolutivi», della politica antidemocratica in Germania, dobbiamo stare attenti, però, a non trasformarli meccanicamente in una sorta di «predestinazione»: non era scritto, infatti, in nessun luogo che il Reich fondato da Bismarck sarebbe ignobilmente sfociato nello Stato razziale di Hitler. E, d’altra parte, bisogna riconoscere che la crisi politica e morale della Germania, pur avendo una sua tragica peculiarità, va, anch’essa, inquadrata nella crisi politica e morale dell’Europa. Ebbene, una delle espressioni più rivelatrici della crisi spirituale europea è costituita dalla perversione dell’idea di nazione. E in questo processo di perversione il XX secolo è andato ben oltre i fattori negativi che rendevano pericolose alcune teorizzazioni precedenti. La confusione delle idee e il disorientamento degli spiriti sono giunti al punto di identificare coscienza nazionale e nazionalismo, mentre bisogna opporre fermamente, con estremo rigore, patriottismo e nazionalismo, essendo questo la corruzione dei valori propri di quello e non certo la loro affermazione a un più alto livello. La coscienza nazionale è senso di appartenenza a una comunità di origine, di lingua, di cultura e di popolo, ed è una cosa nobile e grande; ma essa è saldamente inserita nell’idea universale di umanità.
Per il nazionalismo imperialistico è esattamente l’opposto: vi è scissione, frattura, opposizione insanabile fra nazione e umanità. Per questa fondamentale ragione la coscienza nazionale è un valore e il nazionalismo un disvalore. La prima deve coniugarsi sia con una visione etica dell’ordine internazionale, da costruire senza lasciarsi fermare da difficoltà oggettive e da egoismi, sia con una filosofia dei diritti umani. Il secondo, invece, è una forma di darwinismo politico che proclama il diritto del più forte, rifiuta ogni prospettiva universalistica ed è violentemente ostile al liberalismo e alla democrazia. Benché l’esaltazione fanatica della «tradizione religiosa» nazionale sia una costante del suo repertorio, il nazionalismo è nella sua essenza una forma di neopaganesimo anti-cristiano, perché rinnega l’unità della famiglia umana e l’idea stessa della fratellanza tra i popoli. Esso ha, pertanto, del fatto religioso ed ecclesiastico una visione meramente strumentale,per cui la religione è solo un elemento di coesione della nazione, che rimane il solo valore primario e assoluto. Fu una tragedia che, fatte le debite nobilissime eccezioni, si fosse oscurata nella politica e nella cultura dei Paesi europei la consapevolezza della differenza tra patriottismo e nazionalismo. Differenza per lungo tempo ignota anche alla cultura di sinistra, considerata nel suo insieme, come ha dimostrato lo storico di orientamento marxista Eric J. Hobsbawn in “Nazioni e nazionalismo dal 1780” (trad. it. Einaudi, Torino 1991). Uno dei pochissimi a comprendere quanto, invece, fosse necessaria l’integrazione morale della coscienza di nazione fu il socialista cristiano Charles Péguy.
Dal punto di vista ideologico, il nazionalismo fa della nazione e dello Stato nazionale l’assoluto terreno e il motore della storia, perseguendo, all’interno, una politica di compattezza che cancella il pluralismo democratico e che, nell’agone internazionale, è finalizzata alla guerra imperialistica. In Europa nel secolo XX il nazionalismo come ideologia politica è stato elaborato soprattutto in Francia, Italia e Germania. In Francia l’esponente più noto è Charles Maurras, che fondò e diresse il quotidiano “Action française” (1908 – 1944), da cui prese nome anche il movimento politico. Maurras nel 1944 fu condannato all’ergastolo per collaborazionismo con l’invasore nazista. In Italia il maggior teorico del nazionalismo fu Enrico Corradini (1865 – 1931), il quale nel 1903 fondò la rivista “Il Regno” e nel 1910 costituì l’Associazione nazionalistica italiana. Corradini nello scritto programmatico “Nazionalismo e democrazia”, che è del 1913, dichiarava: «Il nazionalismo sa che la morale guerresca, e soltanto la morale guerresca, ci necessità perché noi possiamo fiduciosamente prendere la via del nostro fine nazionale e perciò l’essenza del nazionalismo consiste nella propaganda che si fa della morale guerresca». I nazionalisti italiani assursero alla leader-ship dell’opinione pubblica del Paese durante la guerra di Libia (1911 – 1912) e nel 1923 confluirono nel fascismo.

II-Lager, l’atroce unicità delle fabbriche di morte

In Germania l’aperta rottura tra nazione e umanità si era già consumata durante la seconda metà dell’Ottocento, sì che il razzismo e l’antisemitismo erano divenuti, fin d’allora, aspetti costitutivi dell’ideologia nazionalistica.
In questo avvelenamento della coscienza tedesca gravi responsabilità ebbero gl’intellettuali e i professori di ogni ordine e grado, le classi dirigenti di quel Paese, per non parlare dell’imperatore Guglielmo II e del suo entourage militare e politico.
Chi si assunse, però, il compito criminale di portare al parossismo la connessione tra nazionalismo imperialistico, antisemitismo e razzismo biologico fu Adolf Hitler (1889 – 1945), fondatore e guida, Führer, del nazionalsocialismo.
I capisaldi del nazionalsocialismo sono: l’esaltazione della presunta superiorità della razza ariana e in essa del popolo tedesco, l’Urvolk, ossia «il popolo originario» per eccellenza; la dittatura del partito nazista sullo Stato e la conseguente divinizzazione del Capo Salvatore; il postulato per cui si deve vedere negli ebrei il nemico numero uno e nella loro distruzione – in Germania prima, in Europa poi – l’obiettivo di fondo; infine, la necessità di assicurare alla Germania una potenza militare tale da rendere vittoriosa la sua politica espansionistica e di persecuzione razziale su vasta scala.
L’ideologia nazista considera sin dalle origini indispensabile all’attuazione del suo disegno l’assoggettamento dell’Est europeo, essendo la forza-lavoro degli slavi schiavizzati e le immense risorse dei territori in cui essi sono stati necessari a garantire lo «spazio vitale» agli Herrenmeschen, al popolo degli «uomini-signori».
Nel “Mein Kampf”, scritto in carcere nel 1924, Hitler aveva espresso a chiare lettere gli obiettivi finali a cui tendeva il razzismo nazionalsocialista, pur tacendo sui mezzi che avrebbe usato per raggiungerli.

Vi è un principio-base comune alle tre diverse forme di totalitarismo – comunismo, fascismo, nazismo – che hanno imbarbarito la civiltà europea: alla politica liberale e democratica del confronto pubblico, della trattativa e dell’alternanza, il totalitarismo oppone l’ideologia terroristica del «principio amico-nemico», per cui chi non accetta i dogmi e la prassi del regime al potere è un nemico da annientare con ogni mezzo. Con una precisazione: nel totalitarismo hitleriano la contrapposizione «amico-nemico» esige che il nemico assoluto sia individuato non in un’altra nazione, ma in un’altra razza, a cui assegnare il ruolo di capro espiatorio, responsabile di ogni paura e di ogni scacco, ed insieme di polo antagonista contro il quale occorre mobilitare tutte le forze in uno scontro decisivo per la vita e la morte. Nel caso della Germania nazista il nemico metafisico non aveva che un nome: gli ebrei. Sì che, mentre l’antisemitismo politico di un Bismarck era intermittente e sempre in funzione di qualcosa d’altro – per combattere i liberali prima e dopo il 1878 per combattere i socialdemocratici – con Hitler esso diventa lo scopo primario e permanente.
Se per andare al potere era necessario, dal punto di vista tattico, puntare ogni carta sulla paura del bolscevismo e sulla lotta al bolscevismo, una volta padrone del potere Hitler addita nella lotta all’ebraismo l’obiettivo strategico supremo del partito e dello Stato. È evidente che una politica antiebraica, così concepita, doveva comportare necessariamente una soluzione radicale. Essa, infatti, non aveva che due vie da percorrere: la persecuzione attraverso apposite leggi antiebraiche, che rendessero obbligatoria l’espropriazione di beni e di diritti degli ebrei tedeschi e, ove fosse possibile, la loro espulsione; dall’altra parte l’annientamento.
Fra il 1933 e il 1939 ci fu la persecuzione, crudele e senza scampo, degli ebrei in Germania, in Austria e in Cecoslovacchia; nel corso della Seconda guerra mondiale, e più precisamente tra il giugno 1941 e la primavera del 1945, si passò all’annientamento. La distruzione degli ebrei in Europa fu attuata in tempi distinti e con modalità diverse, congiungendo sempre massima efficienza e segretezza. Si cominciò col rendere operante il principio: «Voi non avete il diritto di vivere tra noi» e si passò poi ad attuare la più diabolica delle conseguenze che da quel principio derivava: «Voi non avete il diritto di vivere».

Dopo il vittorioso exploit delle forze armate tedesche sul fronte occidentale, nella primavera del 1940, occorreva far sì che la questione ebraica non venisse alla luce, perché avrebbe potuto costituire un ostacolo all’agognato accordo con la Gran Bretagna, l’unico avversario rimasto in campo.
Si elaborò allora il cosiddetto «piano Madagascar» come soluzione finale territoriale della questione ebraica: tutti gli ebrei d’Europa sarebbero stati deportati nel Madagascar, l’isola appartenente alla Francia, che doveva essere ceduta alla Germania, e che sarebbe stata trasformata così in un immenso lager alle dipendenze delle SS. Meglio la deportazione in Madagascar che il trasferimento in Palestina, dove gli ebrei avrebbero potuto darsi uno Stato e cominciare una nuova storia. Poi, una volta nel Madagascar, gli ebrei avrebbero potuto servire da ostaggi per garantire ai Governi nazisti la buona condotta dei loro «compagni di razza» negli Usa. Il Piano Madagascar non ebbe esecuzione, ma fu rimesso sul tappeto ancora una volta nel febbraio 1941, al quartier generale di Hitler. Hitler intendeva affrontare la questione con i francesi, ma rifiutava di esporre gli equipaggi ai siluri dei sottomarini nemici. «Bisognava pensare a tutti gli aspetti della questione, e non certo con maggior simpatia» – concluse il Führer (Raul Hilberg, “La distruzione degli ebrei d’Europa”, trad. it. Einaudi, 1995, vol. I, p. 422). Il piano fu definitivamente archiviato il 10 febbraio 1942.
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Quando il 22 giugno 1941 scattò l’operazione Barbarossa, le SS e opposti reparti della Wermacht furono impegnati ad attuare le direttive precedentemente impartite ai loro alti comandi dal Führer per lo sterminio sistematico degli ebrei in Polonia e in Unione Sovietica.
In concomitanza con l’apprestamento dell’Operazione Barbarossa, e in previsione di una guerra-lampo sul Fronte orientale, come già si era verificato in Occidente, Hitler decide la soluzione fisica diretta e sistematica della questione ebraica nell’Europa orientale, fuori cioè dalla Germania e da occhi indiscreti. Lo sterminio avviene in zone che erano state evacuate e mediante la fucilazione di massa, alla quale seguiva il rogo dei cadaveri con la benzina. Le fosse comuni, a loro volta occultate con scrupolo e inventiva, servivano a far sparire i resti non interamente distrutti dal fuoco.
Nell’estate del 1941 Hitler decide la soluzione finale anche se operativamente occorre, per ora, limitarsi ad associare al destino degli ebrei orientali gli ebrei tedeschi e dei Paesi dell’Europa centrale. Era giocoforza, infatti, escludere ancora dai piani di internamento e di distruzione fisica gli ebrei dell’Europa occidentale, almeno finché rimaneva la possibilità di una pace con l’Inghilterra. Coloro che hanno da Hitler l’ordine di organizzare, accelerare ed estendere il processo di distruzione degli ebrei sono i suoi due più alti e diretti collaboratori Reinhardt Heydrich e Heinrich Himmler. Il primo era il capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich nonché capo della Polizia segreta e dei Servizi segreti. Il secondo era capo delle SS e capo della Polizia del Reich germanico, Heydrich e Himmler erano, insomma, i soli a disporre, dopo Hitler, di apparati istituzionali che mettevano in ombra ogni altra istanza dell’autorità statale e militare.
Verso la fine dell’estate del 1941, Adolf Eichmann fu convocato da Heydrich, il quale lo informò che «Hitler aveva ordinato lo sterminio fisico degli ebrei».
Nell’impartire quell’ordine Hitler, secondo quanto Heydrich disse ad Eichmann, era visibilmente agitato. Nello stesso tempo Himmler convocava Rudolf Hoess, il comandante di Auschwitz, per dirgli che Hitler aveva ordinato la soluzione finale del problema ebraico e per comunicargli che Auschwitz doveva diventare l’epicentro di quella immensa operazione. Ad Auschwitz, infatti, per la sua vicinanza a Katowice, si poteva accedere facilmente per ferrovia, e inoltre quel luogo, così esteso, offriva abbastanza spazio per poter assicurare un adeguato isolamento. «È a noi, SS, che spetta l’esecuzione di questi ordini» disse Himmler a Hoess. I dettagli dell’operazione potevano essere discussi e decisi tra Hoess e Eichmann. E così fu (Hilberg, op. cit., pp. 936 – 957).
Himmler, però, sapeva molto bene – e con lui Hoess e Eichmann – che la soluzione finale fisica non poteva continuare a essere praticata con il metodo della fucilazione in massa, con i massacri che ponevano direttamente a contatto le vittime e i loro assassini. Quando lo sterminio sistematico degli ebrei dell’Europa orientale entrò nella fase esecutiva, Eichmann e Hoess scartarono subito per Auschwitz il sistema delle fucilazioni perché sarebbe stata una fatica troppo pesante per i militi delle SS incaricati di eseguirle, data anche la presenza di donne e bambini.
«Ne avevo abbastanza ormai – scrive Hoess – delle esecuzioni di ostaggi, delle fucilazioni in gruppo ordinate da Himmler o dall’alto Comando della Polizia del Reich. Ma ora ero tranquillo perché questi bagni di sangue sarebbero stati evitati, e perché le vittime avrebbero potuto essere risparmiate fino all’ultimo momento». Hoess attesta che tra i soldati delle Einsatzgruppen erano frequenti i suicidi e la pazzia; la maggioranza si rifugiava nell’alcool. «Ma ora avevano scoperto il gas e il modo di usarlo». In realtà la soluzione finale ora poteva avvenire mediante la camera a gas e i forni crematori. Quello che sarebbe diventato il nuovo sistema entrò in funzione la prima volta nel dicembre 1941 a Chelmo (Polonia) nella regione di Varsavia.

III-Olocausto, i giorni decisivi per la «soluzione finale»

Le operazioni più segrete del processo di distruzione si svolsero in sei campi situati in Polonia, in un’area che si estendeva dai territori incorporati fino al Bug. Questi campi erano i centri di raggruppamento verso i quali convergevano migliaia di trasporti che arrivavano da tutte le direzioni. I convogli ripartivano vuoti, e il loro carico scompariva all’interno. I campi di sterminio funzionavano velocemente e bene. Il nuovo arrivato scendeva dal treno alla mattina e, se giudicato inidoneo al lavoro, alla sera il suo cadavere era già bruciato, e i suoi abiti impacchettati e immagazzinati, pronti per essere spediti in Germania. Questo tipo di operazione era il risultato di una complessa pianificazione; il campo di sterminio, infatti, costituiva un complicato meccanismo nel quale un cospicuo esercito di specialisti aveva il suo ruolo definito. In apparenza, l’organizzazione è di una semplicità inaudita, ma un esame più attento rivela che le operazioni dei centri di sterminio si avvicinano, sottocerti aspetti, ai metodi di produzione complessi di una moderna fabbrica.
La cosa più sconvolgente, nelle operazioni dei centri di sterminio, è che, a differenza della fasi preliminari del processo di distruzione, questi non avevano precedenti. Mai, in tutta la storia dell’umanità, si era ucciso a catena. Il centro di sterminio, come si potrà constatare, non ha alcun prototipo, nessun precedente amministrativo. Questa caratteristica dipende dal fatto che esso era un’istituzione composita che includeva due elementi: il campo propriamente detto, e le installazioni di sterminio all’interno del campo. Ognuna di queste due parti aveva i suoi propri antecedenti amministrativi. Nessuna era completamente nuova. Il campo di concentramento e la camera a gas esistevano da un certo periodo di tempo, ma isolate. La grande innovazione fu di mettere in funzione i due sistemi insieme

Quando la soluzione finale venne estesa anche agli ebrei dei Paesi dell’Europa Occidentale sotto il dominio tedesco, essendo i campi di sterminio tutti nell’Europa Orientale, l’operazione fu presentata come un trasferimento all’Est per il lavoro richiesto dall’economia di guerra. Questo terzo e ultimo momento della soluzione finale fu attuato in massa solo a partire dal 1942.
Certamente la macchina di morte aveva raggiunto allora la massima efficienza e poteva assolvere al nuovo compito che le veniva assegnato, ma la decisione nasce anche dalla mutata situazione politica e militare. La fine di ogni remora per Hitler e per i suoi fedelissimi criminali si spiega solo con la fine di due grandi illusioni. La guerra contro l’Unione Sovietica, col sopraggiungere in forte anticipo dell’inverno, si rivelò non essere affatto una guerra lampo; anzi, il 6 dicembre 1941 Hitler registrò dinanzi a Mosca la sua prima sconfitta. L’offensiva sovietica, dopo un terrificante susseguirsi di ritirate e sconfitte, era finalmente vittoriosa. Ed ecco, due giorni dopo, l’8 dicembre, il Giappone distrugge la flotta americana a Pearl Harbour e scende in guerra con gli Stati Uniti; l’11 dicembre l’Italia e la Germania si schierano a fianco dell’alleato nipponico. Ma ciò significava anche la perdita definitiva della madre di ogni illusione, quella che faceva da premessa a tutti i progetti e le speranze di Hitler. È interesse vitale dell’Inghilterra – pensava Hitler – accettare l’offerta di pace che le fa la Germania vittoriosa sulla base di una vera e propria partnership: l’Europa a Berlino, a Londra il dominio su tutto il resto. Churchill non prese sul serio una così rozza, proterva e insistente proposta; e se non lo fece quando era rimasto solo a tener testa al nemico, come avrebbe potuto farlo ora che al suo fianco combattevano gli Stati Uniti?
Militarmente la potenza della Germania era ancora molto forte e il Giappone conseguiva un successo dietro l’altro in Cina, nel Sud-Est asiatico, nel Pacifico; le sue conquiste sembravano inarrestabili. Ma gli effetti dell’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto si sarebbero visti in progresso di tempo e sarebbero stati decisivi sia in Asia, sia in Europa.
Hitler reagì alla nuova situazione a modo suo, cioè non riconoscendo l’infondatezza dei suoi calcoli, ma rifugiandosi nella più ossessiva delle sue manie: nell’ora della «guerra totale» il primo di tutti i compiti era portare a termine la distruzione degli ebrei in Europa.
Il dogma razziale dominava ormai in maniera univoca la politica e la strategia militare del dittatore. Persino nell’estate del 1941, quando sembrò che le speranze di vittoria del Reich germanico stessero ancora una volta realizzandosi, Hitler non riuscì a prendere una decisione a favore della priorità della guerra contro l’Unione Sovietica rispetto al genocidio razziale. nella fase culminante della campagna di Russia, durante l’avanzata su Stalingrado, quando tutte le forze di lavoro e i mezzi di trasporto dovevano essere indirizzati a quell’unico obiettivo, l’Europa intera era invece traversata con una regolarità pianificata da lunghi convogli ferroviari carichi di ebrei dell’Europa Occidentale diretti ai campi di concentramento in Oriente.
Il 24 febbraio 1942 Hitler riaffermò la cosiddetta «profezia» del 30 gennaio 1939: «Da questa guerra non uscirà annientata la razza ariana, sarà l’ebreo invece ad esser sterminato. Qualsiasi conseguenza avrà la lotta, o qualunque sia la sua durata, sarà questo il suo risultato finale». Così, mentre nella seconda metà del conflitto il Terzo Reich cedeva inesorabilmente sul piano militare e passava di sconfitta in sconfitta, la soluzione finale della questione ebraica veniva sempre più accelerata. Pare proprio che alle sconfitte militari della Wehrmacht Hitler facesse corrispondere le sue «vittorie» razziali. La distruzione degli ebrei in Europa doveva, insomma, prevalere su ogni considerazione di salvezza del popolo tedesco.

Giornale di Brescia, 16, 17 e 19 gennaio 2001.