Brescia , la resistenza cresciuta in parrocchia

Giornale di Brescia, 11 marzo 1995.

Il retroterra spirituale

A Brescia la Resistenza nasce da un vasto retroterra, preceduta da un lungo lavoro di preparazione silenziosa, sul piano della spiritualità e della cultura, al rifiuto della dittatura e del neo-paganesimo razzista. Le violenze fasciste del 1926 contro le organizzazioni cattoliche, il sospetto e l’ostilità reciproci tra il regime e il mondo cattolico bresciano fecero sì che qui le illusioni e i compromessi non attecchissero, se non marginalmente. Spento il dibattito politico, disciolti i partiti, l’epicentro del “no” al regime fu l’oratorio della Pace, in cui emergeva per coraggio e forza spirituale padre Giulio Bevilacqua. Ma col padre filippino erano molti ad essere in sintonia, a cominciare da quei laici, primo fra tutti Andrea Trebeschi, pronti a rischiare tutto pur di non rinunciare alle proprie convinzioni. Agirono in Brescia in senso antifascista o afascista spinte ideologiche e propaggini clandestine dei disciolti partiti e movimenti sindacali, ma nel ventennio fu la chiesa a dar vita a un clima di diffidenza, di riserva e di opposizione popolare al fascismo. Non mancarono momenti di incrinatura a vantaggio del regime come, ad esempio, quando Mussolini si disse pronto a difendere 1’Austria dalla minaccia hitleriana, dopo 1’assassinio del cancelliere Dollfuss, e durante la guerra d’Etiopia; ma la nebbia presto si diradò. L’alleanza col nazismo e l’allineamento del regime su posizioni razziste segnò a Brescia l’aperta e definitiva rottura tra coscienza cattolica e fascismo. Di qui la disponibilità di tanti giovani, preparati e generosi, ad assumersi subito, all’indomani dell’8 settembre 1943, i rischi e le responsabilità che la scelta partigiana comportava.

La difficile scelta.

Chi furono coloro che dopo l’8 settembre presero la via della montagna per combattere contro i tedeschi e i fascisti? Rispondere a questa domanda può aiutare a comprendere la loro scelta e le motivazioni più profonde che li mossero.

Innanzi tutto furono dei giovani, uomini e donne. Ha del prodigioso pensare che dei ragazzi, poco più che adolescenti, abbiano saputo, da soli, tra insicurezze ed esitazioni drammatiche, compiere una scelta contro ciò a cui erano stati educati, contro l’esaltazione della guerra, contro il dominio della razza superiore, contro il disprezzo della democrazia. E questa scelta era difficile. «Per molti dei miei coetanei – ricorda Italo Calvino, nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno – era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere». Ma per alcuni a decidere furono motivazioni profonde, che si manifestarono in tutta la loro nobiltà nella situazione-limite della morte.

Per tentare di capire occorre, allora, riprendere in mano le lettere che hanno lasciato coloro che sono stati fucilati, i condannati a morte. Si scopre con sorpresa che quelle loro ultime parole, scritte in fretta, spesso su dei piccoli fogli di carta, non furono di disperazione e neppure di odio, come sarebbe stato logico aspettarsi, ma di speranza e di perdono.

Così il giovanissimo Poldo, Bortolo Fioletti (ucciso a Monno a 19 anni, a guerra finita, il primo maggio del 1945), con ingenua e toccante semplicità fa affiorare le ragioni più alte della guerra partigiana: «Cara mamma, non piangere per me. Perdonami e pensa se io fossi tra coloro che martirizzano la nostra agente […] lo sono qui per nessun altro scopo che la fede, la giustizia e la libertà, e combatterò sempre per raggiungere il mio ideale [.] Presto verremo giù, e vedrai che uomini giusti saremo. Allor si vivrà con la soddisfazione di vivere e non con l’egoismo di oggi».

E che dire del camuno Giovanni Venturini, Tambìa, che i suoi stessi aguzzini riconobbero «elemento di carattere fermo, deciso a non lasciarsi sfuggire alcuna informazione»? Sottoposto alle più violente torture e alle più crudeli mutilazioni, seppe dire nobili parole di perdono: «Ormai sono ridotto a misera cosa, non sono più uomo e qualche volta piango dal dolore dei miei piedi che non mi serviranno più […] Perdono a tutti e auguro a nessuno quello che ho sofferto e soffro io, nemmeno a chi lo ha fatto a me, nemmeno alle bestie».

Un’ultima lettera-testamento: «Chiudo questa mia vita serenamente. Non ho rimpianti nel lasciarla perché coscientemente l’ho offerta per questa terra, anche ora offro questo mio ultimo istante per la pace nel mondo, e soprattutto per la mia diletta patria, alla quale auguro figli più degni di me e un avvenire splendente».

Sono parole di un ufficiale bresciano, Peppino Pelosi, entrato a far parte del movimento partigiano e fucilato il 29 febbraio 1944.

Ardimento e sacrificio.

La lotta comincio a Brescia tra il settembre e l’ottobre del 1943, con i 300 partigiani operanti sul Monte Guglielmo, col prelievo di armi dalla «Beretta» di Gardone V.T., con la formazione dei gruppi partigiani collegati tra loro e guidati, in Val Camonica, da Romolo Ragnoli e, in Val Sabbia, da Giacomo Perlasca e Mario Bettinzoli.

Con Salò capitale della Repubblica Sociale Italiana e quartier generale di tutte le forza militari e di polizia dei nazi-fascisti, Brescia fu condannata a sperimentare per venti interminabili mesi la pressione più massiccia e crudele. Ma la terra di Tito Speri non si smentì. Quello che fecero i giovani, le donne, i contadini, gli operai, la gente di montagna, gli studenti, i sacerdoti, ha del leggendario. La mobilitazione degli animi fu generale ed ebbe come epicentri la parrocchia e la fabbrica.

Le parrocchie, l’Azione cattolica diocesana, ambienti religiosi e conventi furono tramutati in centri di mobilitazione operosa. E fin dall’inizio fu alto il prezzo del sacrificio. In pochi mesi, tra il dicembre 1943 d il gennaio 1944, caddero nelle mani del nemico quasi tutti i primi generosi iniziatori del movimento resistenziale (Alstolfo Lunardi, Peppino Pelosi, Giacomo Perlasca, Ferruccio Lorenzini, Ermanno Margheriti). Per loro fu la tortura e la fucilazione. Per altri, fu il lager, dal cui inferno pochi uscirono vivi, come padre Carlo Manziana, e molti altri, come Andrea Trebeschi e Rolando Petrini, trovarono la morte.

La primavera e l’estate del ‘44 videro il mirabile, vittorioso dispiegarsi delle attività partigiane ovunque ed in particolare nelle Valli. Le nove brigate «Fiamme Verdi», le tre brigate «Garibaldi» e le due brigate «Matteotti», erano divenute vere formazioni militari con quasi duemila unità; ovunque, ma soprattutto in città, operavano i «Gruppi di Azione Patriottica» e le «Squadre di Azione Patriottica»; si giunse persino a costituire, tra la Valletta di Corteno e Pontedilegno, zone libere in cui si avviarono le prime esperienze di amministrazioni elette democraticamente. Non meno di sei-settemila patrioti e collaboratori affiancavano nei modi più diversi le forze partigiane. Ma le rabbiose rappresaglie dei neri non mancarono nemmeno in quei mesi in cui più forte si faceva l’illusione che la fine della guerra fosse imminente. A Cevo di Valsaviore, base della 54a brigata Garibaldi, le case vengono incendiate il 3 luglio e a Bovegno il 15 agosto 16 civili vengono trucidati.

L’inverno ‘44-’45 e la liberazione

Le cose si misero male nel freddo autunno del ‘44 e nell’inverno del ‘45. L’offensiva antipartigiana, sferrata il 1° ottobre da Kesserling e continuata per tutto l’autunno, moltiplicò le catture, le torture, le esecuzioni capitali, le stragi. Fu il momento più difficile della Resistenza bresciana, impossibilitata a smobilitare, come avrebbe voluto il generale Alexander, e duramente provata dalla fame, dal freddo, dall’attacco nemico. Caddero allora alcuni degli uomini più validi del movimento partigiano come Emiliano Rinaldini, il maestro adolescente, Giacomo Cappellini, Giuseppe Verginella e tanti altri.

«Da Domodossola al Grappa, dalle Valli bresciane all’Istria è tutto un calvario» scriveva Zenit (E. Petrini) nel numero 17 de «Il Ribelle». E continuava: «Il ribellismo italiano non muore. Più scarno, purificato si abbarbica alla montagna, la sola sua vera alleata, si rifugia nei quartieri operai delle città e nelle campagne, i suoi veri vivai. Simile al fratello polacco, combatte senza speranza nell’aiuto altrui, perché combatte per un’idea: per la libertà, per l’umanità. La nostra è ribellione più alta che non la stessa guerra». Battista, che era poi Laura Bianchini, nel numero 20 de «Il Ribelle», che porta la data emblematica del 25 dicembre, dà voce ai pensieri e ai propositi di tutti con parole semplici e forti: «Avevamo sperato che questo Natale ci avrebbe trovati liberi, pronti per la ricostruzione. Invece il martirio del1’Italia, e nostro, non è finito. A denti stretti terremo il nostro posto e continueremo a portare, ora per ora, il peso delle giornate buie. Il bruciante amore di patria e di libertà che ci ha gettato, coscienti, nel crogiolo, non ha perduto nulla del suo segreto ardore; e questo ci dà una sicura fiducia di perseverare fino in fondo. E ci dà pace».

A partire dal febbraio 1945 la Resistenza si riorganizza, il collegamento con gli Alleati è più continuo, gli aviolanci assicurano finalmente armi ed equipaggiamenti. L’ultima battaglia e la più dura fu combattuta contro la legione GNR «Tagliamento» dalle 200 fiamme verdi attestate a 1900 metri di quota, sul Mortirolo, il passo alpino situato tra la Valcamonica e la Valtellina. Si smise di combattere solo il 28 aprile. In città i Gap e le Sap guidano l’insurrezione del popolo e in poche ore il 26 aprile ogni presenza tedesca è travolta. Ma fino all’ultimo, negli scontri con il nemico in fuga, si continuò a morire, quando ormai la partita era già decisa irrevocabilmente.