Come sono nate le “Comunità di Emmaus”

Autori: Abbè Pierre

In Italia ci sono quattro comunità: a Verona, a Bologna, a Laterina vicino ad Arezzo e l’ultima sta cominciando a Torino. In Francia ce ne sono 52 che danno occupazione a circa 1500 lavoratori che sono riuniti in queste comunità, ve ne sono altre in tutte le parti del mondo. Dopodomani a Santiago, in Cile, si terrà la riunione di tutte le comunità dell’America del Sud. Due giorni fa è rientrato in Giappone il responsabile di tutte le comunità del Giappone, della Corea, dell’Indocina. In Africa abbiamo solo una piccola comunità in Ruanda. Altre comunità sono nel Libano, in Canada, in Finlandia. La parte essenziale di queste comunità è costituita da persone che erano disperate per disgrazie varie. Il primo compagno era uno che aveva tentato di suicidarsi, non morì e per questo mi chiamarono. In quel momento, erano i primi anni del dopoguerra, ero deputato al Parlamento, ma in quel momento non avevo denari, perché avevo cominciato a costruire case per i senza tetto. Parlando con questo uomo che non era riuscito a suicidarsi, gli dissi: “tu sei infelice, ma io non posso darti nulla, io ho solo debiti, non ho affatto denaro; guarda dove abito, considera come lavoro per tutto il tempo libero dopo gli impegni di deputato: lavoro per costruire case e lavoro materialmente con le mie mani”. Soggiunsi inoltre: “sono un po’ malato e tutti i giorni vengono da me famiglie a piangere e a chiedere anche per loro la casa”.

Allora a questo uomo, che era un disperato, dissi ancora: “Perché vuoi ucciderti? Tu sei libero, non c’è nulla che ti obblighi, ma prima di ucciderti, accetta di venirmi ad aiutare per finire una casa? Poi, se ne avrai ancora voglia, farai quello che vorrai”. Così abbiamo fondato la nostra comunità: invece di dire a un uomo disgraziato “ti aiuto, ti dono”, gli ho detto: “tu puoi donare qualcosa”. La vita del primo ospite di Emmaus è cambiata quando si accorse che poteva donare; evidentemente non lo avrebbe fatto da solo. Se fossi stato un buon predicatore, un moralista, gli avrei dato dei buoni consigli: “Fa’ questo, fa’ quest’altro” e lui non avrebbe fatto nulla, non avrebbe potuto perché moralmente era distrutto, ma quanto gli chiedevo diventava possibile nel momento in cui gli proponevo: “Facciamo assieme, aiutami ad aiutare”. Allora fu possibile anche per lui riprendersi, perché non era solo. Vennero dopo di lui molti altri disperati, e tutti mangiavano con l’indennità parlamentare. (Non bisogna sempre parlar male del denaro che viene dato ai deputati).

Allorché lasciai il Parlamento eravamo 18 uomini, costruimmo un villaggio e non avevamo più danaro. Per non dire: “Partite è finito!” quando non ci fu più niente, andai di notte a mendicare per la strada, perché il giorno dopo tutti potessero mangiare. Un giorno qualcuno fece la spia ai miei amici e riferì che mi aveva visto mendicare. Allora essi si arrabbiarono e mi dissero: “Quando siamo noi ad andare a mendicare, perché vogliamo bere o per divertirci, ci dici che è scandaloso, e poi ci vai tu. Che cos’è questa storia?”. Dissi: “Sì, è vero, ma non c’è più nulla da mangiare”. Allora uno dei compagni, propose: “Io so trovare il denaro”. Soggiunsi: “Senza dubbio, so che sei stato in prigione e sei molto abile nel rubare”. Rispose: “Sì, è vero che so rubare, ma conosco anche un’altra tecnica” e mi spiegò il mestiere di recuperare col lavoro degli stracciaioli tutto quello che si butta via: i vecchi libri, i vestiti, le biciclette, i cartoni, tutto. Io ero molto scettico e dissi: “Ma sì, con questo lavoro puoi bere un bicchiere di vino, mangiare un pezzo di pane, ma è impossibile poter mandare avanti tutta la comunità e continuare le costruzioni”. Lui mi disse: “Sì, è possibile se si lavora con noi con metodo e se ci impedisci di bere ogni giorno quello che ci guadagniamo. Vedrai che avremo a sufficienza per vivere e per continuare ad aiutare quelli che la società non aiuta”. E abbiamo cominciato con sacchi sulle spalle, con vecchie carrozzelle di bambini. Tutto quello che si può aggiustare e tutto quello che è un po’ artistico lo si vende molto caro a gente che vuole cose originali nella sua casa. Vi sono altre cose ordinarie: piatti, tegami, biciclette che si vendono a buon mercato alle famiglie povere. Tramite questo è stato possibile guadagnare, perché questi compagni potessero vivere e avessero la fierezza e l’onore di poter donare agli altri. Poiché sono dei lavoratori poveri che con l’utile del loro guadagno aiutano queste miserie, ciò origina una provocazione politica, dicendo: “Noi che siamo piccoli, con le cose che buttiamo via, siamo capaci di donare, e voi tutti che avete molto di più del necessario, voi singoli, i municipi, le amministrazioni locali o il governo, che cosa fate per queste categorie di persone che sono infelici?”. Poiché sono poveri che donano, ciò fa riflettere molto di più che se fosse un miliardario che dà un assegno. Se fosse un ricco, si direbbe: “Non fa fatica, potrebbe dare molto di più”, mentre, essendo poveri che lavorano per dare, ciò fa riflettere. E questa può essere una vera forza per una presa di coscienza politica.

VIVERE COI POVERI E’ IL NOSTRO PIU’ GRANDE PROBLEMA.

 


NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.10.1977 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

Incontro tenuto presso la libreria della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.