Curare e prendersi cura della persona nella stagione finale della vita

Giada Lonati Tre persone su dieci moriranno per malattie croniche e queste persone avranno tempo di acquisire una consapevolezza del percorso della loro vita che volge al termine. Si muore molto spesso in ospedale, noi facciamo cure palliative quindi sosteniamo la bellezza del morire a casa. Philippe Ariès diceva che nel medioevo la morte era addomesticata, era resa domestica, stava all’interno delle case, oggi è stata portata fuori dalle case, è stata portata negli ospedali e negli hospice. Si muore anche senza supporto sociale, le famiglie non sono preparate, è una morte medicalizzata, è una morte che ha perso la dimensione sociale. Pensiamo a tutta la dimensione del lutto, tutti i riti del lutto, che in qualche modo sono stati superati, ma superandoli si è persa la dimensione sociale. È una società che non è più preparata alla morte. Mentre nelle culture contadine, quando c’era una mortalità infantile altissima, che per fortuna non esiste più, il primo incontro con la morte avveniva nell’infanzia, oggi le persone incontrano la morte nella loro quarta/quinta decade di vita. Questo come sanitari è importante inquadrarlo, perché ci troviamo di fronte a figli di genitori molto anziani che sono colti di sorpresa dall’eventualità della morte. Il processo del morire chiama in gioco tante dimensioni di sofferenza che non riguardano solo la dimensione fisica, ma riguardano la complessità dell’esistenza della persona. A Milano quasi il 50% delle famiglie sono monocomponenti, abbiamo sempre più anziani che sono soli e anche quando abbiamo una coppia di anziani, in cui uno è caregiver, è chiaro che la dimensione dell’assistenza diventa una dimensione, che se non è supportata da una forza esterna, non è gestibile in un contesto domiciliare. È una morte a cui siamo impreparati: si muore per colpa degli anestesisti e rianimatori molte volte, si muore per colpa dei medici, si muore per colpa di un errore sanitario e si è persa questa dimensione culturale del morire perché siamo vivi, perché questo fa parte del destino di tutti i viventi e questa perdita della dimensione del limite, questa perdita di educazione al limite e anche di educazione alla scelta ha un impatto molto grosso. A dispetto di tutte le norme che ci sono si muore anche disinformati, sebbene la legge 219 che parla di consenso informato, pianificazione condivisa delle cure etc. dica che l’informazione è un diritto del paziente, da noi in hospice arrivano persone che muoiono in una settimana e che pensano di andare a fare la riabilitazione. Nella migliore delle ipotesi sono state informate della diagnosi, ma poco sanno della loro prognosi, con questo equivoco che informare, soprattutto rispetto ad una malattia grave, sia togliere la speranza. Credo ci sia una morte a cui sono impreparati i sanitari, perché noi medici non veniamo educati alla comunicazione. Mio figlio si è laureato in medicina a luglio dell’anno scorso e uno dei suoi docenti gli ha detto: «Se qualcuno di voi mette nell’ordine di idee il fatto che il suo paziente possa morire ha sbagliato tutto». Essere figli di una palliativista e sentire che non si può concepire la morte del paziente, io mi chiedo come nella cultura medica possa ancora esistere questa difficoltà. Se noi siamo agenti culturali, oltre che curanti, è chiaro che è dal nostro linguaggio che nasce la possibilità di parlare della morte e del fine vita.

Claudio Baroni Giada Lonati è un medico che si occupa delle cure palliative fin dal 1995, è la direttrice sociosanitaria di VIDAS, organizzazione di volontariato che si occupa di assistenza di malati inguaribili a domicilio e in hospice. Ha inaugurato «La casa sollievo dei bimbi» primo Hospice pediatrico in Lombardia e ha scritto su questo tema tre saggi molto interessanti. Se chi ha affrontato questi temi in questo modo ci racconta e ci dice che rispetto alla morte siamo impreparati, sono impreparate le famiglie, sono impreparati i medici nel comunicarla, allora la questione diventa complicata. Passerei la parola a Luisa Sangalli che si occupa di cure palliative e di fine vita. Come si muore?

Luisa Sangalli Io mi sento di essere un pochino più ottimista. Io mi occupo prevalentemente di assistenza domiciliare, forse in una città, Brescia, che è fatta di tanti piccoli comuni e quindi rispetto alla grande metropoli come Milano c’è ancora il valore di tenere la persona a casa, di accompagnarla. Credo che siamo in viaggio, in una trasformazione culturale in cui la morte era considerata “naturale” [ultimamente mi sto chiedendo se è così naturale morire], era contemplata nel quotidiano, da quella fase siamo passati ad una fase di negazione, forse come tutti i movimenti pendolari della storia io ho fiducia che oggi si può aprire un percorso di equilibrio in cui ci si riappropria di questa realtà, vissuta con più consapevolezza, più dialogo. È vero che una volta si moriva a casa, ma non si parlava, il morente non poteva condividere. Quello che vedo oggi sono dei bellissimi dialoghi, la possibilità che la persona ha di consapevolizzare questo morire e di chiudere il discorso, chiudere i cerchi della vita, dire delle cose che non ha mai detto che forse sessanta/settant’anni fa non veniva nemmeno in mente di farlo, questo è un valore di oggi. È vero che la morte viene vista come un fallimento totale, come un annientamento e sta lì un po’ il problema. Io credo che bisognerebbe educarsi da bambini all’idea di un ciclo, di una finitudine e quindi di agganciare la vita a qualcosa che va oltre. Costruendolo piano piano questo filo può dare senso a qualcosa che effettivamente fa paura a tutti, la fine. Credo che oggi si muoia male in parte anche per un problema forte di noi sanitari. Quando ho iniziato a fare cure palliative, vent’anni fa, c’era la demonizzazione della morte in ospedale; invece, credo che anche l’ospedale è chiamato a diventare un luogo che faccia spazio al morire. Bisogna evitare che le cure palliative e l’hospice diventi il ghetto, la morte deve entrare in ospedale, perché vuol dire perdere quel diritto all’onnipotenza, diritto alla salute, che è qualcosa che non sopporto, si ha diritto alle cure, la salute è un dono. L’ospedale dovrebbe diventare un luogo in cui si fa spazio al morire, non è importante solo dove si muore, ma anche come si muore, come si viene accompagnati, quale dignità, quali gesti, quale attenzione viene data e questo presuppone il riconoscere. Molti miei colleghi non riconoscono neanche clinicamente quando la persona sta morendo. Io voglio dare spazio alla speranza, credo che piano piano, acquisendo i valori di oggi: il dialogo, la profondità, la condivisione, l’empatia, si può recuperare togliendo dall’isolamento il morire. Credo anche in una formazione iniziale; a volte trovo crudele nelle persone anziane, molto affaticate imporre/proporre un percorso di consapevolezza del morire quando non hanno le forze né fisiche, né psichiche, per affrontare un discorso di questo genere. Credo che l’insegnamento monastico, di educazione alla morte quotidiana, sia molto importante da portare avanti, proprio a livello personale, indipendentemente dal lavoro che si fa o dalle esperienze che si possono avere.

Claudio Baroni Grazie per averci dato questa prospettiva di speranza e di attenzione ad un dialogo che forse appartiene di più alle categorie dell’oggi che non a quelle del passato. Nel passato si aveva un atteggiamento di rassegnazione di fronte alla morte. Dott. Giannini lei è un rianimatore, un anestesista in pediatria, alle prese con decisioni importanti ed estreme, con la situazione penso più difficile, quella dei bambini. Fa parte del gruppo di studi di bioetica, ha affrontato questi temi da un punto di vista legale. L’ospedalizzazione della morte, la morte davanti ai bambini, il bambino che muore.

Alberto Giannini Devo riconoscere un limite nel mio intervento di oggi, ovvero la deformazione del mio lavoro. Io sul “come si muore oggi” ho uno sguardo differente, limitato, ho un angolo di visuale di chi lavora in ospedale, soprattutto nell’ambito particolare della medicina intensiva. Se avessi la macchina del tempo vi porterei in dietro di circa 2500 anni, perché vi vorrei portare nell’isola di Delo. Delo era la sede principale del culto del dio Apollo, dio della bellezza, e quindi tra il VI e il V secolo a.C. a Delo era vietato nascere ed era vietato morire. Per nascere e per morire bisognava dunque prendere la barca e spostarsi nella vicina isola di Mykonos. Delo è un’immagine emblematica di una società che non vuole porsi le domande sul nascere e sul morire e credo che questa idea possa essere considerata per la nostra comunità che esilia le domande sul nascere e sul morire. Come si muore oggi? Com’è, nel mio sguardo, oggi la morte? È una morte che si caratterizza con due elementi: una morte fortemente “medicalizzata” ed è una morte “esiliata”. I dati che abbiamo degli Stati Uniti ci dicono che, per quanto riguarda gli adulti, il 22% delle morti avviene in Terapia Intensiva. Una morte dunque fortemente contrastata e allontanata dallo sguardo, confinata in un “altrove”, allontanata dallo sguardo e dalla presenza delle persone care. Per quanto riguarda i bambini, nei Paesi europei la morte avviene prevalentemente in ospedale: più dell’80% dei bambini, infatti, muore in ospedale e, quando muore in ospedale, muore in Terapia Intensiva: nuovamente quindi l’immagine emblematica di una morte allontanata dallo sguardo, fortemente medicalizzata e che avviene “altrove”. Morte medicalizzata e sottratta allo sguardo. Questo esilio non riguarda soltanto il vedere morire, ma riguarda anche il nostro linguaggio. C’è un bellissimo lavoro uscito nel 2022 su una importantissima rivista statunitense, JAMA, che ha analizzato i colloqui che in una Terapia Intensiva pediatrica avevano lo scopo di affrontare con i genitori i processi decisionali di fine vita. Pertanto, il soggetto era un bambino con una malattia neurodegenerativa in fase avanzata, e si trattava di discutere tra equipe e genitori le scelte da prendere. Si trattava dunque di scelte che riguardano il confine vita-morte. Sessantotto colloqui videoregistrati e analizzati e il tema della morte emerge frequentissimamente, più di 400 volte. Ma la cosa interessante è che le parole esplicite “morte”, “morente” compaiano raramente, vengono usate nel 15% dei casi dai medici e nel 5% dei casi dai familiari, e sono sostituite, per quanto riguarda i genitori, da espressioni di tipo colloquiale: “se ne andrà” “non ci sarà”; mentre, e per quanto riguarda i medici, vengono sostituite da espressioni gergali, dello slang tecnico dei medici. L’esilio dunque non è soltanto dallo sguardo, ma riguarda anche il linguaggio, un linguaggio che viene impoverito: la morte viene progressivamente cancellata e questa è la cultura in cui noi siamo immersi. A me veniva in mente, quando parlava Giada, un libro degli anni ‘90 di una sociologa americana intitolato “The craft of dying” («Il mestiere di morire»), la quale diceva che per millenni l’esperienza delle persone è stata quella di vedere in modo ripetuto nella propria vita la morte degli altri, di essere quindi frequentemente esposto all’esperienza della morte degli altri, per poi avere un tempo della propria morte molto breve. Oggi la situazione è mutata e le persone sono esposte raramente o sporadicamente alla morte degli altri, per poi vivere un tempo del proprio morire protratto (malattia cronica, etc.). Questo ha cambiato profondamente il nostro modo di sperimentare la morte e poi di vivere il nostro tempo del morire. Cambiano i paradigmi. Noi abbiamo completamente perso (nei Paesi occidentali) la dimensione del limite. Un eticista statunitense, Kevin Wild, scrisse che noi viviamo un paradosso: abbiamo la convinzione che la medicina sia senza limiti, ma noi in realtà sperimentiamo il fatto che la medicina è governata dai limiti.

A mio modo di vedere, la parola “limite” va letta con almeno tre livelli di significato: c’è dunque un limite di ragionevolezza, un limite di efficacia clinica, e uno di senso. Limite di ragionevolezza: noi non abbiamo sempre una risposta di fronte ad ogni bisogno o ad ogni domanda e dobbiamo esserne consapevoli. Limite di efficacia clinica: questa è l’asticella che noi cerchiamo continuamente di spostare sempre più in alto, esperienza bellissima per chi fa il nostro lavoro e ha delle ricadute concrete stupende. All’inizio dell’epidemia di AIDS nella metà degli anni 80 tutte le persone HIV positive morivano, tutte. Oggi abbiamo spostato l’asticella più in alto: una persona HIV positiva ha una aspettativa di vita sovrapponibile a quella del resto della comunità. Se noi possiamo ridurre la mortalità, non possiamo però annullare la morte. Non avere consapevolezza di questo è drammatico, perché ci introduce in un meraviglioso delirio di onnipotenza. Limite di senso: ogni azione nell’ambito della cura deve essere sempre scandagliata dalla ricerca di un senso, di una accettabilità, anche sul piano etico: non tutto ciò che è possibile fare è accettabile dal punto di vista etico. Mi ha colpito molto quello che diceva Giada sul professore universitario, perché se si crede che pensare alla potenziale morte del paziente vuol dire aver sbagliato mestiere, mi viene in mente quello che scrisse Victor Fuchs, un economista dei sistemi sanitari, che aveva coniato il termine di «imperativo tecnologico», cioè la tendenza dei medici a mettere in atto delle azioni per il semplice fatto di avere a disposizione la tecnologia per attuarle e per il semplice fatto di essere stati addestrati a compierle, a prescindere da qualunque senso. Vedete come è complessa e sfaccettata la realtà del morire in ospedale e del morire oggi nei paesi occidentali. L’ultima cosa che aggiungerei è un elemento che mi ha fatto conoscere un collega dell’università di Padova, noi dobbiamo sforzarci di contemplare una dimensione molto particolare, che un filosofo aveva espresso parlando di decent society. La traduzione non deve essere letterale, si parla di società rispettosaattenta, sia nelle azioni di cura, sia nella cura della persona che si avvicina alla morte. Noi non dobbiamo, in qualsiasi il contesto, offrire soltanto delle prestazioni, ma dobbiamo essere una società che non umilia le persone che sono in una situazione di bisogno. Dobbiamo individuare modalità e gesti attenti, rispettosi, delicati. Questa è una delle sfide che la nostra comunità deve affrontare quando pensa o ripensa ad un sistema sanitario in crisi. Fare sì che le nostre azioni siano attente, rispettose e che non umilino l’altro.

Claudio Baroni Attenzione, ricerca del senso, senso del limite. Prenderei spunto da queste osservazioni per fare il secondo giro di domande. Se la realtà è quella che abbiamo descritto, come possiamo prenderci cura di questa realtà, quale intervento è possibile e come avviene? Inizierei dalla dottoressa Luisa Sangalli perché mi ha colpito che all’interno del diario della Dusi lei dice che non riesce a pensare al dolore come a una sola questione fisica e parla della multidimensionalità dell’individuo. Siccome la sua sfida è quella di affrontare il dolore, cosa significa questo concretamente?

Luisa Sangalli Questo è un concetto molto caro alle cure palliative, quello del dolore globale della persona. Io penso che la svolta, la piccola leva, che le cure palliative stanno compiendo sia a livello della società, sia molto all’interno della medicina, è l’approccio alla persona. Noi stiamo crescendo in una realtà che tende a parlare di prestazioni: prestazione sanitaria, azienda sanitaria. Noi però non trattiamo con degli oggetti, ma ci occupiamo delle persone. L’approccio delle cure palliative è quello di mettere al centro la persona, con tutte le sue dimensioni: avere le competenze per togliere la pesantezza dei dolori fisici e non voltarsi dall’altra parte quando ci sono altre dimensioni della persona, come il desiderio di essere puliti, il desiderio di essere ascoltati o semplicemente il desiderio che ci sia qualcuno accanto. Un corpo sofferente ha bisogno di un corpo presente. Molti ci ringraziano per non averli fatti sentire soli e questo è il punto fondamentale. Il fatto di essere presente, di non scappare, di non abbassare lo sguardo, di ascoltare, di offrire uno spazio fisico, umano, corporeo, questo è molto importante. Questo è il veicolo con cui aprire il dialogo. Bisogna rimettere al centro la persona. Occuparsi di cure palliative significa essere capaci di gestire tutta la rabbia che ti viene scaricata addosso, non è sempre un discorso poetico, bisogna accogliere anche questo e riuscire ad accompagnare fino alla fine. Le cure palliative devono penetrare tutti gli strati della medicina, dall’ospedale, alle RSA, alle case, agli hospice, alle case-famiglia, alle scuole etc. Mettere al centro la persona, non la prestazione o l’efficienza. La sofferenza più grande dei nostri pazienti non è tanto il dover morire, ma il dover dipendere, il non essere più autonomi, questo mi fa molto pensare, è possibile che nella vita il valore assoluto che ti fa soffrire è non dover dipendere, noi siamo fatti di dipendenza, se non dipendessimo dagli altri non esisteremmo e questo oggi è un disvalore.

Claudio Baroni Vorrei prendere questo argomento della cura vicino alla persona e passarlo a Giada Lonati; la solidarietà sociale, la rete, il volontariato, le organizzazioni, quanto contano?

Giada Lonati Nell’ambito delle cure palliative conta molto, anche se dovrebbe essere qualcosa di garantito, si appoggia molto sul volontariato. Io penso all’organizzazione per cui lavoro, VIDAS, fondata da Giovanna Cavazzoni, perché lei da ragazzina stava per diventare una cantante lirica, poi fu la moglie di Claudio Abbado dal quale ebbe due figli, e quando studiava da ragazzina la sua insegnate di canto si ammalò, lei aveva 15anni e ha vissuto l’esperienza di vedere questa donna morire sola e abbandonata. Dopo la fine del suo matrimonio finisce a lavorare all’istituzione dei tumori dove si rende conto, alla fine degli anni 70, che la situazione non era cambiata, quando le persone non sono più guaribili sembra che non siano nemmeno curabili e vengono abbandonate. Inizia questo progetto dal niente, inizia con dei volontari e uno psicologo ad andare a casa dei pazienti che stanno morendo e si rende conto che non basta tenere la mano, perché quando uno ha dolore bisogna dargli dei farmaci e bisogna imparare a darglieli bene e se uno non riesce più lavarsi, bisogna lavarlo e se uno ha le piaghe bisogna medicarle. Piano piano lei costruisce delle equipe multidisciplinari in cui entrano tante figure professionali diverse: come minimo infermiera, assistente sociale e medico e poi a crescere psicologo, assistente spirituale etc. Il grosso dell’assistenza lo facciamo a casa, abbiamo 20 posti letto in Hospice adulto e sei nell’Hospice pediatrico e oggi a casa abbiamo 270 pazienti, anche per noi la casa è il luogo più importante della cura, ma non sempre questo è possibile. Ho presente un papà giovane che disse di volere venire in hospice nel momento in cui non sarebbe più stato in grado di andare in bagno da solo, perché non voglio che il mio bambino di otto anni veda questa cosa e allora l’hospice è una risposta sociale ed è una risposta al concetto di dignità estremamente soggettivo. La signora Cavazzoni si rende conto della necessità di costruire una struttura, costruiamo il primo hospice residenziale, senza fondi pubblici, con venti posti letti. Poi la signora si ammala e io l’accompagno a parlare con l’oncologo, lei sa che morirà e vuole fare un progetto che resti e facciamo questa pazzia di aprire l’hospice pediatrico. L’empatia è un termine prezioso, ma un po’ abusato, perché l’empatia è sentire che potremmo sentire il sentire dell’altro, ma non ha un significato necessariamente sociale, quello che ha significato sociale è la compassione. I buddhisti dicono che la compassione è il trasalimento del cuore di fronte alla sofferenza dell’altro; questo il mondo del volontariato molte volte lo sa fare, perché ha quello slancio, quella spinta, che io ho visto nella signora Cavazzoni. Lei ha saputo lasciare un’eredità, ha lasciato l’dea che bisogna continuare a fare del bene dove serve. Noi siamo stati i primi a prendere in carico i pazienti non oncologici, ormai il 30% dei nostri pazienti non sono oncologici. È necessario però che il volontariato non sostituisca il pubblico, bisogna fare dei progetti insieme, ma non possiamo sostituirci al pubblico, perché altrimenti rendiamo invisibile un bisogno che invece c’è. Bisogna co-progettare, co-realizzare, costruire una cultura condivisa in cui non andiamo a riempire i buchi che il pubblico lascia.

Claudio Baroni Il fine vita è uno degli argomenti spinosi del dibattito pubblico e non soltanto politico. Lei ha avuto occasione di andare in Parlamento a dire la propria opinione e a condividere la propria testimonianza. Le polemiche si sono succedute negli anni, la Corte costituzionale è stata chiamata quattro volte ad intervenire, l’ultima udienza era di questi giorni, una sentenza è attesa nei prossimi giorni. Qualche indicazione è stata data ma ha insistito per dire che spetta al Parlamento fare una legge, le regioni sono andate in ordine sparso: dal Veneto dove è stato bloccato perché la decisione spetta al parlamento e non al consiglio regionale, alla Toscana dove è stata fatta una normativa, alla Campagna, la quale vorrebbe fare una normativa. La necessità di una legge. L’impressione che ho io è che la difficoltà, la confusione della politica a giungere ad una legge che abbia una condivisione adeguata, rappresenta in qualche modo anche la difficoltà diffusa tra di noi, diffusa nell’opinione pubblica, è oggettivamente una difficoltà.

Alberto Giannini Il nostro Paese ha due ottime leggi che sono la 38 del 2010 e la 219 del 2017. La prima è dedicata alla terapia del dolore e alle cure palliative, mentre la seconda, nota come legge sulle disposizioni anticipate sul trattamento, in realtà, più correttamente, è una legge che riguarda il consenso ai trattamenti, le disposizioni anticipate e soprattutto – ed è l’aspetto più importante – la pianificazione condivisa delle cure. Questo genere di normativa è ampiamente disatteso nel nostro Paese: normative poco conosciute anche nell’ambito sanitario e ospedaliero, poco attuate e dove gli accordi Stato-Regioni non sono stati applicati. Ricordiamoci che abbiamo una normativa solida, molto importante, ben scritta, molto ben considerata anche all’estero. La comunità nel passato aveva completamente delegato al medico, nel contesto di una medicina paternalista, tutto il processo decisionale. Il cambiamento che è avvenuto negli ultimi cinquant’anni ha comportato una consapevolezza maggiore nella comunità e nei singoli. Anche il legislatore ha poi formulato delle leggi che stabiliscono degli standard qualitativi, come ad esempio per la terapia del dolore e le cure palliative. Questo genere di normativa deve essere conosciuto e applicato. Molto interessante un articolo uscito sulla rivista europea di Terapia Intensiva, intitolato: «Il paziente che cade dal grattacielo». Esso racconta la scena di una persona che cade dall’ultimo piano di un grattacelo, passa davanti alle vetrate dei vari piani dove, dall’interno, le persone lo salutano con la mano. È l’immagine emblematica della traiettoria di una storia di malattia di una persona, con ricoveri sempre più impegnativi – il passaggio di vari piani – sempre più importanti e gravosi, dove in modo stereotipato viene ripetuto «fino a qui tutto bene». Manca cioè la capacità di sedersi con l’altro e ascoltare l’altro, informarlo, renderlo consapevole, conoscere il suo orizzonte valoriale per definire, pianificare, in modo condiviso, le cure. Saper fare tutto ciò è estremamente importante. C’è il tema nei Paesi occidentali della morte medicalmente assistita, tutti sappiamo dell’intervento della Corte costituzionale. La Corte non ha riconosciuto il diritto alla morte medicalmente assistita, ma è stata depenalizzata l’assistenza al suicido in alcune circostanze particolari, le quattro descritte dalla Corte costituzionale. Questo ha aperto degli scenari, accompagnati anche da una grandissima confusione, con iniziative su base regionale, che comportano delle disparità infinite. Ci sarebbero moltissimi temi da affrontare. Ne cito due. La morte medicalmente assistita possiamo contemplarla all’interno di una relazione di cura? L’aiuto al suicidio può essere considerato “atto medico”? Temi importantissimi, grossi come una casa. In questo momento, pur con molti dubbi, a fronte di questo enorme cambiamento culturale, faccio fatica a contemplare l’aiuto al suicidio come atto medico. Noi siamo la prima generazione che affronta questo tipo di argomenti, perché prima la medicina era impotente, fino al primo decennio dopo la Seconda guerra mondiale la medicina era qualcosa di essenziale, il cambiamento radicale è avvenuto con la comparsa degli antibiotici e successivamente con i primi farmaci antineoplastici. La comunità che ci ha preceduto assisteva alla morte, perché la morte era un evento improvviso, rapido, ineluttabile. Oggi noi abbiamo appreso la capacità di interferire con i processi delle malattie, modificando il loro decorso, oggi noi riusciamo a mantenere l’elemento biologico quando il dato biografico viene a spegnersi. Facciamo una fatica enorme a trovare le parole e i riferimenti per parlare di tutto questo. Oggi, qui e ora, io credo che stante l’intervento della Corte costituzionale sia necessaria una legge; abbiamo, infatti, bisogno di definire quali siano i riferimenti e il “perimetro” nel quale ci muoviamo. La realtà del suicidio assistito c’è già oggi, dobbiamo normarla. Io vi indico una modalità e un percorso che potrebbero essere utile alla comunità: «Il Cortile dei Gentili», una fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura, l’estate scorsa, ha reso pubblico un documento sul suicidio medicalmente assistito. Il Cortile dei Gentili è un contesto di confronto e di discussione multidisciplinare tra credenti e non credenti, dove l’obiettivo è quello di affrontare temi di confine, come appunto il suicido medicalmente assistito, e lo sforzo che è stato fatto, con una discussione molto vivace e schietta, in un contesto pluralista, è stato quello di cercare non il compromesso, ma la mediazione. Il compromesso è il tentativo di ottenere il migliore risultato possibile per la propria parte, a qualunque prezzo; la mediazione rappresenta, invece, lo sforzo di ascoltare le ragioni dell’altro e di argomentare le proprie (il comprendere le ragioni dell’altro non significa ovviamente condividerle). Tutto ciò ha l’obiettivo di cercare il più alto livello di condivisione. Questo testo offre degli spunti utili anche per il Legislatore. Oggi abbiamo bisogno di questa legge, e bisogna anche riflettere se tutto questo possa essere compreso come atto medico e come parte della relazione medico-paziente. Con questa risposta piena di “nodi” ancora da sciogliere, restituisco la parola.

Giada Lonati Condivido la necessità di una legge e sul tema dell’atto di cura credo che questa legge dovrà dare la possibilità a ciascun medico di rispondere per sé a questa domanda. Qualche volta il mio percorso di accompagnamento delle persone morenti mi ha fatto capire che peggio di aiutare una persona a morire è lasciarla morire da sola e disperata. Io sono innamorata delle cure palliative, ma non tolgono tutto il dolore, esistono delle persone che, anche di fronte alle migliori cure palliative, chiedono che finisca tutto alla svelta. Chi debba assumersi la responsabilità di accompagnare in questo viaggio credo sarà la coscienza di ciascun medico a dare una risposta. È chiaro che quando una persona ti dice voglio morire, dietro a questa richiesta ci sono mille richieste. Prima di scegliere se essere gli attori di questo suicidio assistito, di essere accompagnatori, essere capaci di fornire tutte le risposte. Intanto che lasciamo la possibilità di scegliere ulteriormente, credo che debba crescere anche la cultura delle cure palliative, anche la cultura delle cure in ospedale, anche un modello di cure palliative che non riguarda solo i palliativisti. Se un poveretto si trova in chirurgia deve essere accompagnato. È vero che la morte del bambino strazia, ma noi nasciamo con il travaglio e moriamo con l’agonia, quella roba lì ci tocca a tutti. Ci deve essere un rispetto totale di ogni singolo individuo e deve essere protagonista fino alla fine, anche se muore a 110 anni.

Luisa Sangalli Condivido il dubbio di Alberto sul fatto dell’atto medico, anche per me sarebbe un travaglio profondo di coscienza e di etica e di pensiero professionale. Quello che vedo come rischio è che non si faccia di questo argomento un’ideologia, io vedo questo rischio, ideologizzando, per definire questa totale autodeterminazione, che è una pura illusione, non siamo autodeterminati, ma dipendenti, credo che il nostro compito sia di togliere l’aspetto ideologico che estremizza e non permette una riflessione serena e profonda. Anche se poi si porrà il problema di come garantire un servizio pubblico, ci sarà questo nodo profondo da affrontare, per fare in modo che non ci siano dei ghetti, dei luoghi deputati a fare solo quello.

Giada Lonati [risponde ad una domanda dal pubblico] Non confonderei la sospensione di un trattamento con il suicidio assistito, perché quest’ultimo significa che viene messo il paziente nella condizione di autosomministrarsi un farmaco che interrompe in quel momento lì immediato la sua vita, non ha niente a che vedere con altri trattamenti. Sospendere per esempio un’idratazione o una nutrizione artificiale non è praticare l’eutanasia e se un paziente decide di smettere di assumere dei farmaci o di fare5 dei trattamenti non si sta suicidando, sta sospendendo un consenso che aveva dato in precedenza, perché il consenso è sempre attuale, uno può decidere di smettere un trattamento. Rispetto ai pazienti dementi è un tema molto delicato, è chiaro che quando parliamo di suicidio assistito parliamo di persone che sono componenti e in grado di prendere decisioni, non possiamo decidere noi per il nonno etc. se i pazienti dementi hanno espresso una volontà precedente relativa ai trattamenti che vorrebbero o non vorrebbero, quella è la volontà che deve essere rispettata. Altrimenti è una scelta dei medici che possono avvalersi del ruolo del fiduciario, dell’amministratore di sostegno o i decisori sostitutivi, utilizzando i familiari come supporto per prendere le decisioni sul fine vita. C’è una necessaria assunzione di responsabilità dei medici che definiscono se un trattamento è più o meno appropriato.

Claudio Baroni Siamo di fronte ad un bivio che caratterizza la nostra società di oggi: confusione rispetto alla potenza della tecnica e all’impotenza della società.

Nota: Trascrizione, non rivista dagli Autori, dell’incontro promosso da Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 27.3.2025. Nell’occasione sono intervenuti:

  • Alberto Giannini (Direttore U.O. Anestesia e Rianimazione Pediatrica Spedali Civili di Brescia)
  • Giada Lonati (Direttrice Sociosanitaria VIDAS Milano)
  • Luisa Sangalli (Medico di Cure Palliative).

Ha moderato l’incontro il giornalista Claudio Baroni.

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