Dalla lotta alla malattia alla costruzione della salute

Ho qualche messaggio, qualche spunto di riflessione da proporvi, perché credo molto nelle cose che vi esporrò e sto lavorando da diversi anni su questa tematica. Io noto che in genere oggi si parla molto di salute: basta aprire giornali, riviste, non c’è giornale che non abbia qualche inserto sulla salute, c’è insomma una sorta di salutismo. E perché tutto questo? Si parla di malattia, di salute, sfumature di new age, e non si capisce che cosa ci sia sotto a questa diffusione, quasi epidermica, talvolta superficiale, questo interesse sul corpo, sulla malattia, sulla salute. Allora cerchiamo di capire qualcosa, cioè di decifrare, se è possibile, dei segni di un cambiamento. Di solito,infatti, quando si hanno certi fenomeni esteriori, nascondono qualcosa che è interessante cogliere per poter poi tentare di valorizzarne i segni migliori, le potenzialità . Vorrei pertanto cercare di capire come si è sviluppato il rapporto con il problema della salute, negli ultimi secoli, con un brevissimo riferimento storico: l’ospedale ( voi sapete che la parola deriva da ospitalità ) nel ‘700, per esempio, era un luogo dove si dava ospitalità ad una serie di persone, gente comune che aveva delle difficoltà, dei disagi, ma non necessariamente legati alla malattia, problemi di carattere, qualche volta povertà, qualche altra volta difficoltà mentale, etc., e a tutta questa ampia gamma di popolazione colpita da qualche situazione particolare di disagio quello che l’ospedale offriva era un’accoglienza, un prendersi cura, in modo anche individuale, personale, per quello di cui la persona aveva bisogno.

E’ chiaro che entro questa gamma di persone con vari disturbi c’era anche chi aveva una malattia, ma questo era uno dei tanti aspetti, per cui il medico, per così dire, che interveniva sul piano proprio della malattia fisica aveva un suo ruolo, ma marginale. Poi, piano piano, con le scoperte della medicina, via via che la medicina cominciava ad affermarsi, ecco che la dimensione medica dell’ospedale diventava sempre più evidente, sempre più alla ribalta, fino a che piano piano il modello medico diventò il modello pervasivo dell’ospedale stesso, e in pratica si verificò una trasformazione per cui gli “ospedali”, erano quei luoghi dedicati alla cura e al trattamento delle malattie. Questa presenza, diciamo così, massiva, ostiva, della componente medica non è stata solo un problema storicamente legato alla funzione medica: il modello medico ha permeato tutta quanta l’istituzione sanitaria, al punto che i modelli, anche amministrativi, o paramedici, diventavano tutti assimilati all’interno di una prospettiva che era guidata da questa grande problematica della cura di ciò che non funziona nell’organismo e del trattamento quindi della patologia.

La patologia è divenuta il fuoco dell’attenzione. Da qui naturalmente è nata una prospettiva sempre più centrata sulla problematica nosografica, di categorizzare, di trovare dei modi con cui rendere un servizio scientifico, nel quale tuttavia la persona pian piano scompariva. Le categorie nosografiche finivano per appiattire le persone, le quali si riconoscevano e avevano un loro ruolo solo in quanto portatrici di certe malattie. Insomma, così l’ospedale può in modo paradossale essere letto come un luogo da dove la persona farebbe meglio a stare lontano. L’ideale sarebbe che portasse la macchina, come si fa dal meccanico, e la lasciasse lì: “ Ecco, ho il fegato malato, ti lascio il fegato, curamelo e poi ritornerò quando lo avrai trattato bene”. Tu come persona dai fastidio. E’ chiaro che sto accentuando un discorso al fine di porre in luce però la depersonalizzazione del paziente perché, via via che la medicina ha approfondito le sue conoscenze in senso specialistico e la tecnologia medica è diventata sempre più ipertrofica, ecco che la persona, il suo contesto, la sua storia, la sua narrazione diremmo in tempi moderni, ha trovato una collocazione sullo sfondo. Naturalmente nessuno vuole rinunciare ai grandi progressi della medicina moderna, tuttavia io voglio sottolineare il significato di un modello biomedico tradizionale, soprattutto quello che è nato all’ombra del positivismo o con delle prospettive riduzionistiche, e le implicazioni che hanno avuto non solo nel momento storico di allora, ma che tuttora continuano ad avere.

Quando ero studente di medicina, allora c’era la goliardia, e quando eravamo a lezione in aula di anatomia, verso la fine dell’ora di lezione talvolta arrivavano i così detti anziani che ci aspettavano all’uscita per farci il così detto corridoio, che significava che si passava lì di corsa e loro facevano delle carezze molto “gentili”: chi scappava da una parte, chi dall’altra e gli anziani rincorrevano. Una volta io mi rifugiai in un corridoio laterale, vidi una porta ed entrai: buio completamente, questo ricordo l ’ho vivissimo, entro e sto fermo e non mi muovo fino a che sento la canea urlante di quelli fuori, nell’ombra muovo la mano e sento un braccio freddissimo. Era un cadavere, e lì per lì ebbi una strana reazione, poi pensai che era meglio il cadavere innocuo piuttosto che quelli che erano fuori, e stetti lì per un altro quarto d’ora. Io uso questo mio episodio come termine simbolico: quello è stato il primo incontro con la medicina, ma il primo incontro degli studiosi con la problematica della malattia è stato l’incontro con i cadaveri, lo studio dell’anatomia, la morte. E’ comprensibile. Ma non bisogna dimenticare questo passaggio, cioè che, in fondo, quello che ha guidato la medicina è stato il tentativo di capire il corpo, il cadavere, quasi per esorcizzare la morte, per tenere lontano la morte dal corpo. Ma la morte non si può denegare, il concetto di morte, cioè la paura della morte, come se la morte non appartenesse alla vita: secondo me è importante, per arrivare al concetto di salute anche moderno, capire che la morte fa parte della vita, così come anche la malattia. Tuttavia nei tempi più recenti, insieme ai grandissimi vantaggi che la medicina ha portato, è successo qualcosa: l’eccesso di specializzazione, come dicevo prima, ha creato un senso di difficoltà, di disagio.

Ma soprattutto quello che ha inciso in una prospettiva di cambiamento è stato il cambiamento generale dell’epistemologia, che rifluisce anche all’interno del mondo biologico a partire da altri settori della cultura in senso ampio, e quindi lo smantellamento di un pregiudizio riduzionistico che non regge più, l’avvento dell’epistemologia sistemica, nel senso dell’apertura in chiave evolutiva e costruttivistica, ecc. Tutte queste modificazioni, questi che come vasi capillari della cultura hanno permeato il mondo medico, tutto questo ha messo le premesse per una prospettiva di cambiamento. In questo ambito si cominciano ad avvertire i segni del progresso di una prospettiva strettamente biomedica in senso riduzionistico verso un’apertura ad un modello che è stato definito biopsicosociale, cosa che nel dopoguerra si è affermata e che oggi viene diffusa anche attraverso l’organizzazione mondiale della sanità. Il volto della medicina tende dunque ad allargarsi alla presenza di altre discipline che riflettono dal loro angolo prospettico sul problema salute – malattia, sulla totalità dell’organismo che è una unità inscindibile e che richiede più sguardi specifici per cogliere il senso dell’unità totale. In questo anche la psicologia ha fatto i suoi passaggi, cioè è stata accettata in questo circolo ed ha contribuito a sviluppare in un’altra tensione la problematica di salute-malattia. La psicologia ha avuto una accoglienza negli ultimi 20 anni per lo meno abbastanza importante, anche perché di fatto si è dimostrato che era utile, e perciò ha potuto inserirsi anche per ragioni visibili, pratiche, ha potuto dimostrare la sua importanza non solo indiretta, nel senso dei comportamenti, degli stili di vita, ma anche in virtù delle capacità dirette da parte della mente ( quindi dimensioni psicologiche ) di influire sul soma, sul fisico, sulla salute.

Per quel che riguarda l’importanza della psicologia sul piano dei comportamenti, viene citata spessissimo una relazione di un ministro della sanità degli Stati Uniti che, facendo la relazione annuale sullo stato di salute del paese, qualche anno fa disse esplicitamente che oltre il 50% delle morti che erano avvenute negli Stati Uniti in quell’anno potevano essere attribuite a problemi di comportamento, cioè a stili insalubri di comportamento: il fumare, l’eccesso di peso, la sicurezza stradale, il non fare esercizi fisici, insomma tutta una gamma di comportamenti che se avessero avuto un loro orientamento positivo avrebbero evitato molte morti . Questo naturalmente è un dato che ha fatto riflettere e che allarga il senso della posizione egemonica del solo fattore fisico biologico che riguarda la salute. Ma c’è un altro aspetto su cui io invece vorrei raccogliere alcune suggestioni per stimolare le vostre riflessioni, che riguarda le influenze più dirette che eventi mentali, che fattori psichici, hanno sul soma cioè sul corpo, e questo alla luce delle scoperte più recenti delle neuro scienze. Voi tutti sapete che da molti anni, già fin dagli anni ’30, si parlava di stress. Lo stress: anche questa è una parola alla moda. Ma naturalmente lo stress non è solo lo stress fisico, ma è anche lo stress mentale, lo stress psichico. Si è visto come molte patologie abbiano un’origine, o comunque una determinante che rappresenta un fattore significativo, di ordine mentale: perciò è significativo il modo con cui uno si confronta, risponde a certi stimoli, a certi eventi esterni. Un esempio: considerate due persone che viaggiano in macchina, e si trovano imbottigliate nel traffico.

Vi siete mai trovati in un’ora di punta e avendo un appuntamento importantissimo mentre c’è una fila interminabile e non si può andare avanti? Due persone devono andare allo stesso appuntamento e hanno una scadenza importante. Una di queste due persone comincia ad entrare in un circolo di rabbia, di aggressività, impreca, suda, il cuore accelera, e suona il clacson. L’altra invece fa una valutazione molto semplice: “ Se io mi arrabbio, urlo, sbraito, cosa cambia? Io non posso farci niente e il risultato sarà sempre quello”. E legge il giornale. Il primo rischia un infarto, il secondo sta meravigliosamente bene. Il primo rischia un infarto perché i modelli adattivi nostri sono calibrati alla misura di quelli di tanti anni fa, quando era utile avere una pronta stimolazione del sistema simpatico o adattivo etc., che oggi non serve più. E allora noi ci troviamo di fronte ad una serie di situazioni nelle quali il nostro meccanismo è predisposto per certe risposte che non sono più adattive nel contesto della vita sociale attuale. Il problema quindi del mentale che può tradursi sul fisico è molto chiaro e conosciuto: tutte le influenze negative, le così dette emozioni negative che giocano un’azione importante sul fisico, oggi sono studiate.

Un’altra scoperta scientifica di estremo interesse si è avuta quando qualcuno ha cominciato ad osservare che in fondo certe problematiche di ordine psicologico possono avere anche delle ripercussioni su fenomeni che in passato nessuno avrebbe mai potuto ascrivere a eventi mentali. Alcuni medici della Nasa, negli Stati Uniti, anni fa, osservavano infatti che dopo il ritorno degli astronauti a terra, quindi in una situazione stressante, facendo gli esami del sangue, erano diminuite di molto le cellule utili per le difese immunitarie, cosa che un po’ sorprese questi ricercatori perché, 15 anni fa o 20 anni fa, se uno avesse detto che il sistema immunitario, la sede delle difese dell’organismo, riceve delle influenze dal cervello, nessuno ci avrebbe creduto, perché il sistema immunitario per definizione funziona in un modo autonomo: io posso infatti fare una reazione immunitaria in una provetta del sangue, senza bisogno di nessun rapporto con i centri superiori. Successivamente, dei medici australiani vollero studiare delle persone che erano in lutto recente, per esempio per la morte del marito o della moglie nell’arco di un anno, e osservarono che le cellule decretate alle difese immunitarie erano significativamente depresse rispetto al gruppo di controllo. Tra l’altro, statisticamente, nell’arco degli anni immediatamente successivi alla morte del coniuge, aumenta, specialmente ad una certa età, il rischio di mortalità del partner stesso. Allora qualcuno cominciò a studiare gli animali e, per esempio, cominciò a stressare dei ratti, dei topi: dava loro delle scosse elettriche e poi li sottoponeva, diciamo, anche a degli stress psicologici, cioè li faceva stare in ambienti super affollati, ( si vede che anche ai ratti dà fastidio stare in ambienti super affollati ), dopo di che iniettava delle sostanze cancerogene in modo da far sviluppare il tumore; nel gruppo sperimentale in cui c’era stato in precedenza lo stress c’era uno sviluppo molto più rapido del tumore e con una mortalità estremamente più accelerata rispetto ai ratti che non avevano avuto lo stress.

Ci sono altri esperimenti interessanti in cui si andò a toccare un centro del cervello distruggendolo e la sua assenza dimostrò che si aveva una diminuzione delle difese. Questi fatti furono sufficienti per cominciare a richiamare l’attenzione di un gruppo sempre più nutrito di ricercatori. Cito un esperimento che può essere interessante per capire i meccanismi nel rapporto mente – corpo, fatto non molti anni fa, negli anni ’70: condizionarono i topi ad avere nausea per una certa sostanza, dando prima da bere la saccarina, quindi acqua dolcificata, perché l’animale sviluppasse una nausea nei confronti di questa acqua e zucchero, e subito dopo facendo una iniezione di ciclofosfamide che è una sostanza che per l’appunto dà nausea. E infatti i topi, quando avevano bevuta l’acqua e avevano subito l’iniezione, dopo avevano repulsione nei confronti dell’acqua zuccherata. Ma la cosa strana che si osservò è che successivamente, senza più dare ai topi la sostanza, bastava l’acqua e questi animali cominciavano a stare male, fino a che morivano. Così ci si rese conto che la sostanza usata, il ciclofosfamide, oltre che provocare nausea era anche un forte soppressore delle difese immunitarie, un forte immuno soppressore. Cosa successe allora? Che tutte le volte che l’ animale, anche senza prendere di quella sostanza, prendeva l’acqua, era come se prendesse una dose di quella sostanza, e per questo moriva. Ma allora, se così è, vuol dire che questa immuno soppressione è legata ad un fattore centrale, è legata al cervello, perché il condizionamente avviene solo attraverso il cervello.

Questa fu una cosa che aprì addirittura la strada per la neuro psico immunologia, che è una disciplina moderna in cui si comincia a ragionare in termini di neuro psico immunologia, cosa che era un’eresia impensabile anni addietro. Questo per capire come sta crescendo la quantità di conoscenze che rendono sempre più chiaro lo stretto rapporto mente- corpo, ma adesso vi voglio sconvolgere ancora di più con ricerche recentissime, dove comincia a cambiare addirittura il senso stesso dell’idea che noi abbiamo di cervello. Qual è il discorso che sta emergendo? Voi avete sentito parlare forse delle endorfine. Le endorfine sono delle sostanze che vengono prodotte dal cervello e che sono come la morfina. La morfina ha certi effetti: fa passare il dolore, dà l’euforia etc. Il cervello nostro produce delle endorfine e questa è stata una scoperta che ha messo in evidenza delle capacità, delle potenzialità del cervello di influire sull’umore, sull’andamento e sul funzionamento a livello cellulare di tanti sistemi. Ma il fatto è che queste molecole che sono state osservate , le endorfine, hanno una catena particolare di aminoacidi, che si chiamano Peptidi, cioè delle molecole secrete dal cervello. Però piano piano ci si accorse che queste molecole non erano solamente nel cervello, ma erano anche nel corpo, nel sistema immunitario, erano anche nella milza, nel fegato, erano dappertutto. Poi finalmente si capì che erano veramente diffuse in tutto il corpo, e non solo le molecole, ma anche i recettori di queste molecole. Allora si cominciò a capire che lungo tutto il corpo c’è una trama di comunicazione che va dal cervello al corpo, e dal corpo al cervello, che è una rete incredibile di possibilità, come se ci fossero milioni di satelliti pronti a recepire una serie di messaggi: queste molecole non sono altro che messaggi che portano delle informazioni particolari che modificano, che alterano. Si capisce quindi la prospettiva che si sta aprendo adesso, su cui si fanno molte ricerche, e persino le case farmaceutiche hanno speso migliaia di miliardi: chissà cosa vorranno fare di queste molecole, magari inventare la pillola che rende felici, poi la pillola per diventare tristi e così via; ci sono degli aspetti che possono far paura e non far paura, ma il fatto è che il problema di una capacità comunicativa fra corpo e mente molto diversa da quella che pensavamo un tempo è in atto nelle neuro scienze.

Le neuro scienze si stanno sviluppando con una velocità vertiginosa. Io credo che ancora conosciamo pochissimo del cervello, ma certamente solo guardando al numero dei congressi di neuro scienze si capisce che qualcosa sta cambiando anche nel modo in cui noi valutiamo il processo di salute e l’importanza che può avere il fenomeno psichico oltre a quello biologico: c’è qualcuno che dice che uno può controllare la propria salute, per esempio che la farmacia migliore non è quella che sta vicino a noi, dietro l’angolo della strada, ma è quella che sta dentro la nostra scatola cranica, cioè il cervello. Pertanto rispetto a queste prospettive bisogna cominciare ad allargare il nostro angolo di osservazione, anche per quel che riguarda la mente e la psicologia. Fino adesso ho cercato di farvi vedere come, partendo da una certa prospettiva strettamente biologica e terapeutica, ci si stia allargando verso la comprensione che non solo il corpo ma anche la mente, la psiche, ha una sua importanza, tuttavia la psicologia moderna ha anch’essa un difetto d’origine: è nata alla fine del secolo scorso ed è nata sotto una forte influenza del modello medico, per cui ha finito per sviluppare una modellistica che è molto simile a quella medica, cioè di centratura sul problema che riguarda la patologia. In altri termini, molti psicologi fanno psicoterapia, va benissimo perché è giusto, però psico terapia è un modello medico, è cioè centrare in maniera particolare l’attenzione sul patologico, con l’illusione di distinguere ciò che è patologico rispetto a ciò che è normale, che è molto complicato. Il modello è quindi quello derivato dalla grande prevalenza del modello egemonico medico, che in particolare all’inizio del secolo era così forte da improntare di sé anche lo sviluppo della psicologia: il termine psicologia chimica, il termine psicoterapia, sono termini medici. La psicologia è nata purtroppo sotto l’influenza di un modello che non era quello dal quale essa, come scienza, stava attingendo le conoscenze di base, tanto è vero che c’è una specie di scissione fra le competenze della psicologia generale di base di ricerca e le competenze applicative. Voglio dire che, comunque, il fatto di avere allargato in senso sistemico la visione del problema salute – malattia non vuol dire avere superato una modellistica che è quella determinata dal modello positivistico nelle sue accezioni negative.

Vengo adesso alla seconda parte del mio discorso, per sottolineare come ci sia ancora tutto un versante pressoché intoccato. E qual è questo versante? Fino a poco tempo fa, quando si parlava di salute, come la si definiva? Come si definiva la salute fino a pochi anni fa? La salute era assenza di malattia, cioè la si definiva al negativo: “quando non c’è malattia”; dunque la si definiva come quella cosa immisurabile, quella cosa che c’è e che nessuno sa dire esattamente che cos’è, ma che comunque è assenza di malattia: così il fuoco dell’attenzione era sulla malattia. Poi, quando il modello bio psico sociale è emerso con particolare forza, allora c’è stata una particolare definizione, fra l’altro accettata anche dall’OMS che dice che la salute “è uno stato di benessere bio psico sociale”, biologico, psicologico, sociale. Non è un gran ché questa definizione, però è importante che a questo punto abbiamo una definizione in positivo della salute: è uno stato di, non è semplicemente un’assenza di. Provate ad immaginare adesso che anziché definire la salute come assenza di malattia, noi facciamo l’operazione inversa, noi cominciamo a definire la malattia come assenza di salute, cioè cominciamo a concentrarci sulla salute: là dove non c’è, questa diventa malattia. Questo è un discorso che può sembrare un esercizio mentale, ma ha un senso nel far notare come ci sia tutta una prospettiva che aspetta di essere affrontata in un modo concreto, in un modo approfondito. Infatti non c’è solo la patogenesi, cioè il meccanismo con cui da un evento biologico organico o psicologico si arriva alla malattia, ma c’è anche un evento, un movimento, un qualcosa che anziché portare alla malattia, porta alla salute, costruisce salute, salutegenetico.

E naturalmente quando uno introduce questa dimensione, che è un po’ l’uovo di Colombo, si trova in assenza di parole. Perché? Perché non è stato costruito questo versante. Ed è da domandarci perché. In fondo è straordinario, perché qualunque farmaco che noi diamo, non è che sia esso la causa della guarigione, ma solo sollecita i meccanismi che l’organismo ha per guarire. Della grande saggezza del corpo, costruita in millenni di evoluzione , di questo noi ci siamo completamente dimenticati, anche se Galeno diceva che in fondo il medico è solo l’assistente della natura, noi ce ne siamo dimenticati. Si tratta di riscoprirlo in chiave moderna , non in modo generico, come fanno gli sciamani, con tutto il rispetto degli sciamani, ma utilizzando la scienza moderna per quello che può dare, con tutti i suoi limiti, per capire i meccanismi con cui l’organismo funziona, e bisogna averne una visione più globale, perché l’organismo ha una sua funzionalità complessiva che è molto al di sopra delle singole parti. E allora da dove si parte? Per fare, diciamo così, qualche accenno ai meccanismi salutegenetici, non vorrei riferirmi solo a quei meccanismi che stanno interni al nostro corpo, ma vorrei sviluppare una visione sistemica in cui vedere i meccanismi salutegenetici lungo tutto l’arco dei vari livelli di organizzazione che vanno dalla cellula fino al rapporto organismo ambiente, in senso sociale ma anche in senso ecologico e così via, dove tutti i livelli del sistema sono attraversati da un movimento salutegenetico, oppure da un movimento patogenetico. Oggi siamo tutti consapevoli non solo di un problema interno all’organismo, ma di un problema interno alla società, di una malattia del sociale ed un inquinamento non solo ambientale, ma anche culturale e così via, e siamo consapevoli che non è più possibile immaginare un processo di salute che si limiti ad un discorso strettamente individuale.

Purtroppo siamo stati abituati a pensare malamente in questa direzione, perché i meccanismi di prevenzione della salute sono stati messi sullo sfondo. Allora, riguardo a tutte queste tensioni di salutegenesi, che dalla cellula vanno all’universo, per così dire, occorre anche cominciare a decifrare, sul piano del possibile interesse scientifico, quali possano essere i meccanismi che rendono comuni i processi ai vari livelli di complessità del sistema, a partire dai più semplici, ai più complessi. Se noi andiamo a vedere come si sviluppa il cervello, e la mente, dalle primissime fasi di vita, prima ancora della nascita, fin dall’inizio, importante è non tanto capire come i singoli neuroni e le singole cellule nervose del cervello processino l’informazione cioè agiscano, ma è importante capire come si rapportino fra di loro. Si scopre così un disegno affascinante: che lo sviluppo di certi schemi, di certe funzioni cognitive, emotive, cerebrali, fin dalle primissime fasi, è legato ad un processo in cui si compensano distanze di vita e distanze di morte. Vi sorprenderà sapere che la nascita di certi schemi, di certe funzioni, e parlo dei primi giorni di vita, è legata alla capacità del sistema di morire ad alcune certezze, è legata alla capacità di morire dei neuroni e di una ridondanza enorme di connessioni cerebrali ( che si riducono selettivamente per organizzarsi attorno a schemi la cui emergenza vitale è legata per la morte ), e alla capacità di rinascere in rapporto alla morte della ridondanza: quindi la crescita è legata al saper mortificare certe esuberanze, certe potenzialità enormi, come la ridondanza sinaptica etc.

Già sappiamo da qualche anno di questa selezione, di questa stabilizzazione selettiva dei circuiti, ma il fatto ancora più importante è capire come questo processo di stabilizzazione selettiva ( morte dei neuroni etc. ) sia legato ad un progetto genetico, cioè nasca da un incontro tra l’ambiente e ciò che l’organismo ha, cioè l’eredità genetica, la predisposizione a formare certi circuiti o meno. Allora poi, entrando in profondità, si è visto che questi singoli neuroni sono programmati a suicidarsi, a meno che non ci sia un incontro, non vengano in soccorso delle altre cellule che li toccano e in qualche modo li stimolano a non uccidersi. E’ un incontro straordinario tra genesi ed epigenesi, che costruisce in un processo di vita e di morte, e il superamento della morte avviene attraverso la relazione di un altro neurone: e quindi, se noi ci spostiamo da questo livello degli eventi biologici ad un livello un pochino superiore, ci accorgiamo come interviene quel concetto di mutualità, di relazionalità, di sviluppo. Vi vorrei citare una ricerca che abbiamo fatto di recente ( il mio ambito di ricerca ormai da moltissimi anni è quello del sonno e del sogno, dove lavoro da tanto tempo, ma per capire qualcosa di più di questi fenomeni ho cominciato a studiare i neonati ): abbiamo visto che il neonato, già nei primi giorni di vita, mentre sta nel sonno in quella fase che da adulto sarà il sonno rem, cioè quando si sogna e anche il bambino sta sognando a modo suo, presenta dal punto di vista degli atteggiamenti facciali tutte le emozioni che si rilevano nell’adulto, il pianto, la tristezza, la sorpresa, la gioia, in particolare si vede fortemente il sorriso.

Il cervello infatti sta programmando, proprio nello stato sognante del bambino, sta programmando gli schemi che sono così importanti per la sopravvivenza, cioè le emozioni. Abbiamo poi seguito nei giorni l’andamento di questo fenomeno e abbiamo visto che ad un certo punto la quantità di sorrisi nel sonno diminuisce, diminuisce, fino a scomparire, fino a morire. Che succede? Che peccato! A quel punto nasce di giorno. Scompare nel suo processo organizzativo, muore lo schema, ma emerge di giorno quando il bambino di un mese e mezzo o due comincia a sorridere verso il volto della madre. E’ un momento di estremo interesse perché il bambino muore ad una fase precedente per riemergere ad una fase nuova, se c’è un altro che gli sorride. E’ il momento in cui il bambino sorride alla madre e la madre sorride al bambino, è il momento in cui tutti e due, ecco la mutualità, ricevono qualcosa, perché il momento in cui il bambino sorride è la sua grande salvezza evolutiva, è il riconoscimento del volto dell’altro, e per la madre il fatto di essere riconosciuta è profonda gratificazione evolutiva. Per cui c’è un modello, quello della mutualità, della interdipendenza, in cui non c’è una simbiosi, una prevaricazione, ma una crescita in rapporto alle proprie linee: dando ricevo, e ricevendo do. Cosa che avviene anche a livello biologico più basso. Questo, naturalmente, se riportato ai vari livelli fino alla interdipendenza sociale, è un discorso su cui si può cominciare a costruire qualcosa lungo il percorso della salute: suggestioni, suggestioni in cui però deve rimanere il concetto che la morte appartiene alla vita e la vita appartiene alla morte, e l’intreccio di queste cose va visto. Per darvi il senso di quanto cammino c’è da fare in questa direzione ritorniamo ad un livello più semplice: voi sapete che cos’è l’effetto placebo? Significa che viene dato un farmaco, magari in questo farmaco non c’è niente, è una pillola vuota, però la persona crede che sia un farmaco e questo farmaco le fa bene, cioè la cura. Nella ricerca moderna  in  campo biomedico, in campo clinico, non si può pubblicare una ricerca se non c’è il gruppo di controllo in cui si dimostra che quel farmaco è efficace perché ha più risultati rispetto al placebo: io potrei dimostrarvi che il placebo fa più delle medicine in molti casi, e che comunque il 30% dell’effetto che si ha è sempre come minimo complessivamente legato all’effetto placebo; nel campo poi psichiatrico, in campo psicologico, è ancora più alta la funzione dell’effetto placebo, ed è conosciuto da epoche antichissime che esiste questo fenomeno. Pensate ad una sola cosa: i medici ci sono sempre stati nei secoli passati, e avevano prestigio altrimenti non sarebbero stati portati alla corte dei re, quindi vuol dire che la gente riscontrava che avevano una funzione, ma che tipo di effetti diretti potevano avere delle cose risibili che io vi riporto per divertimento, che sono state somministrate nel corso dei secoli passati e che, eppure, funzionavano, come il decotto di sangue di lucertola, sterco di coccodrillo, dente di suino, carne putrida ed escrementi di mosca? Queste cose, ad esempio nell’antico Egitto, venivano date sistematicamente, magari discriminando lo sterco di coccodrillo per una malattia, e nell’Europa medioevale polvere di corno di unicorno, avorio macinato, i ricchi se lo potevano permettere, poi una lacrima cristallizzata di gazzella morsa da un serpente, e potrei continuare. E’ evidente che quindi l’effetto placebo è un effetto sicurissimo. Il problema grosso è capire perché la medicina ufficiale, sapendo che c’è un farmaco così potente, non lo studi: certo mi è difficile immaginare una casa farmaceutica che studia un farmaco che non costa nulla. Comunque sia, il mio non vuole essere un attacco alla farmacologia, perché penso che la medicina deve ancor più specializzarsi, deve andare avanti con molto più rigore, progredendo assolutamente. Il problema è che manca un’altra faccia della luna: il problema è sapere qual è la percentuale di farmaci che non fanno assolutamente niente, quanti hanno preso il sangue di lucertola, ma io ho preso tante di quelle medicine che mi vergogno di avere preso, eppure i medici ufficiali me le davano. Allora il problema è capire come ora ci sia da fare una rivoluzione di pensiero. Vi cito un esempio molto clamoroso: il caso di un pilota che stava malissimo e che ad un certo punto i medici visitarono. Diagnosi: cancro del polmone, stato avanzatissimo, prognosi infausta, pochi mesi di vita, e questo va in clinica e comincia a star male e si prepara alla morte. Poi c’è un certo farmaco, molto discusso nell’ambito medico ufficiale, in quanto per alcuni medici funzionava, secondo altri no. Un medico affronta questo paziente e gli dice: “ Finalmente il problema tuo è risolto, perché c’è questo farmaco che è di grande efficacia, si è dimostrato efficacissimo, cominciamo questa cura e le cose andranno meglio”. Gli dà acqua distillata, nessun farmaco, e questo pilota comincia a star meglio, a guarire, masse tumorali che si sfaldano, e questo riscontrato dalle radiografie, e lui che ritorna a volare, torna a fare il pilota, felice . Però la medicina ufficiale riconosce che questo farmaco non ha nessun effetto, la cosa è scritta sul giornale fino ad arrivare ad essere letta da questo pilota che così viene a conoscenza che questo farmaco non è valido, allora dopo pochi giorni ritorna in ospedale e muore. L’interessante dunque è scoprire che il placebo può diventare nocebo: se uno ha una certezza di vita, vive di più, se uno ha una certezza di morte, muore prima. Ci sono addirittura dimostrati nella letteratura casi di pazienti che hanno mostrato la dipendenza nei confronti del placebo,  cioè che, prendendo delle pillole assolutamente neutre, acqua distillata etc., mostrano tutti i fenomeni di dipendenza, gli stessi fenomeni che si hanno nei confronti delle droghe, dei farmaci etc., con crisi di astinenza incredibili senza il placebo. Che cosa significa tutto questo? Significa che c’è un meccanismo per il quale la speranza, l’aspettativa, la certezza di vita si traduce, o è in grado di parlare, ai sistemi neuro chimici dell’organismo, alle cellule. Come si può tradurre questo? Però è un dato. E se questo è un dato, io di nuovo invito a riflettere sul perché non ci sia un’attenzione focalizzata, e tra l’altro tutte le volte che il placebo funziona e rispetto al farmaco non c’è differenza, allora si dice che questo farmaco non serve a niente, perché si denega che invece il placebo stesso può funzionare. E se poi si riconosce l’influenza mentale, si dice: “ Questo è problema degli psicologi”. Ma non è un problema degli psicologi, perché la salutegenesi non è un problema che riguarda solo lo studio dei meccanismi mentali, bensì riguarda lo studio di tutti i livelli di analisi, per cui l’impegno deve essere collettivo, comune, come per tutti gli altri aspetti. Ma qui veramente nasce una serie di considerazioni che ci porterebbero proprio veramente lontano. Allora, scivolando verso la conclusione, io non posso non denunciare un altro fatto scientifico di grande gravità: dicevo prima dello stress e quindi dei meccanismi che portano le emozioni negative ad avere delle influenze negative sul corpo, ma di queste emozioni negative, come la rabbia, la paura, l’ira, si conoscono i correlati fisiologici. Mi dite voi perché non si sa ancora niente sui correlati fisiologici, non dico psicologici, delle emozioni positive? Cioè, della gioia, della curiosità, non si conosce quasi niente, si comincia solo adesso. Eppure sappiamo che le emozioni positive, per esempio il ridere, hanno degli effetti positivi, documentabili, benefici sull’organismo. Qualcuno di voi avrà letto quel caso  in cui fu diagnosticata una malattia incurabile e il malato cominciò a curarsi da solo vedendosi dalla mattina alla sera film di Stanlio e Ollio e di Chaplin? E rideva tutto il giorno. E questa è una cosa che ha sconvolto, una cosa aneddotica che ha fatto un gran clamore. Al di là del folklore c’è un punto di grande interesse, cioè è chiaro che non si può rinunziare alla cura vera, ma non è questo il punto, il punto è orientare le persone verso una dimensione salutegenetica, cioè capire quali sono i meccanismi della salute, del modo con cui l’organismo totalmente riesce a muoversi in questa direzione. E  se uno si imposta su questa linea, e sceglie un’attenzione verso la filigrana salutegenetica di tutti i livelli dell’analisi, si accorge che anche l’esperto cambia la relazione con le persone, perché se uno si orienta in questa direzione inevitabilmente tocca alle radici la dogmaticità del modello medico, e si pone in una linea in cui, insieme agli altri, esplora i processi salutegenetici. Nel modello medico tradizionale c’è una forte rimozione, ed è una rimozione che, per esempio, si esercita in ambito sanitario sia nel medico che nell’infermiere e sia nel paziente che collude spesso col medico: tutti vogliono rimuovere. Il medico vuole rimuovere la persona dalla malattia, l’infermiere in qualche modo vuole denegare la persona adulta, la tratta spesso come un bambino, il paziente vuole denegare la malattia come qualcosa di altro da sé. In questo processo di rimozione c’è profondamente in gioco la paura della morte, la paura, e non la speranza di vita. Se uno comincia a proiettarsi nella speranza di vita, si accorge che il discorso diventa molto più complicato. In realtà, purtroppo, si favorisce la permanenza di un modello riduttivo e questo modello si è trasferito in modo così forte in tutta la struttura sanitaria per cui  se si entra in un ospedale, a parte alcune situazioni, si trova un modello in cui dominano il dolore, la sofferenza, la tristezza, tutte emozioni che aumentano la malattia. Ma perché non c’è un’atmosfera diversa? Un’ atmosfera di gioia?  Perché si sta male, quindi il male non fa parte delle cose buone .  No, invece il male fa parte della vita: il fatto che qualcuno non abbia delle malattie, non vuole dire che  sia sano, sia felice su tutti i livelli, è infatti possibile che ci siano persone malate che sono estremamente realizzate su un altro livello. Il problema quindi è la sintesi, l’integrazione, l’accettazione della morte, per vivere. Io vedo in una prospettiva assolutamente idealistica, perché non ci sarà un ospedale in cui i medici fanno il loro lavoro, però lo fanno sullo sfondo, anzi non voglio che smettano di lavorare e di progredire con la tecnologia la più raffinata possibile, però vorrei che stessero in disparte e che allontanassero il modello: i medici fanno delle cose indispensabili, ma dentro l’ospedale deve esserci più centratura sulla prevenzione, l’affermazione della salute, lì la persona deve imparare delle cose, a vivere e naturalmente a curarsi. Se ci pensate, vi  accorgerete di quanto poco si fa per la prevenzione e promozione della salute, e quanto ci si accanisca invece fino a strappare le persone dalla morte in un modo anti umano e disumano, perché abbiamo il mezzo che sa, il mezzo terapeutico che deve essere specifico. Io sto facendo una ricerca adesso nell’ospedale pediatrico di Roma e vedo i bambini piccoli che devono fare esami come la tac, la risonanza magnetica, specialmente i bambini oncologici ne fanno molte e piuttosto spesso, e siccome devono stare fermissimi, stanno male, sono stressati e con molti di questi si deve ricorrere all’anestesia generale per fare questa prova. Io dico:” Vogliamo provare a fare un discorso diverso? Trasformiamo in gioco questa cosa, facciamoli giocare, troviamo una persona esperta, un animatore, (e l’ho trovato, bravissimo), che si inventa qualcosa, che quel tubo in realtà dove devono stare è un ostacolo ( ancora non abbiamo determinato la strategia , e non so quale sarà ), e qui in collaborazione con quello che sta fuori però bisogna stare zitti perché il nemico ci sente etc”. Ma naturalmente questo  prevede anche che i medici accettino che si metta “Superman “ dentro la stanza o che si trasformi una cosa che è così seria, importante, gli strumenti medici, in un ambiente che è dissacrante. Vi dirò che adesso questa cosa ha avuto un’accoglienza formidabile, ne sono tutti entusiasti , ci stiamo preparando e non so che cosa succederà , però i bambini sono con una curiosità incredibile, abbiamo fatto filmare loro con una telecamera e poi hanno potuto rivedere quello che hanno filmato, e così via. Se si riuscisse a non fargli fare l’anestesia sarebbe la fine del mondo, anche da un punto di vista pratico. Ma il problema è il toccare un nodo culturale molto grosso, e cioè il medico che abbandona la sua veste del taumaturgo moderno per colloquiare con le persone, per cui il rapporto avviene con la chiara distinzione di ruolo, ma in un’atmosfera in cui tutti collaborano e diventano protagonisti della propria salute: in questo rapporto è chiaro che qualunque strumento che serva per produrre salute, qualunque esso sia, è evidente che serve, e ben venga se c’è il sorriso, il gioco, l’ironia, il senso della gioia, all’interno di un mondo che sembra avere solo cura della morte, e sembra non avere il coraggio di accettare la morte nella vita.

Domanda: Lei ha parlato di prevenzione. Dato che la prevenzione è sempre in rapporto alla malattia,(si capisce molto poco)

Risposta: Questa è una domanda molto importante. Perché, vedete, se io parlo di prevenzione, quando dico che parlo di prevenzione non c’è dubbio che anche promuovo la salute, perché se evito di fumare, è il luogo più comune, è chiaro che favorisco un processo di salute. E’ anche chiaro che se promuovo la salute prevengo alcune malattie. Ma il punto importante su cui riflettere è che la prevenzione come tale è ancora ad un modello che focalizza il tutto sulla malattia. Se io prevengo vuol dire che io sono lì, mi metto uno scudo ma perché devo prevenire una cosa che mi può far del male, cioè la malattia è a fuoco. E’ la processualità che distingue la funzione promotiva di salute di fronte alla funzione preventiva, è diverso porsi, per esempio, nella linea di realizzazioni delle proprie potenzialità, parlo sul piano psicologico, in cui la prospettiva è quella della valorizzazione delle risorse delle persone, anziché la identificazione dei difetti, anziché la correzione dei difetti, E la prevenzione, perché da questa impostazione, da questo modo di vedere le cose ne derivano anche delle conseguenze molto pratiche. Per esempio pensiamo a quanto si parla, nel campo comportamentale alla prevenzione della violenza, dell’aggressività e quindi per prevenire questa si immaginano una serie di cose, si fanno una serie di operazioni, se non addirittura di repressione, ma anche nel campo preventivo. Ma abbiamo mai pensato quanto potrebbe essere più produttivo anziché reprimere o prevenire comportamenti violenti o comportamenti negativi, favorire o promuovere comportamenti pro sociali. Quanto viene speso di tecnologia per favorire, per insegnare fin da bambini la linea dei comportamenti pro sociali? Non secondo il modello anglosassone, pragmatico, ma nel senso proprio dinamico della retizzazione, delle competenze pro sociali. Ma sapete che ci sono delle ricerche recenti in cui si vede che i bambini alla età di 7 anni sono stati valutati rispetto alla pro socialità, dai coetanei. Si diceva, quali di questi bambini in classe tua è quello che più si dà da fare per aiutare gli altri, per cooperare etc. La valutazione che danno i bambini, a distanza di 7 anni arrivata a 14 anni è più predittiva del successo scolastico dei voti che avevano dati dagli insegnanti, cioè valutati sulla pro socialità. Orientarsi, diciamo così, verso la valorizzazione di comportamenti positivi, ed è qui che spingono verso modalità saluto genetiche in cui si tenga presente lo sviluppo individuale e dell’altro, la inter dipendenza etc. Ecco, tutto questo crea più fatica, più attenzione, invece la prevenzione, il reprimere allora devo prevenire la tossico dipendenza, devo fare in modo che… Sì, ma comincia a non prevenire la tossico dipendenza, comincia ma a vivere l’indipendenza, nel senso migliore del termine, che diventa inter dipendenza. Apro una parentesi: penso che molti di voi saranno interessati ai problemi della scuola. Allora, quanto viene fatto, a partire dalla scuola materna, all’interno per dare ai bambini, non soltanto prediche retoriche, ma insegnare a sviluppare le competenze cognitive, i motivi relazionali che hanno, con delle cose che oggi si conoscono e si fanno. Tra l’altro in tutto il mondo si stanno diffondendo queste (life skils?). In Italia è nulla, adesso abbiamo cominciato a fare qualcosa, cioè tutta la valorizzazione della positività, la valorizzazione delle risorse, in campo sanitario il deviare l’attenzione dalla morbilità verso la vitalità. Perché misuriamo solo la morbilità, cioè il grado di patologia e non il grado di vitalità? E’ possibile misurare la salute in termini solo di rapporto ciò che viene definito “Male” per lo più ad un parametro che è la mortalità, la morbilità? E così via.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 13.11.1999 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.