Detti e Contraddetti 1988 – 2° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1988 – SECONDO SEMESTRE

7 luglio 1988.

 GIUSTIZIA INGIUSTA. Tra il 1980 e il 1986 su 1.590.549 imputati rinviati a giudizio davanti ai pretori, ai tribunali e alle corti d’assise – ben 842.045 sono stati poi assolti. È una percentuale di poco superiore al 50%. Di essi ben 123 mila sono stati riconosciuti innocenti per non aver commesso il fatto o con formule analoghe, avendo i giudici stabilito che le accuse mosse dal pubblico ministero o dal giudice istruttore erano del tutto infondate. È ovvio che i dati raccolti e resi pubblici dal Ministero della giustizia andrebbero letti con criteri analitici e che rimane rilevante il numero di quanti sono stati assolti per insufficienza di prove o con formule dubitative. Non tutte le assoluzioni, dunque, sono conseguenza di un’affrettata o errata impostazione accusatoria dei magistrati inquirenti. Tuttavia i dati dimostrano in modo chiarissimo che nel nostro Stato uno dei pilastri della convivenza civile, l’amministrazione della giustizia, funziona molto male. Iniziare processi inutili, peggio sbagliati, per accanimento formalistico o pregiudizio ideologico è spreco di energie e di danaro, distrae da più urgenti impegni, inceppa il funzionamento della giustizia. Il nostro pensiero va non a quelli che comunque riescono a farla franca o a cavarsela con pene irrisorie rispetto ai crimini commessi, ma a coloro che sono innocenti e nondimeno hanno subito lunghi periodi di carcerazione, perseguitati per reati mai commessi, colpiti nei loro affetti e in ciò che hanno di più caro: libertà e onestà. Diritto a non essere privati della loro libertà personale e diritto a non essere derubati dalla stima e dell’onore.

CALCIO E PROPAGANDA POLITICA. Negli anni del dopoguerra il legame tra sport e propaganda politica – non c’erano allora gli sponsor – era ancora molto sentito, malgrado l’abuso nefasto che ne avevano fatto i regimi totalitari, uno dei quali era stato di casa in Italia. Ad un convegno pedagogico un buon ispettore scolastico persisteva nel raccomandare i grandi appuntamenti sportivi come veicoli privilegiati per ravvivare la coscienza nazionale. Però alla mia domanda: «Come la mettiamo se i nostri giocatori fanno una brutta figura?» tacque e arrossì di rabbia. Ma le stupidaggini non erano solo a destra. Prima delle elezioni del 1953 l’Ungheria ci batté a Roma e quella vittoria fu occasione per inneggiare alla superiore civiltà e grandezza del modello sovietico imposto a Budapest. Qualche mese prima eravamo stati battuti anche a Praga dalla Cecoslovacchia ed ecco l’Avanti! scrivere testualmente: «Ieri a Praga erano a confronto due sistemi di vita: ha vinto il migliore». Sarebbe come dire: poiché sotto il fascismo per due volte siamo stati campioni del mondo… Oppure: siccome il Brasile di Pelè ha occupato i primissimi posti per molti anni nelle competizioni calcistiche, il superiore livello di civiltà e di organizzazione politico-sociale di quel subcontinente è irrefutabilmente provato. L’ideologia rende non solo stupidi e bugiardi, ma anche ciechi. Oggi nessuno, spero, ripeterebbe quei sofismi cretini. Questione del tutto diversa è tifare, soffrire, sperare oltre ogni ragionevole misura quando in campo scendono gli azzurri. Ed in quei novanta minuti il telefono deve assolutamente tacere!

ILLUMINAZIONI DA MARIO LUZI. Vincere nel nostro cuore. L’avverso, il negativo / i ciechi, gli ignoranti, i barbari / non solo, ma anche la loro opera: / tutto ciò che devi combattere / devi anche portare su di te, / accoglierlo nel tuo cuore e lì dentro vincerlo. Non aver paura. Non ti esorto a non temere, non ho argomenti. / Ti dico di passar sopra al timore. Quando si è fatto il possibile. Non essere in pena oltre il dovuto. / Quando si è fatto il possibile / e il futuro è un’incognita il cui scioglimento / è rimesso ad altre forze che alle nostre, allora c’è la pace del Logos. Sordità dell’orgoglio. Abbiamo pensato e parlato ma non ascoltato. / Anche nel loro silenzio gli uomini chiedono qualcosa. Tramonto o aurora? Quando si è in alto mare / la luce del tramonto e quella dell’aurora / non sono molto dissimili. La parola. Niente si addice alla parola più che la temperatura del fuoco. La loro idea di sé dov’è finita? Senza un’idea di sé / da dare o da difendere / non si governa, si scivola a intrighi da taverna. Sentire cristiano. La mente cristiana è piena di attesa / e il passato è un seme del futuro o niente.

I versi riportati sono tratti dal poema drammatico, di cristallina evidenza, Ipazia (Milano 1978), che Geno Pampaloni ha acutamente definito «poesia religiosa del mutamento».

14 luglio 1988.

 LA SCIENZA MODERNA DA SOLA PUÒ BASTARE ALL’UOMO? Il fisico atomico e filosofo Carl Friedrich von Weizsäcker, per dieci anni direttore del «Max Planck Institut» per la ricerca sulle condizioni di vita del mondo in rapporto ai progressi della scienza e della tecnica, si è posto più volte il problema. Rivolgendosi ai teologi, l’illustre scienziato ha ricordato loro una cosa che anche gli altri dovrebbero sapere: «I teologi custodiscono l’unica verità capace di andare più a fondo della verità della scienza, sulla quale si regge l’era atomica. Essi custodiscono una conoscenza della natura dell’uomo che ha radici più profonde della razionalità dell’età moderna. Viene sempre, inevitabilmente, e verrà anche in futuro, il momento in cui la pretesa della scienza a bastare all’uomo fa naufragio e la ricerca della verità che illumina la vita fa valere i suoi diritti. Tuttavia l’attuale solida posizione della Chiesa nella società non prova affatto che gli uomini si stiano realmente interrogando sulla verità cristiana. Questa è una verità che persuade soltanto là dove viene vissuta». Del fisico tedesco il lettore italiano può leggere il suo recente intervento «per la giustizia, la pace e la salvaguardia della creazione» nel breve scritto Il tempo stringe (Brescia 1987).

CASI ASSURDI, MA TUTT’ALTRO CHE ISOLATI. Il rinvio degli studenti a settembre, tanto superficialmente criticato, è utile per coloro che vogliono operare il recupero in alcune materie, da ripercorrere con più tempo ed in cui esercitarsi per acquistare in esse sicurezza e rapidità. Ma a un patto: che le materie sulle quali riferire a settembre siano poche. Ed ecco le notizie di segno nettamente contrario che si sono lette sui giornali in questi giorni. In un liceo classico di Milano, che non è certo l’ultima città d’Italia, ci sono stati ragazzi rimandati in sei materie su nove. A San Donato, nel milanese, si è arrivati al record di undici materie. Casi assurdi? Sì, ma purtroppo non isolati.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Nostalgia. Quando ne ero lontano / il dente affilato del suo ricordo mi rodeva le viscere. Decadenza. Un corpo in letargo percorso da oscuri fremiti. La scissione fra potere e popolo. L’isolamento del potere / è nefasto per il potere. Lo è anche per i sudditi / e rende i tempi difficili più difficili. Il fanatismo. Il fanatismo è infido, travolge chi vi si affida / non meno di chi vi si scontra. Nodo d’amore, non cappio. Il tuo amore non tramutarlo in una rete / dove guizziamo in cattività come pesci moribondi. Ben provvisti di angoscia. I casi alterni della vita / talvolta ci nascondono il bandolo / del loro su e giù e si rimane a mezz’aria. / Vuoti? Non proprio. Ben provvisti d’angoscia, ad ogni modo. Il ponte da costruire. Il nostro è un ponte, o forse il sogno di un ponte / verso un tempo di ragione, se mai verrà (Mario Luzi).

LA MANIA: SE ITALIANI, IGNORARLI. È una disgrazia per la nostra cultura ignorare la filosofia italiana. Quasi tutti i testi di filosofia, anche i migliori, o saltano i nostri pensatori del periodo risorgimentale o ne danno un’immagine a dir poco penosa, priva di mordente, che sa di compendio da altri compendi. Siamo italiani, ma ignoriamo il grande pensiero di Galluppi, Rosmini, Gioberti, Cattaneo. Dei filosofi italiani non si dà trattazione decente se non dei neo-idealisti Croce e Gentile. Asserviti al pensiero tedesco, non sappiamo nemmeno di averne avuto uno nostro e di grande valore. In questo processo di perdita della nostra identità filosofica, se si attenua la memoria storica di quanti furono sommi, tende a scomparire del tutto la presenza, la lezione di vita di coloro che nobilmente attestarono un modo socratico di porsi al servizio dei giovani e della verità.

Una delle voci più rare della nostra letteratura filosofica e del magistero educativo fu in tal senso Francesco Acri (1836-1913). Storico del pensiero, polemista efficace contro gli hegeliani di Napoli, dialettico e mistico, insegnò a generazioni di italiani a leggere Platone, di cui accolse in sé il pensiero, facendolo rivivere e germogliare attraverso le sue mirabili traduzioni. Nativo di Catanzaro, figlio di un capo operaio, innamorato di Dante fino a mandarlo a memoria quand’era giovane; precettore, borsista in Germania, fu docente all’Università di Palermo prima e, dal 1871 fino alla morte, a Bologna. Fu cattolico fervente, in un’Italia positivistica; uomo di sofferta e continua meditazione, diffidò sempre della organizzazione «professorale» del suo pensiero. Raggiunse l’eccellenza nel frammento. Unì filosofia, poesia, fede. Amò Socrate e Cristo.

21 luglio 1988.

 LA QUESTIONE COMUNISTA. Nasce dagli errori del Pci? Ci sono anche questi; ma, dopo tutto, qual è quel partito che non ne ha commessi, e anche di gravi? Il fatto è che il Pci è nato e si è sviluppato come partito «diverso», portatore di un progetto di società antitetico a quello della civiltà occidentale: un progetto centrato sull’idea di «società omogenea» nella quale non vi può essere spazio per le libertà individuali e di gruppo. Abbandonare quel progetto significa rinnegare il comunismo. Il Pci, invece, rimane un centauro politico: un partito che vuol accreditarsi come sintesi di socialismo e democrazia, avendo un’anima leninista. Come uscire da un equivoco del genere, che non è congiunturale, ma di struttura? I problemi che Achille Occhetto ha da risolvere sono tanti e forse i più importanti sono insolubili.

LA DONNA DEL CUORE DEL «MISOGINO PLENETARIO». Qual è il sentire di Giovanni Paolo II verso la donna? Lo si dipinge come il misogino planetario, l’antifemminista d’urto, il feroce dogmatico della inferiorità della donna. Ma Wojtyla è tutt’altro. «Giovanni Paolo II è in verità soprattutto un mistico che ha scelto la donna per antonomasia, la Vergine Maria, quale archetipo assoluto della propria ispirazione mistica e del proprio pontificato, tanto che nel suo stemma campeggia la scritta: Totus tuus – tutto interamente tuo! Questa stessa invocazione mormorò, quando si riversò nel sangue, colpito dalle pallottole del suo assassino, in Piazza San Pietro, in quel momento di verità assoluta che separa la vita dalla morte. Culturalmente, egli compie una sorta di sintesi di due millenni non solo di elaborazione teologica, ma di esaltazione da parte dei poeti e degli artisti più eccelsi, di questa misteriosa ragazza, che risponde al nome di Maria di Nazareth… Un enigma su cui filosofi, teologi, psicanalisti ed antropologi si sono piegati. E se non c’è soluzione al mistero, ciò avviene perché, forse, la risposta sta nell’inconscio di ognuno: inconsapevolmente siamo affascinati da questo personaggio di Donna. Come accade a me, senza averlo programmato, quando la ‘vidi’ o ne ritrovai le tracce in Gerusalemme ed a Nazareth». Il giudizio è di Maria Antonietta Macciocchi.

UNA LETTERA DI MARX. È del 15 agosto 1857 ed è indirizzata ad Engels. In essa si leggono queste incredibili parole: «È possibile che si faccia una figuraccia. Tuttavia potremo sempre cavarcela con un po’ di dialettica. Naturalmente ho tenuto le mie considerazioni su un tono tale che avrò ragione anche in senso contrario» (K. Marx e F. Engels, Carteggio, XL, 166). Marx confessa senza alcun ritegno all’amico la sua determinazione di voler aver ragione a tutti i costi e il rifiuto di sottoporre le teorie al tribunale supremo dei fatti. In quelle frasi inquietanti si pone esplicitamente il problema: come fare credere di aver sempre ragione, quale che sia la smentita dei fatti? Dati questi presupposti, perché stupirsi che un Gramsci – malgrado le disillusioni cocenti che gli vennero dal suo partito – sia arrivato a teorizzare ugualmente la natura divina del moderno Principe, cioè del Partito comunista, infallibile e messianico, e la necessità di sottoporre la «massa dei semplici» alla tutela degli «intellettuali organici», titolati passaparola del partito?

LINEA RECTA BREVISSIMA. Cielo e terra. Cicerone loda Socrate per aver strappato la filosofia al cielo e per averla introdotta nella vita e nelle case degli uomini. La lode sta a significare che la filosofia può rendere buoni servigi agli uomini se scende dal cielo, a condizione però di risalirvi, e con l’impegno di tutta la sua opera. La cosa rivoltante. La cosa rivoltante non è che taluni stiano al di sopra degli altri, bensì l’affermazione che costoro, quasi fossero diversi per natura, apparterrebbero a un’altra specie. Il mistero di Cristo. Cristo, a rappresentarcelo come uomo, è un ben altro enigma che quello egizio! Quest’ultimo è corpo di animale da cui erompe un volto umano; quello è corpo umano da cui erompe un Dio. La provvida strettoia. In generale ogni uomo ha un punto di svolta nella vita. Deve passare per quella strettoia per concentrarsi su di sé, per arrivare alla consapevole sicurezza di sé nella vita abituale e, poi, alla sicurezza di una più nobile esistenza interiore. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel)

29 luglio 1988

 PERCHÉ CI VUOLE UNA FORMAZIONE UMANISTICA. È stato osservato che un’attenta ricerca permette, di norma, di ritrovare nei risultati umani e culturali di alcune scuole le radici di alcuni atteggiamenti positivi di fronte alla vita come la misericordia, la lealtà, il coraggio civile. Così, ad esempio, si è potuto facilmente constatare che quasi tutti gli uomini della congiura antihitleriana del 20 luglio 1944 nella loro prima giovinezza erano passati dai banchi dei migliori licei classici e avevano avuto un’educazione umanistica. «Chi ha dovuto sui banchi di scuola tradurre l’Anabasis di Senofonte, ha intuito molto presto che dal trionfo alla sconfitta il passo è breve, che alla tracotanza segue la nemesi. Chi ha letto i Ricordi di Marc’Aurelio – annota Wolfgang Venohr – ha capito, anche se è ancora adolescente, che il potere è soltanto opera dell’uomo, dell’immaginazione umana, che tutto quanto è grande ed eroico porta necessariamente in sé anche qualcosa di donchisciottesco (nel senso di rischioso e gratuito). Quando l’alunno apprendeva: So di non sapere, allora doveva essere per forza immune da ogni fanatismo, da ogni ideologia, libero da idoli o da ipervalutazioni dell’Io». La decadenza, l’insistente svalutazione della dimensione umanistica non rischia di portare alla fine a una specie di barbarie culturale, rendendo progressivamente estranea al nostro Paese l’esperienza vivificante delle più alte forme della vita dello spirito?

VIOLENZA POLITICA E SCHIZOFRENIA DEGLI ANNI SETTANTA. Si tenta di rimuovere il fatto che negli Anni Settanta l’Italia è stata attraversata e scossa dal delirio della violenza. Azioni di guerra civile erano cronaca di tutti i giorni. Quel che più sconcerta era ed è la schizofrenia fra la divinizzazione della triade Lenin-Stalin-Mao, i maestri infallibili del totalitarismo rosso, e il fallimento del comunismo sul piano della realtà storica. Fallimento divenuto ormai evidenza irrefutabile. A partire dal rapporto Kruscev sui crimini di Stalin al XX congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (14-25 febbraio 1956), dalla repressione della rivoluzione popolare in Ungheria ad opera delle truppe sovietiche (ottobre-novembre ‘56), dalla repressione della «Primavera di Praga» operata congiuntamente dall’Unione Sovietica e dalle truppe del Patto di Varsavia (21 agosto 1968). A differenza degli Anni Venti, il Paese ha retto alla sfida e i compagni terroristi alla fine sono stati abbandonati a se stessi. Ma, ancora una volta, chi potrà mai calcolare i guasti operati nelle coscienze di tanti giovani, chi potrà dirci quanto alto è stato il costo umano di quest’ultima apologia della violenza? Quando levatrice della storia è la violenza, le creature che fa venire alla luce sono mostri.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’ideale. Restare puri / e diventare uomini spiritualmente maturi. / Questa è l’arte suprema della vita (Walter Flex). Attualità del francescanesimo. Se i cristiani hanno da riacquistare la loro primitiva visione, occorre rinnovare la profonda intuizione di una vita in armonia con la natura. Poesia e indignazione. L’indignazione può fare poesia, ma dev’essere un’indignazione ricordata in uno stato di tranquillità. (Thomas S. Eliot)

IL PIÙ BELL’ELOGIO DEL RADICALE FELICE CAVALLOTTI. L’ho letto curiosando tra le carte del filosofo Francesco Acri. Egli era consigliere comunale a Bologna, in rappresentanza dei cattolici, e nella seduta del 17 marzo 1898 prese la parola per esprimere il dolore suo e della sua parte per la tragica morte di Felice Cavallotti. «Perché anche noi cattolici ci accoriamo tanto della morte di Felice Cavallotti?» – si chiedeva l’illustre filosofo – «Ci accoriamo – rispondeva – per ciò che, laddove sono molti ad avere nel loro corpo più anime, egli ne ebbe una sola, intera, giovanilmente forte, senza durezza, gentile. Gentile anche verso la nostra fede, la quale non oltraggiò mai villanamente, sebbene egli non avesse il concetto cristiano della vita. Ci accoriamo perché fu ardente amatore di giustizia, odiatore implacabile di tutto ciò che a lui paresse ingiustizia; perché egli fu difensore degli oppressi, o frati e non frati, o monarchici e repubblicani che fossero; perché egli fu vindice delle plebi. Giocò la sua vita tutti i dì, combattendo volontario, immischiandosi fra i colerosi, azzuffandosi con tutti i barattieri ancorché detti onorevole». Le nobili parole di Francesco Acri fanno venire voglia di leggere o rileggere il volume di Raffaele Colapietra, Felice Cavallotti e la democrazia radicale in Italia, edito a Brescia nel 1966. La grandezza di Cavallotti, in fondo, sta nell’aver posto la famosa «questione morale» al centro della lotta politica e di aver difeso le ragioni dello Stato di diritto contro le prevaricazioni illiberali di uno Stato sedicente liberale. Non è poco. Il resto – quel che di teatrale e di declamatorio c’è nella figura di Cavallotti – è oleografia o cronaca che va dimenticata.

4 agosto 1988.

 ADDIO, DOTTOR SCHWEITZER! Il più bel servizio televisivo di Sergio Zavoli? Per me è stato «Intervista al dottor Schweitzer». Farebbe bene la Rai a riproporcelo. È sempre un’esperienza umanizzante – per i giovani e non solo per loro – ascoltare la viva voce di uno dei grandi spiriti del Novecento. Albert Schweitzer, alsaziano, fu pastore, teologo e musicologo. A trent’anni maturò la decisione di dedicare la sua vita agl’indigeni dell’Africa Equatoriale. Si iscrisse pertanto alla facoltà di medicina e si specializzò in malattie tropicali. Si stabilì nel 1913 con la moglie in uno sperduto villaggio del Gabon e sulle rive del fiume costruì le capanne per accogliere i lebbrosi. Da allora alternò il suo «servizio» a Lambaréné con viaggi e soggiorni in Europa, dove tenne conferenze e concerti. Nel ‘52 gli fu conferito il Nobel per la pace. Morì a Lambaréné il 4 settembre del ‘65. In questi giorni un servizio televisivo ci ha informato che il lebbrosario fondato dal dottor Schweitzer sta per chiudere. È una notizia che fa tristezza. Ricordo una domanda dell’intervistatore e una risposta che mi affrettai a trascrivere. «Che cosa rimpiange, dottor Schweitzer?», chiese il giornalista italiano. Schweitzer rispose: «Mi sembra di aver urlato tutta la vita, ma erano solo sussurri. E adesso è tardi. È come quando sopra una tomba mormori parole che avresti dovuto dire prima. La vera lebbra del mondo è quella di non saperci parlare in tempo!».

 «ANCHE A ME, PER LA MIA PARTE…». «Anche a me, per la mia parte, è affidata la civiltà della mia epoca e delle epoche future; anche in virtù dei miei sforzi sarà promosso il progresso delle generazioni venture, la storia dei popoli che sorgeranno nel futuro. Io sono chiamato a rendere testimonianza della verità; la mia vita e la mia sorte non hanno alcuna importanza, ma sono di un’incalcolabile portata i risultati di questo mio vivere. Fedele soldato della verità, ho giurato di tutto fare, tutto osare, tutto soffrire per essa. E se per essa dovessi essere perseguitato o odiato, se dovessi anche morire combattendo al suo servizio, che cosa farei di più di quanto semplicemente è mio assoluto dovere di fare?» (Johann Gottlieb Fichte, Lezioni sulla missione del dotto, 1794, lezione IV). E se la missione dell’uomo di cultura non è questa, se non è lotta contro la viltà dei singoli e dei tempi, se non è accettazione di qualsiasi sacrificio personale, non è meglio parlare di tradimento e resa? Tradimento della causa stessa dell’umanità e dell’autentica cultura che la mette in valore, resa agl’idoli di turno. Ogni conquista reale dello spirito, ogni atto di coraggio nel cercare e testimoniare la verità non vanno perduti, ma costituiscono il fondamento di un ulteriore progresso. Bisogna credere nella fecondità del bene.

IN COMPAGNIA DI FRANCESCO ACRI. Socrate. Socrate è un santo, se non finito, abbozzato. Rispetto a Cristo fu come segno e ombra. Lo Stato e gli insegnanti. Lo Stato ideale procurerà al maestro tanta agiatezza quanta è necessaria perché si serbi sereno, abbia in riverenza il suo ufficio e tutto se stesso dia alla scuola. Ritratto dell’insegnante non ideale. Non ha un’idea che abbia virtù assimilatrice, ma molte e diverse che perturbano la sua mente e la spossano. Non ha per maestro Socrate, ma i sofisti. Il lutto del dubbio abbuia la sua anima. Può addottorarsi e in più d’una disciplina, ma ignora che i principi di umanizzazione sono vichianamente il timore, l’amore, il dolore. La patria. La patria è altra cosa per uno ch’è sazio, altra per chi ha fame. Per un fanciullo è la culla, il sorriso della madre. Per un vecchio è, o dovrebbe essere, tutto il genere umano. Solidarietà dei veri. Un sistema non è falso se le sue parti sono ben congiunte e organate, cioè vive, perché la sola verità è la vita. Chiarezza apparente e reale. Le idee sono chiare per molti quanto stanno come termini fissi e immobili. Ma questa è chiarezza apparente e oscurità vera. La vera chiarezza non dalla quiete viene, bensì dal moto del pensiero che coglie le molteplici relazioni di un’idea, le sue facce, e così meglio dimostra la sua potenza. La rappresentazione bella del brutto, magia dell’arte. Quando il brutto è ritratto con sentimento nativo e ingenuo, allora in questa schiettezza il bello stempera il brutto. La critica interna. La critica per essere efficace è necessario che si fondi sopra il medesimo criterio e principio del sistema, del quale si vuol dare un giudizio.

11 agosto 1988.

 L’ANIMA AUTENTICA DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA. «Contrariamente a ciò che avevo a lungo creduto, la scienza sperimentale non si propone di spiegare l’ignoto con ciò che è noto. Essa mira, invece, a giustificare ciò che si osserva con le proprietà di ciò che si immagina, a spiegare il visibile con l’invisibile, ed evolve con l’evoluzione dell’invisibile, con il ricorso a nuove strutture nascoste, a proprietà ipotetiche». Queste parole le ha scritte François Jacob, premio Nobel per la medicina e direttore dell’istituto Pasteur, nella sua autobiografia La statua interiore, tradotta dal Saggiatore. Esse ci rivelano l’anima autentica della scienza contemporanea molto meglio che non un trattato di epistemologia.

CARO CROCE… FIRMATO EINAUDI. Il volume XX degli Annali della Fondazione Einaudi contiene il carteggio del grande economista con Ernesto Rossi e con Benedetto Croce. Tre liberali molto diversi fra loro. Il primo, assai vicino a Salvemini, ma con forte propensione verso il giacobinismo, non era fatto per capire l’esprit de finesse di Luigi Einaudi. Croce trasformava il liberalismo in una specie di religione della libertà, non priva di aporie e sdegnosamente indifferente alle questioni di politica economica. Fino al punto di non escludere a priori la… soluzione più illiberale, cioè la statalizzazione del capitale: «In idea, non posso escludere che, in dati tempi e luoghi, ciò possa dare maggior respiro e slancio di libertà all’opera umana. Nel fatto, credo anch’io molto difficile questo caso. Ma io ragiono sull’idea e non risolvo casi pratici». Al contrario, Einaudi era kantianamente convinto che ciò che è rigorosamente vero in teoria, proprio perché tale, costituisce lo strumento meno inadeguato per orientarci meglio nei casi pratici e per evitare il maggior numero possibile di errori in un campo, come quello della politica economica, in cui gli errori si pagano. «La differenza non è – scriveva Einaudi a Mario Rossi in una lettera del ‘43 – tra liberista e interventista; ma tra interventismo e interventismo». Ci sono interventi che suscitano responsabilità e iniziativa e ci sono interventi che mirano a soffocare l’una e l’altra. Anche in questo interessantissimo volume non mancano aperture sulle profondità dell’anima umana, su quei valori e quei modi di sentire la vita che in ultima istanza muovono la società. «Una società è sana e vitale – scrive Einaudi – solo se in essa ci sono molte cose incomprensibili, e solo se gli uomini sono disposti a difendere a ogni costo con la propria vita queste cose incomprensibili. Se gli uomini di una società si mettono a ragionar di tutto, si può esser certi che quella società è prossima alla sua dissoluzione».

SPUNTI DI RIFLESSIONE SUI GUASTI DELL’ERA TV. L’immagine prendiamola pure sul serio. Ma prima mi piacerebbe sapere che cosa pensa (Ludwig Wittgenstein). La distanza tra pubblicità e razionalità è ora così grande che è difficile ricordarsi il tempo nel quale esisteva un legame tra loro (Neil Postman). La TV ha prodotto una variante della etero-direzione di Riesman con il bombardamento quotidiano dei sondaggi. C’è gente – il personale politico in primo luogo – che vive con lo stetoscopio sempre all’orecchio e che diventa succube dell’auscultazione del fasullo. E il fasullo non è qui tanto nelle false statistiche (anche se tali possono benissimo essere), ma nel fatto che i sondaggi non discriminano tra rumori e messaggi e nemmeno vagliano l’intensità delle opinioni rilevate o estorte (Giovanni Sartori).

 IL CRIMINE PIÙ GRANDE: TORMENTARE I PIÙ PICCOLI. Il più grave, spietato affronto al senso di umanità e al fondo cristiano del nostro popolo il Paese lo ha vissuto lasciando, per diciassette interminabili mesi, un bambino Marco Fiora, nelle mani dei rapitori, immobilizzato in una caverna, incatenato ai polsi, sistematicamente aizzato dai suoi carcerieri a odiare il padre («la carogna che non vuole pagare»), segregato da tutto e da tutti. Che Marco Fiora ci faccia ricordare quanto è grande, assurda, da non subire assolutamente come inevitabile la sofferenza di tanti altri bambini, vittime come lui di una violenza cieca, bestiale, sacrilega che si manifesta nelle forme più diverse e rivoltanti. Violenza da punire – è un grido della coscienza – col più inesorabile rigore.

18 agosto 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La sola società che può sopravvivere. Può esistere non una società orientata alla felicità, ma solo una società orientata alla verità (Carl Friedrich Weissäcker). Se si discute di miracolo. Personalmente sarei più portato a diffidare di manifestazioni «soprannaturali» perfettamente chiare e coerenti, senza margini di oscurità e di dubbio. In un mondo come questo mi sembrerebbero prefabbricate, artefatte (Sergio Quinzio). Non tutto è riducibile a quello che posso fare. L’uomo d’oggi pretende di sistemare tutto sul piano di quello che può fare. Ma non può fare tutto. La morte lo dimostra. Essa è l’atto esistenziale supremo. Je mors, donc je suis. Io, proprio io e non altro. La realtà è più profonda, dunque, della possibilità. Non posso ridurre tutto a «quello che posso fare» (Vittorio Mathieu). La libertà dalla menzogna. La libertà è libertà di dire che due più due fanno quattro. Una volta stabilito questo, il resto segue (George Orwell). La mediocrità fa tabula rasa di ciò che non è come lei. La caratteristica di questo nostro mondo è che l’anima mediocre sa di essere mediocre e osa affermare i diritti della mediocrità, imponendoli dappertutto (Ortega y Gasset). La filosofia nei libri che non sono dei filosofi. I nuovi pensieri filosofici, o i loro germi, si ritrovano spesso vivi ed energici in libri che non sono di filosofi professionali: per l’etica nei libri ascetici e religiosi; per la politica, nei libri degli storici; per l’estetica, in quelli dei critici d’arte, e via dicendo (Benedetto Croce). Fedeltà al mistero. Noi siamo in preda a una stessa / sbigottita fedeltà al mistero (Boris Pasternak).

LA PAROLA PIÙ DISONORATA È LA PIÙ PURA. «Com’è che lei ripete continuamente il nome di Dio? Come può aspettarsi che i suoi lettori prendano questo termine nel significato in cui lei vuole che venga preso?… Quale parola del linguaggio umano è stata più abusata, macchiata, disonorata di questa?». A questi interrogativi risponde il filosofo ebreo Martin Buber: «Sì, essa è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano… Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo… Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue. Dove potrei trovare una parola che gli assomigliasse per indicare l’Altissimo? Se prendessi il concetto più puro e più splendido della tesoreria più riposta dei filosofi, vi potrei trovare soltanto una pallida immagine di pensiero, ma non la presenza di colui che intendo, di colui che generazioni di uomini con le loro innumerevoli vite e morti hanno onorato e denigrato… Possiamo rispettare coloro che lo disprezzano, perché troppo spesso altri si coprono con questo nome per giustificare ingiustizie e soprusi; ma questo nome non dobbiamo abbandonarlo né sacrificarlo. Si può comprendere che vi sia chi desidera tacere per un periodo di tempo sulle “cose ultime”, perché vengano redente le parole di cui si è fatto cattivo uso. Ma non è in questo modo che le si può redimere. Non possiamo lavare da tutte le macchie la parola “Dio”; possiamo però sollevarla da terra e innalzarla sopra un’ora di grande tormento» (Martin Buber, L’eclissi di Dio, Milano 1979).

FLAIANO, RECENSORE ANTICONFORMISTA. Ennio Flaiano fu anche – per vocazione oltre che per sbarcare il lunario – recensore cinematografico. I suoi primi interventi sul settimanale «Cine illustrato» risalgono all’anno 1940 e sono stati raccolti nel volume Un film alla settimana (Roma 1971) da Tullio Kezich. Malgrado il ‘40 fosse un momento così poco propizio all’intelligenza e al sorriso – la guerra era scoppiata nel settembre del ‘39 e nel giugno anche l’Italia fascista avrebbe rivendicato l’onore di partecipare a un conflitto, che sembrava ormai alle ultime battute ed era, invece, solo alle prime! – Flaiano, che era sulla trentina, non pagò il benché minimo tributo alla retorica imperante. Era già allora ironico, anticonformista, sincero. Così come seppe esserlo qualche anno dopo scrivendo, in aperta polemica con le sofisticazioni pseudoculturali di certa critica cinematografica: «Amo i film divertenti e, al contrario di chi va al cinema soltanto per istruirsi, io preferisco andarci per dimenticare quel poco che so». E sì che se ne intendeva, se fu certamente lui a scrivere le sceneggiature più geniali del dopoguerra (come non ricordare I vitelloni e Otto e mezzo?). Diffidò del troppo osannato realismo, con una eccezione per Roma città aperta di Rossellini. Predilesse Chaplin, Marcel Carné, René Clair, John Ford. Lodò apertamente È primavera di Castellani e In nome della legge di Germi, opere che facevano emergere una linea nuova contro gli immancabili parnassiani. Gli piacque Ossessione di Luchino Visconti, ma non approvò per nulla La terra trema, «espressione di quell’arte di partito che chiede agl’iscritti più rinuncia che giudizio».

 1 settembre 1988.

 PAVESE DICIANNOVENNE. Sono passati ottant’anni dalla nascita di Cesare Pavese e quel suo cercare inesausto tra le ombre della vita, quel suo andirivieni tra nostalgia di un bene perduto e assoluto bisogno dell’assoluto, è tornato a scuoterci. La sua impotenza a risolvere il più difficile dei problemi, quello del male, segna tragicamente la sua arte e il suo destino di uomo; ma quanta nobiltà nell’una e nell’altro! Alla mostra-convegno tenutosi quest’anno alla Sapienza di Roma, le Giornate Pavesiane, è stato presentato un inedito dello scrittore, una sorta di dialogo scritto a diciannove anni, datato 23 dicembre 1927. Già nell’attacco, nel movimento iniziale dello scritto, i due veri interlocutori della disperata ricerca del poeta ci sono. «Erano quei tempi di sogno che si amava ragionare delle cose più alte della vita e dello spirito… vivificate d’immagini di poesia, che tutti adoravano nell’anima, sotto il respiro del cielo. Un uomo molto pallido in faccia attaccò discussione con un gran sapiente, che si scoperse poi essere un gran dio. Il sapiente parlò a lungo, con tutta la sua forza di dolcezza e di vita sofferta, con la sua voce soffocata, ma divina di serenità e di speranza, con nel corpo, e nelle mani e nel volto il fascino sovrumano dello spirito puro. E dietro a tutte le grandi parole di vita nuova ed eterna che pronunciò, due ne pose: le più grandi di tutte, la sintesi, l’origine e il coronamento di tutte. Rinuncia e amore». Per il giovanissimo Pavese «i due termini opposti s’integravano e venivano a dare al mondo la legge più alta»; ma colui che l’ha annunciata, non ha vinto la morte. Assente la fede nel Cristo risorto, la sua parola non diventa impegno e trasfigurazione. E tuttavia è l’incontro con lui quello che sentiamo di dover cercare, perché è quello di cui più sentiamo il bisogno. Nell’ultimo dei Dialoghi con Leucò è scritto: «Si saliva la collina per cercare qualcosa che non sappiamo. Non era né il pane né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi l’altra cosa l’abbiamo perduta». Quanta differenza fra il tormento di Pavese e la presunzione di chi si chiude, a priori, ad ogni serio «ragionare delle cose più alte della vita e dello spirito», elargendo a piene mani su di esse, dall’alto della sua babilonica maestà, il suo acido, disumano disprezzo.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Di straordinaria efficacia. L’insensatezza uccide. Gli altri. Una sana reazione. Siamo brevi. Il mondo è sovraffollato di parole, Coscienza pulita? Aveva la coscienza pulita. Mai usata. Un anticipo da pagare. Molti che avevano preceduto il proprio tempo, hanno dovuto aspettarlo in locali piuttosto scomodi. Domanda obbligatoria. Quando gridano «Evviva il Progresso» chiedi sempre: «Progresso di che?». Il fine e i mezzi. Non si può suonare l’inno alla libertà con gli strumenti della violenza. Il bisogno dell’Oltre. La somma degli angoli di cui ho nostalgia è certamente superiore a 360°. La nuova fonte della mitopoiesi. La produzione di leggende è passata dal popolo in mani ufficiali (Stanislaw Jerzy Lec, Pensieri spettinati, Milano 1984).

PERCHÈ NON RILEGGERE 1984 DI GEORGE ORWELL? 1984 è un’opera celebre. Il lettore italiano dispone dell’ottima traduzione di Gabriele Baldini (Milano 1979). Il suo autore, Eric Blair (in letteratura George Orwell), sta diventando il più grande scrittore della letteratura inglese del XX secolo ed è già il più amato. I suoi libri, nel mondo comunista, vengono ricopiati a mano, con fervore, amorevolmente. Possederli comporta pene tra le più pesanti. La celebrità gli arrivò con La fattoria degli animali nel 1945, cinque anni prima della morte. Ma il suo capolavoro è 1984. Nell’una e nell’altra opera il tema è comunque lo stesso: il tipo più prossimo al totalitarismo ideale è il comunismo russo, il sovietismo come modello classico con procedimenti destinati a diventare universali, in ogni continente del mondo. Orwell fu di sinistra, gauchiste, in funzione di una seria esigenza morale; e per rimanere fedele fino in fondo a quell’esigenza morale – e grazie al discernimento intellettuale che da essa gli venne – fu tra i primi a smascherare la radicale disumanità di un’ideologia e di un regime che devono incutere, su chi li conosce da vicino, un terrore metafisico. Insomma «Orwell sta all’universo sovietico come Burke sta alla rivoluzione francese e Tocqueville alla democrazia», come ha ben detto Alain Besançon (La falsificazione del bene – Solov’ëv e Orwell, Bologna 1900, p.135).

Quando in Orwell caddero le illusioni sul comunismo? Lo ha raccontato egli stesso in uno dei pochi libri onesti sulla guerra di Spagna, Omaggio alla Catalogna. È in Spagna che si accese la scintilla liberatrice. Orwell, convalescente, trascorse nella primavera del 1937 qualche settimana a Barcellona. Poiché il Komintern progettava di trasformare la Spagna in «democrazia popolare», gli emissari politici – in prima fila il nostro Togliatti – e la polizia segreta comunista preparavano il terreno. Dietro le saracinesche abbassate dei negozi di Barcellona erano sistemate camere di tortura. I militanti del Poum (il partito operaio di unità marxista) erano torturati e liquidati, non meno degli anarchici. Orwell vide sparire i suoi amici. Allora Orwell capì.

 8 settembre 1988.

PUÒ UN PADRE ERIGERSI A MODELLO PER UN FIGLIO? Sembra ovvio rispondere sì ed invece da molti anni sono arrivato alla conclusione opposta. Che, di fatto, un padre costituisca un saldo punto di riferimento per un figlio, è cosa innegabile; ma, di diritto, quale padre può avere la presunzione di proporre esplicitamente e direttamente se stesso a «modello» dello sviluppo perfettivo del proprio figlio? E se pretende di farlo, rischia di spingere il figlio sulla via del rigetto sia della figura stessa del padre, sia degli ideali a cui pure il padre vorrebbe che si elevasse. Il cosiddetto «modello» diventa allora per il figlio il «contro-modello» da criticare spietatamente. Il problema non si sbroglia se non si apporta qualche chiarimento. I valori autentici ci sorpassano, ci superano da ogni lato, malgrado le nostre più rette intenzioni. È quindi assurdo pensare che i nostri figli possano vedere in noi genitori la sola o la più alta espressione di ciò che per fortuna ci trascende, avendo ben altro fondamento. Diventa perciò molto più produttivo e sincero mettere a disposizione dei nostri figli il meglio delle nostre convinzioni, indicando loro i testimoni più alti e degni di quei valori che rendono bella e preziosa la vita. Noi siamo un tramite tra la coscienza che si risveglia al senso delle grandi scelte e i valori; solo l’umiltà ci impedisce di diventare un diaframma.

Nell’ultimo libro che scrisse, Agostino ricorda il figlio prematuramente scomparso e cita un passo di Cicerone: «Certamente le parole di Cicerone sgorgano dal cuore di ogni padre quando scrive: Tu sei il solo fra gli uomini che io vorrei mi superasse in ogni cosa» (Opus imp. VI, 22).

 TOMMASO LANDOLFI, UN POETA CHE PENSA. L’autore del Gattopardo è anche poeta raffinato; un poeta che soffre terribilmente la perdita del significato. Un poeta che fa pensare. La riprova si ha nella raccolta, Il tradimento (Milano 1977). Una sua poesia potrebbe benissimo intitolarsi: «La pietra scartata dai costruttori». Eccola: «Quando sarà venuto / il giorno del tedio; / quando, guardando indietro / al cammino percorso, / a dispetto del nostro genio, / non vedremo che cenere e tòsco / e cercheremo invano / da tanta vanità un’uscita; / quando ci peserà sul cuore / la nostra lunga e vacua vita / non già in umano consorzio, / ma in ciò che respingemmo con orrore / troveremo forse conforto».

 LA LEZIONE DEL «CICLISTA» GUSTAVO BONTADINI. Valerio Volpini ha ricordato il filosofo Gustavo Bontadini, suo affascinante e rigoroso professore a Urbino nell’immediato dopo-guerra, «quando dovevamo recuperare gli anni perduti della guerra, della prigionia, dei monti e c’era una gran voglia di libri e di idee». Bontadini – scarponi e calzoni alla zuava, gran barba – faceva sempre lezione all’aperto, preferibilmente per le strade di periferia o sotto i cipressi secolari della città montefeltresca. Viveva allora il Bontadini la stagione felice, quella in cui egli entrava nel pieno possesso dei suoi mezzi; ma anche allora era umile «cliente della verità», secondo una bellissima espressione socratica. Nulla era in lui dell’albagìa che ha reso certi suoi alunni – ma non discepoli – autentici divi di quei mass-media tanto disprezzati a parole. Qualche mese fa un’ex-allieva incontrò il filosofo, ottuagenario, fermo al semaforo, con l’inseparabile bicicletta, nella sua Milano. Dopo le parole di saluto, la domanda che si fa a un intellettuale: «E ora, professore, a che cosa sta lavorando?». Lui, senza perifrasi, sorridendo: «Mi preparo a incontrare la Verità». Si può – in certi casi si deve – dissentire da certe posizioni di Bontadini, e tuttavia la sua rimane un esempio di «vita filosofica» nel senso più bello della parola.

IN COMPAGNIA DI LUDWIG WITTGENSTEIN. Wittgenstein (1889-1951) rappresenta nella filosofia contemporanea un momento estremamente interessante. Autore di un paio di opere in cui non si capisce mai definitivamente tutto, perché è il loro stesso Autore che, scavando sotto le sue asserzioni, assai spesso finisce con lo scalzarle. Ciò che risulta più chiaro e drammatico è l’esempio di un uomo che non sa vivere senza andare a fondo nei problemi, senza impegnarsi integralmente in quello che fa: sia il musicista, sia il maestro elementare in un villaggio austriaco, sia il professore a Cambridge, che il filosofo. Preoccupato di rispettare nel suo argomentare «i limiti del linguaggio», li supera di continuo ed è proprio lì che riesce ad essere geniale e umanissimo. La verità. Se si ha paura della verità, non si sospetta mai la piena verità. Le parole delle origini. Quanto più una parola è vecchia, tanto più va a fondo. Il filosofo non è un tuttologo. È proprio del filosofo non occuparsi di questioni che non lo riguardano. Il linguaggio. I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. Oltre la domanda a cui la scienza può dare una sua risposta. Noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppur toccato. Credere in Dio. Credere in Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita. Credere in Dio vuol dire che i fatti del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso. Felicità e piaceri. Felice è solo la vita che può rinunciare ai piaceri del mondo. Per essa tutti i piaceri del mondo non sono che grazie del fato (dai Quaderni 1914-1916).

 15 settembre 1988.

 UNA DELLE PIÙ AFFASCINANTI AVVENTURE. Il filosofo Alfred North Whitehead ha espresso una verità profonda con una formula suggestiva. «Quando si critica – e, potremmo aggiungere, quando si interpreta – la filosofia di un’epoca, non bisogna rivolgere principalmente l’attenzione alle posizioni intellettuali che i suoi esponenti ritengono necessario difendere esplicitamente. Ci sono assunti fondamentali che i seguaci di tutti i vari sistemi dell’epoca in questione inconsciamente presuppongono. Questi presupposti appaiono talmente ovvi, che la gente non si rende conto di presupporli, perché non le si è mai affacciato alla mente un altro modo di vedere le cose. Con tali presupposti sono possibili, in numero limitato, vari tipi di sistemi filosofici» (La scienza e il mondo moderno, Torino 1979). Orbene, negli ultimi duemila anni poche cose, o forse nessuna, hanno messo in luce gli «assunti fondamentali» di ciascuna epoca come il tentativo di misurarsi con il significato della figura di Gesù di Nazareth. Per la stessa ragione, il modo in cui una determinata età rappresenta Gesù è una chiave per intendere il genio di quell’epoca, l’antenna per coglierne nel modo più significativo le aspirazioni di fondo, i rifiuti, le miserie e le grandezze. Chi ci ha dato una storia delle immagini di Gesù, concepite via via dal I al XX secolo, è stato il grande storico americano Jaroslav Pelikan nel bel libro Gesù nella storia, tradotto in italiano da Laterza.

Teologo e storico di chiara fama, Pelikan ci fa rivivere una delle più affascinanti avventure, aiutandoci a capire che cosa ogni epoca ha fatto suo del messaggio di Cristo. Per ogni epoca la vita e gli insegnamenti di Gesù hanno costituito, infatti, una risposta (più spesso la risposta) ai quesiti fondamentali dell’esistenza e del destino umano, ed è alla figura di Gesù quale appare nei Vangeli che tali quesiti sono stati rivolti.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il male peggiore. Nessuno dei mali contro cui pretende di lottare il totalitarismo è peggiore del totalitarismo stesso. Il vero materialismo. Il materialismo più ripugnante non è quello che la gente crede. È quello che vuol far passare idee morte per realtà vive. (Albert Camus) No agli assoluti terrestri. L’Assoluto religioso è possibile solo là dove sono stati distrutti i vitelli d’oro (Paul van Buren). Perché il lavoro del recensore è diventato difficile. Io non credo che ora manchino i critici. Manca un rapporto reale tra società e letteratura. Un libro nuovo non è più un evento, grande o minuscolo che fosse; è poco più di una notizia. Passa come una meteora. Requisiti per un cattivo best-seller. Scherzare con il fuoco. Curare l’effetto sorpresa. Unire l’assemblaggio di luoghi comuni, sottolinearne la vacuità con l’ironia. Lasciar intravedere dietro l’agile sfruttamento del kitsch qualcosa d’altro, che non c’è. Il libro di successo fa pensare a quegli scaffali di legno ottenuti con la compressione dei trucioli: la funzionalità è garantita, ma la materia è vicaria. (Geno Pampaloni) Il pericoloso supplemento. Non mi sono occupato del mio palato se non quando il mio cuore era ozioso (Jean Jacques Rousseau). Tradurre dal latino. I latini nella loro lingua non rifuggono dall’unire la determinatezza di senso e una certa oscurità. Par che dicano in più d’una circostanza: interpretate come volete, si può intendere in un modo o nell’altro. Il senso principale non ne esclude assolutamente un altro (Charles A. de Saint-Beuve).

VERITÀ SEMPLICI E PROFONDE SU CUI CONVENIRE. L’etica non descrive, ma è normativa. L’etica dev’essere una condizione del mondo, come la logica. Perché il mondo deve divenire un altro mondo. Il mondo deve, per così dire, crescere o decrescere in toto. Come per aggiunta o caduta di senso. Segno di cattiva coscienza. Il timore della morte è il miglior segno d’una vita falsa, cioè cattiva. Il peccato elementare. Se è permesso il suicidio, tutto è permesso. Se qualcosa non è permesso, il suicidio non è permesso. Questo getta luce sull’essenza dell’etica. Infatti il suicidio è, per così dire, il peccato elementare. Pluralità di metodi. Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie. Le macchine e la mente. I calcolatori prodigio pervengono al risultato giusto, ma non sanno dire come l’hanno ottenuto. Il comprendere. Tra l’ordine e la sua esecuzione c’è un abisso. Esso dev’essere colmato dal comprendere. Solo nel comprendere è detto ciò che dobbiamo fare. Fuori da esso, l’ordine non è altro che suoni, segni d’inchiostro. La meraviglia. La frase: – Non pensare che sia cosa ovvia – vuol dire: Meravigliatene, come fai per tutto ciò che ti procura turbamento. Grammatica e filosofia. In una goccerella di grammatica si condensa un’intera nube di filosofia. Lo scopo della filosofia. Qual è il tuo scopo in filosofia? – Indicare la via d’uscita dalla trappola.

I pensieri qui riportati sono nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Esse danno voce a verità semplici e profonde su cui non dovrebbe essere difficile convenire.

 22 settembre 1988.

 I DISCORSI SIGILLATI IN SE STESSI. È strano, ma la società delle cosiddette comunicazioni di massa rischia di diventare sempre più una babele, il luogo in cui si parla ma senza intendersi. La omologazione nel banale e nel condizionamento dei consumi è molto forte. Da Milano all’ultimo paesino di montagna lo scenario è uniforme: gli stessi manifesti, gli stessi slogans, le stesse esibizioni di cibi, di anche, di auto. Il lessico è comune, i meccanismi messi in moto sono sempre i medesimi, ripetitivi fino alla noia i rituali. Ma non appena si supera il livello del luogo comune e del «si dice» – dove è facile presupporre l’accordo o la benevola comprensione – sono guai. Scattano come trappole gli stereotipi preformati, i falsi dilemmi (ad esempio, «o rivoluzionari o reazionari»), le identificazioni presupposte (ad esempio, «chi è cattolico è clericale») e il discorso, il dis-currere, il sublime accattonaggio del vero che passa a considerare aspetti diversi di uno stesso problema, se ne va a farsi benedire. È la forma mentis che si è fatta intollerante. Si tende a relegare sul piano dell’insignificanza quello che vien detto dagli altri solo perché sono altri e non noi a dirlo («non è questo il problema» è una della frasi tipiche con cui si tappa la bocca e si svaluta qualsiasi apporto). Accade anche nei colloqui privati, non solo nella polemica pubblica. Si confonde la coerenza del discorso con l’aggressività e l’esclusivismo, facendo del più alto strumento di incontro tra gli uomini la via regia dell’incomunicabilità. Quando si rifiuta l’arricchimento del nostro pensare grazie alla collaborazione, magari antagonistica, degli altri, i nostri discorsi diventano sigillati in se stessi. Allora non parliamo, ma usiamo violenza con la parola o ci parliamo addosso.

LINEA RECTA BREVISSIMA. A quei cattolici che se lo meritano. Per paura di essere gli ultimi cristiani, siete diventati gli ultimi marxisti (Maurice Clavel). L’ebreo centrale. Gesù è l’ebreo centrale: con una mano stringe quelle dei suoi fratelli ebrei; con l’altra, quelle dei suoi discepoli cristiani (Martin Buber). La semplicità, marchio di riconoscimento della verità. Simplex, sigillum veri (Erasmo da Rotterdam). La forza motrice della nostra ricerca. È questa istintiva convinzione, vividamente sospesa dinanzi all’immaginazione, che è la forza motrice della nostra ricerca: la convinzione che c’è un segreto, un segreto che può essere svelato (Alfred North Whitehead). Aprire lo spirito a ciò che lo fa grande. Le cose veramente grandi possono far grandi anche piccoli uomini che le discutono tra loro (sant’Agostino). Tre versi contro il pettegolezzo a tavola. Chiunque crede di poter / rosicchiare la vita degli amici assenti / deve sapere che è indegno di questa tavola (li fece scrivere sant’Agostino nella sala della mensa). Onestà nell’ascolto, premessa all’incontro. A forza di ascoltar bene le domande, finiremo per entrare insieme nelle risposte (Rainer Maria Rilke). Di fronte al pericolo: né fuga, né paralisi ipnotica, ma consapevolezza. Nella vita dello spirito, e più ancora nella vita della fede, il pericolo è sempre e ovunque incombente, come nella vita del corpo. Esserne consapevoli costituisce già una prima difesa, mentre ipnotizzandoci su di esso, lo si aggrava e se ne rimane paralizzati. Fuggire tutti i pericoli significa fuggire tutte le responsabilità, sottrarsi a tutti i compiti; è spesso il segno di un’anticipata accettazione della sconfitta (Henri de Lubac).

PEGGIO CHE AVERE UN’ANIMA PERVERSA! Ho ritrovato un segnalibro che feci ritagliare per quei giovani studenti – liceali e universitari – che s’imbarcarono con me in una bella avventura dodici anni fa. Su quel segnalibro si leggono, disposte in forma di versi, le parole infuocate di Charles Péguy: «C’è qualcosa di peggio / che avere un’anima perversa: / è avere un’anima di tutti i giorni. / Di un’anima pagana si può fare / un’anima cristiana. / Ma di quanti / non sono nulla, / né antichi né moderni, / né spirituali né carnali, / né pagani né cristiani, / di loro / i morti vivi, / che cosa ne faremo?».

Péguy tenne, pascalianamente, gli estremi nella sua vita e nel pensiero: sferzante senso di superiorità intellettuale e bonarietà contadina; patriota ardente e internazionalista; socialista dove bisognava esserlo e tradizionalista; un anticlericale e uno che sente con la chiesa; un mistico e un lottatore; un poeta grandissimo e un giornalista immerso nell’evento quotidiano con tutta l’anima, impegnato sempre a testimoniare per l’uomo e a servire il popolo. Ma per chi può scorgere il suo profilo spirituale, nel profondo, tutte le linee della sua personalità e della sua opera multiforme, apparentemente in urto fra loro, si ordinano come tanti raggi che tendono al loro centro. Péguy era un «singolo» nel senso kierkegardiano della parola, ma volle e seppe esserlo sempre con profondo senso di solidarietà, in unione a tanti giovani amici, con una forte coscienza di ciò che significa, anche in termini culturali, l’universalità del cattolicesimo. «Io non ho una vita solita – scrisse di sé Péguy -; la mia vita è una scommessa. In fondo si va attuando in me un rinascimento cattolico. Ma io non sono un santo. Io sono un peccatore».

29 settembre 1988.

 IL MOMENTO PIÙ ALTO DEL GENIO. Il grandissimo musicista salisburghese ha toccato la vetta, come capita, prima o poi, ad ogni autentico genio creativo quando in lui l’animale metafisico si desta e la sete dell’Assoluto sovrasta ogni altro aspetto dell’esistenza e, perfino, la sua stessa arte. Il 7 luglio 1791, quattro mesi prima di morire, Mozart scrive al padre: «Non posso spiegare la mia impressione. È una sorta di vuoto che mi fa molto male, una certa aspirazione che non è mai soddisfatta e non cessa mai, dura sempre e cresce di giorno in giorno. Nemmeno il mio lavoro m’affascina più».

Nicola Petruzzellis nel suo capolavoro, Il valore della storia, delineando i nessi dialettici tra l’arte e le altre attività dello spirito, ha colto meglio di chiunque altro quel momento così intenso, vissuto anche dall’ultimo Mozart, in cui il genio avverte la limitatezza della sua stessa opera e, ancor più, l’inadeguazione del finito all’Infinito. «L’artista – scrive Petruzzellis – quando sa ritrovare e interrogare la sua umanità, che è sempre più vasta e più complessa della sua arte, sente l’insoddisfazione di questa. Palpita nella bellezza l’ineffabile presenza di una realtà superiore e l’arte, lungi dall’appagare, accende vieppiù l’insonne brama dello spirito». L’arte, nelle sue supreme espressioni, ci comunica il presentimento dell’Assoluto. Ma l’anima chiede di oltrepassare il presentimento. È quest’aspirazione che muove Mozart a scrivere il Requiem, con l’ansia di chi vuol varcare l’ultima soglia e la coscienza della caducità dello stato d’animo da cui è germinata la propria opera, per quanto alta e degna essa sia. Dante dette voce nell’ultimo canto del Paradiso, nei versi 58-63, a quell’attimo in cui il sogno divino dell’arte cede al bisogno della visione: «Qual è colui che somniando vede, / che dopo il sogno la passione impressa / rimane, e l’altro a la mente non riede, / cotal son io, ché quasi tutta cessa / mia visione, ed ancor mi distilla / nel cor lo dolce che nacque da essa».

 LA VERITÀ È CIÒ CHE LA RIVOLUZIONE CI COMANDA DI CREDERE? «Vi sono stati comunisti che avevano posti di responsabilità nel Pci e nell’Internazionale, i quali hanno denunciato certe situazioni in modo aperto, clamoroso, per esempio Silone. Io sono lieto di non essere stato dalla loro parte. Sono lieto d’aver letto in un discorso di Gomulka – il quale non solo sapeva, ma ha sofferto personalmente – l’elogio di quelli che hanno taciuto per non mettersi contro la Rivoluzione». Sono parole testuali di Pajetta. Si leggono su L’Unità del 2 dicembre 1961 e sono tratte da una sua conferenza stampa sul XXII congresso del Pcus. Lo stesso pseudo-concetto Giancarlo Pajetta lo aveva solennemente affermato in pieno Parlamento il 28 gennaio 1955 (si veda L’Unità del giorno seguente).

Il mito della rivoluzione comunista innalzato a supremo valore porta a esiti e atteggiamenti inevitabilmente totalitari, che evidenziano da soli la stretta connessione tra Marx, Lenin e Stalin. Per chi fa suo quel messianismo terrestre non esistono verità che possono contare all’infuori del pensiero marxista-leninista: esso solo costituisce l’intero della verità. Lenin lo chiamava «dottrina onnipotente» e «metodo infallibile» lo definiva il nostro Gramsci (La costruzione del Partito comunista, Torino 1971, p. 13). Ed era Gramsci a teorizzare, in nome della rivoluzione redentrice, il ricorso a qualsiasi mezzo – ivi compreso menzogna, terrore, violenza – se giudicato, da chi in quel momento detiene il potere nel Partito e nell’Internazionale, utile allo scopo. «Il moderno Principe, – scrive il Lenin italiano – sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico» (Quaderni dal carcere, Torino 1975, p. 1561). E il «moderno Principe» è il Partito comunista, che deve – secondo le parole di Lenin, rigorosamente rispettate da Stalin – «tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico» (Opere complete, Editori Riuniti, vol. 30°, p. 351). Dinanzi alla dura smentita dei fatti, Pajetta si limitò a fare «l’elogio di quelli che hanno taciuto [la verità, ovviamente] per mettersi contro la Rivoluzione» e a dirsi lieto di non essere stato dalla parte di… Silone. Il fatto è – Sartre lo ha messo assai bene in evidenza – che il marxista-leninista si trova, se rimane ingabbiato nell’ideologia che professa, nella situazione in cui il soggetto che inganna fa tutt’uno col soggetto che si inganna. Situazione che Silone non volle assolutamente accettare.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La scelta. Non valgono una lacrima, le cose che sono senza alternativa (Paul Claudel). Il fango sacro. Conosco il mistero / del tuo genio, oh cuore! / Una zolla di terra / mescolata con pianti (Francis Jammes). Se l’anima si dischiude. Tutto può nascere quaggiù da un’attesa infinita (Paul Valéry). A porta a porta nel nostro cuore. Il rinnegamento è assiso nella / corte con il fondatore futuro / con il vicino e il più divino cuore dell’apostolo preso dalla paura (Pierre-Jean Jouve).

6 ottobre 1988.

 IL DONO DELLA SCIENZA. «Accanto alla musica e all’arte, la scienza è la più grande, meravigliosa e illuminante conquista dello spirito umano. Detesto la moda intellettuale, oggi così rumorosa, che tenta di denigrare la scienza, e ammiro più di ogni cosa i meravigliosi risultati raggiunti nella nostra epoca dal lavoro dei biologi e dei biochimici, resi disponibili attraverso la medicina ai sofferenti di tutta la nostra bella Terra. Certo la scienza, come ogni altra impresa umana, soffre dell’umana fallibilità. Eppure impariamo dagli errori: gli scienziati trasformano la nostra fallibilità in conoscenza congetturale oggettivamente verificabile. Continuano a farlo in questo stesso momento e confido che continueranno per gli anni a venire.

Quello che miriamo a conoscere, a capire, è il mondo, il cosmo. Tutta la scienza è cosmologia, un tentativo di imparare di più sul mondo: sugli atomi, sulle molecole; sugli organismi viventi, sugli enigmi dell’origine della vita sulla terra; sull’origine del pensiero, della mente umana; sul modo di funzionare della nostra mente. Sono grandi imprese, imprese quasi impossibili. Ma gli scienziati hanno fatto progressi quasi incredibili nei loro audaci tentativi.

Posso dire di essere stato davvero molto fortunato nella mia vita, perché di alcuni di questi tentativi sono stato testimone a distanza, di altri più da vicino; e qualche volta ho potuto perfino prendere parte all’avventura, nei campi della fisica quantistica e della biologia». Questo gioioso messaggio è stato pronunciato a fine agosto del 1988, in un teatro di Brighton, dinnanzi a una platea di oltre cinquecento filosofi che lo ascoltavano, da un vecchio di ottantasei anni. Quel grande vecchio è Karl Raymund Popper.

AI GIOVANI CHE INCOMINCIANO A STUDIARE FILOSOFIA. In queste prime settimane dell’anno scolastico penso, con commozione, a quel momento meraviglioso che segna l’incontro di un giovane con la filosofia. Incontro in cui io preferivo affidarmi al più caro dei maestri, a Socrate stesso, così come ci viene incontro dalle pagine sublimi dell’Apologia, la verità socratica stilizzata dal suo grandissimo discepolo, Platone. Quanti, per loro disgrazia, ritengono che la filosofia antica non sia altro che un museo e gli antichi filosofi statue immobili e mute di esso? A costoro ricordo l’epigrafe dettata da Paul Valèry, che si legge all’ingresso del «Museo dell’uomo» a Parigi. Il poeta con poche parole mette a fuoco il problema e ne dà la soluzione: «Il dépend de celui qui passe / que je sois tombe ou trésor, / que je parle ou me taise. / Ceci ne tient qu’à toi. / Ami, n’entre pas sans désir».

LINEA RECTA BREVISSIMA. Lo stupore d’esistere. L’uomo è l’unico animale che ha lo stupore d’esistere (Platone). Filosofia e sentimento della meraviglia. È proprio del filosofo questo: di essere pieno di meraviglia. Né altro inizio ha il filosofare che questo esser pieno di meraviglia (Platone). Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. Da principio restarono meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici; in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porre problemi sempre maggiori (Aristotele). Per vivere da uomini. L’esercitare la sapienza e il conoscere sono desiderabili per se stessi dagli uomini. Non è possibile, infatti, vivere da uomini senza queste cose (Aristotele). I veri filosofi. E i veri filosofi chi sono per te? – Quelli che amano contemplare la verità (Platone). I filosofi al minuto. Senz’altro la critica è la linfa vitale della filosofia. Eppure, una critica munita di punti minuti, senza una comprensione dei grandi problemi di cosmologia, di conoscenza umana, di etica, di filosofia politica e senza un serio e strenuo tentativo di risolverli, mi pare fatale (Karl R. Popper).

13 ottobre 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. L’ospitalità del cuore. Ognuno di noi può ricevere / la parte di mistero dell’altro / senza spargerne il segreto (René Char). La parola del poeta. Il poeta per tutta la vita dice una parola soltanto / quando riesce a dissigillarla dagli uragani / a salvarla dalle alte tentazioni / a sperimentarla più lontano di ogni tradimento (Pierre-Jean Jouve). Cielo e terra. Cieli celesti / terra terrestre. / Ma dove è la terra celeste? (Robert Desnos). Per cogliere l’essenziale. Non si vede che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi (Antoine de Saint-Exupéry).

Il popolo, non gli intellettuali o i ricchi esibizionisti. Ho sempre considerato dannoso che molta gente si trovi tagliata fuori dal contatto con il popolo a causa della propria Mercedes nera o della categoria del ristorante che frequenta. Sarà per questo che non mi piace la compagnia degli intellettuali. Leggo i loro libri, ma preferisco in fondo il mondo in cui vivo, fatto soprattutto di gente semplice e di giovani. Valore di verità o fascino dell’ingegnosità? Mi interessa la verità, non l’ingegnosità di una teoria. Chi rispetta l’intelligenza non può sopportare l’estetismo dell’intelligenza. Il peccato contro l’intelligenza. La nostra società non è immorale, o non lo è almeno più di altre. Pecca piuttosto contro l’intelligenza. I più grandi peccatori del nostro tempo sono spesso gli intellettuali. Sono più colpevoli dei capitalisti, perché quello che intaccano, quello che distruggono, particolarmente nei giovani, è fondamentale: l’idea che esiste una dimensione che ci sorpassa e che l’intelligenza può cogliere. (Jean Daniélou)

UNA STORICA BUFALA. Col nome di quell’irrompente animale in gergo si chiamano le notizie false prese per vere; ma anche le sviste colossali. Come quella di Giovanni Spadolini, che sulla prima pagina del giornale che dirigeva, Il Corriere della Sera, alla morte di De Gaulle, su nove colonne pubblicò il titolo: Il solenne Te Deum. Confusione laicistica fra Te Deum e Requiem, o lapsus che tradiva il sollievo per l’uscita di scena di un personaggio che giudicava troppo ingombrante?

IL VERO MONUMENTO ALLE VITTIME DI STALIN. In Urss è sorta un’associazione per erigere un monumento alle vittime di Stalin. Essa ha comunicato ad Aleksandr Solzenicyn di avergli riservato un posto nel consiglio direttivo, volendo onorare in lui il coraggioso combattente del secondo conflitto mondiale, il sopravvissuto alle sofferenze dei lager staliniani, il più eminente scrittore russo del nostro tempo.

Solzenicyn ha risposto che lui, in verità, il monumento alle vittime del regime comunista lo ha già eretto, si chiama Arcipelago Gulag e gli costò l’espulsione dall’Urss con l’accompagnamento di una volgare campagna di diffamazione, in Occidente non meno che in Urss. Si pensi, pertanto, a pubblicare integralmente Arcipelago Gulag e a farlo circolare tra le mani di quella gente per la quale fu scritto. È la sola premessa corretta ad ogni altro discorso. Solzenicyn non è un comunista che chiede di essere riabilitato, ma una voce che sale dal profondo dell’anima cristiana della Russia.

COME REAGÌ L’OCCIDENTE AL DOLOROSO «J’ACCUSE» DI SOLZENICYN. Fatte le debite eccezioni – in primo luogo lo scrittore tedesco Heinrich Böll e quei leaders della sinistra sessantottina francese, che proprio in Arcipelago Gulag avrebbe trovato un contravveleno alla menzogna totalitaria, passando poi a formare la corrente dei nouveaux philosophes – la risposta dell’Occidente fu semplicemente vergognosa. In realtà chi distrugge le favole di cui il nostro tempo si nutre, finisce col procurarsi odio. Veritas odium parit. Si fece a gara a ignorare e denigrare colui che aveva consegnato alla storia l’immane tragedia e il nome stesso di «Gulag». «Ricordo che quando uscì da Mondadori Arcipelago Gulag, all’ufficio stampa si mettevano le mani nei capelli. Nessuno se la sentiva di recensire il libro… Finché sembrava accettasse i recinti del socialismo, l’autore di Una giornata di Ivan Denissovic meritava attenzione; ma poi…». È quando ha scritto su La Stampa del 17 settembre 1988 il vicedirettore del quotidiano torinese, Lorenzo Mondo.

Perché mai Solzenicyn ingenera imbarazzo e malessere non solo nell’Est comunista, ma anche in Occidente, America compresa? Il motivo, almeno parzialmente, lo intuì Italo Calvino «È proprio nel suo non lasciarsi nessuna copertura ideologica, nel suo non identificarsi con burocrati e tecnocrati in lotta per il predominio, il significato di “sinistra” che l’esempio di Solzenicyn verrà sempre più assumendo».

Solzenicyn è uno di quei rari, grandi spiriti che hanno la forza di mettere a nudo la nostra cattiva coscienza. Dell’Occidente non meno che dell’Oriente.

20 ottobre 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Il dono di un libro. Che cos’è il dono di un libro? È il dono, in qualche modo magico, dell’inaccessibile tempo in cui fu scritto. Che cosa possiamo dare. Possiamo dare soltanto l’amore, di cui tutte le altre cose sono simboli. In ogni trapasso. Mi commuovono le minute sapienze / che in ogni trapasso d’uomo si perdono. Privilegio della notte. La notte ci libera dalla più grande afflizione: / la prolissità del reale. Il regalo è sempre reciproco. Ogni vero regalo è reciproco. Dio, da cui riceviamo il mondo, riceve il mondo dalle sue creature. Il disvelamento. Chi sono? Lo saprò l’ulteriore / giorno che viene dopo l’agonia. L’attesa. So che nell’ombra c’è un Altro. / Entrambi ci cerchiamo. Magari fosse / questo l’ultimo giorno dell’attesa. Grazie! Ringraziare voglio… / per la diversità delle creature / che compongono questo singolare universo, / per l’amore che ci fa vedere gli altri / come li vede Dio, / per lo splendore del fuoco / che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico, / per il pane e per il sale, / per l’arte dell’amicizia, / per l’ultima giornata di Socrate, / per le parole che in un crepuscolo furono dette / da una croce all’altra, / per il sonno e la morte, / per la musica, misteriosa forma del tempo, / per il fatto che la poesia è inesauribile / e non arriverà mai all’ultimo verso. La bellezza in agguato. Una volta credevo che la bellezza è privilegio di pochissimi autori; adesso so che è comune e che è in agguato nelle casuali pagine di uno scrittore mediocre o in un dialogo per strada. (Le citazioni sono tratte dal volume di Jorge Luis Borges, Nuova antologia personale, Milano 1976).

IL PRINCIPIO DI PUBBLICITÀ DIFESO DA KANT E STURZO. Da noi si cominciò col piede sbagliato già alla Costituente, quando persino sulla Carta fondamentale della nostra convivenza civile e politica, sull’uno o l’altro punto del testo, si ebbero ben quaranta scrutini segreti. Poi si sa quale abuso s’è fatto del voto segreto. Tuttavia alcuni politici hanno ripetuto in questi giorni che per loro il voto segreto è un modo per sfuggire alle imposizioni del partito. Quali che siano le buone intenzioni di quei parlamentari che la pensano così, la via scelta per garantirsi la libertà nel segreto dell’urna è la più sbagliata. Immanuel Kant ha enunciato con rigore il principio che dovrebbe fare da premessa ad ogni discorso sul voto segreto nello scritto Per la pace perpetua – Progetto filosofico: «In decisioni di carattere pubblico ciò che non è confessabile pubblicamente – che pertanto deve essere tenuto segreto – può trasformarsi in una minaccia di ingiustizia per ogni cittadino… Il principio di pubblicità, pertanto, non deve considerarsi solo etico, pertinente cioè alla sfera della virtù morale, ma anche giuridico, perché concerne in senso stretto l’ambito del diritto degli uomini». Il «principio di pubblicità» è dunque per Kant l’anima stessa dello Stato di diritto. Se il dissenso dal proprio partito è fondato e onesto, deputati e senatori devono rivendicarne le ragioni, sia nelle Assemblee in cui sono stati mandati dal voto popolare che negli organismi di partito. «Chi ha paura – scriveva Luigi Sturzo – di far conoscere il proprio voto, sia ai capi partito sia agli elettori, abbia la bontà di dimettersi da deputato o da senatore. La gente paurosa non è buona per quelle aule».

POSSIBILITÀ GIORNALISTICHE FINORA INESPLORATE. Nel novembre del 1983 muore Raymond Aron. Il direttore del Washington Post ordina alla redazione parigina di procurarsi un articolo scritto da Jean Paul Sartre. «La vostra richiesta – risponde il capo redattore francese – ci suggerisce insospettate possibilità giornalistiche finora inesplorate. Che ne dite di De Gaulle che commenta la politica estera di Mitterrand? E di un’opinione di Mao sulla situazione attuale della Cina di Deng Xiao Ping? E di un’intervista di John Wayne di sostegno all’azione di Reagan? Diamo per scontata l’autorizzazione per l’acquisto di tavoli per sedute spiritiche e di tutto il materiale necessario».

 DOVE SONO I PROGRESSISTI E DOVE I REAZIONARI. «La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari cade ormai non solo lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia da istituire, ma anche e sovrattutto lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono ancora come fine essenziale della lotta politica quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale – e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo e risorgere le vecchie assurdità – e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale». A cominciare da quello Stato internazionale che sarà chiamato Stati Uniti d’Europa. Questa regola – che costituisce il nucleo profondo del pensiero federalista – fu formulata da Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene, che prende appunto nome dalla sperduta isola del Tirreno, dove il fascismo lo aveva confinato. Il Manifesto è del 1941, ma il suo obiettivo strategico, la federazione europea, è oggi non meno necessario e urgente. È il nostro futuro.

27 ottobre 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Assumersi virilmente la parte di dolore che ci tocca. Nessuno si stringe volentieri al petto il dolore; ma quelli che lo fanno sono dei vincitori (Christy Nolan, lo scrittore irlandese spastico totale dalla nascita, di cui in questi giorni l’editore Guanda ha pubblicato il romanzo Sotto l’occhio dell’orologio). Ben oltre il diritto. Il comportamento ragionevole, l’atteggiamento giusto di una persona non è qualcosa che si possa esigere in tribunale. L’affetto che si effonde, un tocco squisito ignorano ciò che è consentito dal diritto. Nascono dall’equità naturale e generano un’incantevole lievità (Elémire Zolla). La maledizione che accompagna la celebrità. La celebrità è un plebeismo. Perciò deve ferire un’anima delicata. Essere guardato da tutti, stare in evidenza infligge a una creatura delicata una sensazione di consanguineità esteriore con quelli che provocano scandalo nelle strade, che gesticolano e parlano ad alta voce nelle piazze (Fernando Pessoa). Inavvertenze e difetti dei bambini. Le scostumatezze dei bambini sono simili alle foglie primaticce di una pianta, che cadono da sé una dopo l’altra. Perciò non bisogna pigliarle troppo sul serio (Giuseppe Caiati, educatore pugliese). Contro le pretese del sistema onnicomprensivo. La verità, intera e definitiva, non solo non si possiede, ma non si cerca mai da alcuno, fuorché nelle illusioni dell’impazienza o delle pigrizia; e ogni proposizione di verità che ci esca dalle labbra o dalla penna porta attaccato un «da continuare» o «da rivedere» da noi o da altri (Benedetto Croce).

LA QUESTIONE PALESTINESE E ISRAELE: LA SOLA VIA D’USCITA. Alla fine della seconda guerra mondiale si sollevò il sipario sui corpi bruciati di sei milioni di ebrei, fra cui un milione di bambini. Ma quando il mondo uscì dalle devastazioni del più barbaro dei conflitti, proprio coloro che avevano sofferto di più si videro negare il diritto di ricongiungersi ai loro fratelli che, una generazione dopo l’altra, si erano stabiliti nella Terra di Israele, e lì col loro lavoro avevano costruito villaggi e città, avevano fatto fiorire il deserto e ora aspiravano all’indipendenza, a veder riconosciuto il diritto del popolo ebraico alla ricostituzione del proprio focolare nazionale. Il punto di vista ebraico sui rapporti arabo-ebraici fu espresso con calore da Ben Gurion alla Commissione speciale per la Palestina istituita dall’Onu. «Un’associazione tra ebrei e arabi, basata sull’uguaglianza e sull’assistenza reciproca – diceva Ben Gurion – contribuirà alla rigenerazione dell’intero Medio Oriente… La nazione ebraica è ansiosa di collaborare con i suoi vicini arabi per promuovere lo sviluppo economico, il progresso sociale e la vera indipendenza di tutti Paesi semiti del Medio Oriente… L’autentica, giusta e duratura soluzione del problema è costituita da uno Stato ebraico e da un’alleanza arabo-ebraica».

Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generali delle Nazioni Unite approvò la risoluzione sulla spartizione della Palestina. Il 14 maggio 1948 finì il mandato britannico sulla Palestina, che non solo non aveva protetto gli ebrei, come aveva il dovere di fare, ma non aveva neppure concesso loro la libertà di difendersi. Quello stesso giorno, alle quattro del pomeriggio, nel museo di Tel Aviv, duecentoquaranta persone costituivano lo Stato d’Israele. In quell’ora solenne David Ben Gurion ribadiva nel testo della Dichiarazione d’indipendenza il principio-guida a cui deve ispirarsi la politica israeliana anche nelle situazioni più difficili. «Lo Stato d’Israele favorirà lo sviluppo del Paese nell’interesse di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace, secondo i dettami dei profeti di Israele, garantirà l’assoluta uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti indipendentemente da criteri di religione, razza o sesso, assicurerà la libertà di religione, opinioni, lingua, educazione e cultura… Chiediamo, mentre infieriscono le ostilità dirette contro di noi da mesi, agli abitanti arabi dello Stato d’Israele di mantenersi in pace e di partecipare alla costruzione dello Stato sulla base delle piena uguaglianza dei diritti. Porgiamo la mano a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli in un’offerta di pace e di buon vicinato». I veri amici di Israele sono quelli che scorgono nell’attuazione di quei principi la sola via d’uscita dalla difficile situazione presente. In quei principi è il fondamento di legittimità politica e l’anima stessa di Israele.

3 novembre 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. A coloro che cominciano a veder chiaro con decenni di ritardo. È sempre bene sentir dire la verità, in qualunque momento essa si faccia strada e diventi chiara, ma si potrebbe anche osservare che certe cose si potevano dire da sempre e che non c’è un particolare motivo – se non il mutamento dello scenario politico – per il quale risultino chiare soltanto oggi (Leone Piccioni). Rifiuto del mito di una vita senza morte. Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nel carcere che è la vita, a ripetere sempre lo stesso ritmo vitale (Benedetto Croce). L’univisuale. Ho conosciuto un tipo bizzarro che credeva a tutto quello che leggeva in un giornale e niente di quello che leggeva negli altri (Paul Valéry).

Il vero oscurantismo. Servirsi di una menzogna culturale equivale a servirsi di un atto di forza e si traduce in oscurantismo. Ciò che è proprio dello scrittore autentico. Lo scrittore riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica propone: esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo che egli soltanto sa scorgere nell’uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere. Uomini di cultura, non mosche cocchiere della politica. Mi rifiuto di rivendicare alla cultura la ‘funzione di dirigere’, che porterebbe a una sua totale politicizzazione ed è chiaro che rivendico un’autonomia per la cultura come possibilità di svolgere, tra tutti gli errori cui ogni ricerca si trova esposta, il proprio lavoro non politico. (Elio Vittorini)

IL RAPPORTO TRA GIOVANNI XXIII E PAOLO VI. Il cliché che per tanti anni ha dominato i giudizi era di una superficialità sconsolante. Paolo VI ha incarnato la reazione come Giovanni XXIII ha impersonato la rivoluzione. È un’idea del tutto sbagliata del rapporto tra i due papi. Giovanni XXIII in questioni di fede e nel modo di concepire il sacerdozio e la vita religiosa era molto tradizionalista. Nello stesso tempo però – ed è questo il suo carisma, il suo dono – aveva il più vivo desiderio di intessere un dialogo cordiale e fraterno con i non-cattolici (l’aspetto ecumenico della sua opera è molto importante) e con i non-cristiani. Papa Roncalli univa simpatia, apertura e fermezza: ma non è affatto azzardato dire che egli è stato su più punti sorpassato dagli orientamenti presi dal Concilio. In realtà Giovanni XXIII, che pure aveva un atteggiamento felicemente disteso e disinvolto, poteva sembrare rispetto a Paolo VI più largo di spirito, ma era più severo di lui. Paolo VI nutriva una grande sensibilità per il mondo moderno e aveva interesse per qualsiasi iniziativa valida. Quali che fossero le differenze di temperamento tra il Papa bergamasco e il Papa bresciano, la vera differenza nasce dalla diversità dei compiti cui l’uno e l’altro hanno dovuto sobbarcarsi. Se Paolo VI fosse venuto prima di Giovanni XXIII, sarebbe stato l’uomo dell’apertura e Giovanni XXIII avrebbe dovuto affrontare la situazione – difficile e talora tragica – che si è venuta sviluppando durante la seconda parte del Concilio e nel periodo post-conciliare. E allora la sua azione per salvaguardare i fondamenti della fede e della Chiesa, seriamente minacciati, ai superficiali sarebbe apparsa di retroguardia, anzi reazionaria.

ECO, BUFFONE DEL SACRO. «Non v’è cielo, non c’è abisso dove la buffoneria, con vertiginose risate e turpitudini, non sia capace di giungere. Eco ha tutto del grande buffone. La vitalità, la volgarità, la cialtroneria; l’assoluta mancanza di idee; il gusto di ridere, davanti allo specchio, della propria immagine grottesca; l’assenza di ogni fede; l’orrore del vuoto; la capacità di assimilare e ingurgitare tutte le cose che gli passano sotto gli occhi, la superficialità totale. (“Tu vivi di superfici. Quando sembri profondo, è perché ne incastri molte”); il dono della dilatazione e della deformazione; il folle desiderio di possedere tutte le cose colte – libri, aneddoti, quadri, citazioni – e di appenderli nel proprio computer.

A queste specie di buffonerie, se ne aggiungono altre meno squisite: l’odore di goliardia, le chiacchiere di casa editrice, i lazzi dei professori, al ristorante, durante le pause di un convegno di Filosofia e di Letteratura. Sebbene lo consideri con la riverenza timorosa che si ha per il grande orso bruno e l’Himalaya, non avrei mai pensato che la buffoneria di Eco si trasformasse così completamente nel Pendolo di Foucault. Ora egli è diventato un buffone del sacro: l’ultimo di quella serie foltissima di mistagoghi, ierofanti, mistificatori, ciarlatani, che danzano e piroettano intorno al sacro, insieme annunciatori e derisori del divino, come se il lazzo fosse la lingua che esso preferisce. Eco obbedisce devotamente al buffone che lo incalza». Il giudizio è di Pietro Citati e lo si legge nell’articolo Giocando a dadi con Eco e Foucault (La Repubblica del 21 ottobre 1988).

11 novembre 1988.

LA TESTIMONIANZA DI DOSSETTI SU LAZZATI. «Occorrerà non poco scavare per rendersi conto della ricchezza della personalità civile e religiosa di Giuseppe Lazzati… Lazzati aveva da poco compiuto i vent’anni quando l’8 settembre 1929 il benedettino Ildefonso Schuster assunse la guida della chiesa milanese. Sotto il suo episcopato, durato cinque lustri, Lazzati si laureò, divenne libero docente e incominciò ad insegnare la sua disciplina, cioè la letteratura cristiana antica; subì per un biennio la durissima prova della deportazione in Germania e maturò la sua coscienza civile e politica oltre che religiosa; si impegnò nella vita di partito e parlamentare; infine trasse dalla sua esperienza politica, ormai ultimata, alcune conclusioni fondamentali poco prima che il cardinale Schuster terminasse la sua giornata terrena. Tutto questo fu vissuto in un contatto sobrio, che era nello stile di entrambe le personalità, ma – io credo – essenziale e continuo, con precise verifiche di tappa. Così in questi venticinque anni c’è stato un progresso di sapientia exemplata più che da padre a figlio. Soprattutto, direi, in due punti essenziali, riassumibili nel benedettino ora et labora: la preghiera assidua e il lavoro adempiuto con verità.

Nei non pochi anni in cui Lazzati ed io abitavamo insieme nell’ospitale casa Portoghesi a Roma, occupavamo due stanze attigue divise solo da un sottile tavolato. Inevitabilmente si avvertivano i reciproci ritmi di vita. Lazzati non ha mai lasciato la sua preghiera più volte al giorno, anche nei giorni più travagliati della vita politica e parlamentare: sempre adempiendola non con scrupolo, ma con signorile riservatezza e amorosa fedeltà. Come non ha mai lasciato il suo impegno di lavoro, ritmato con serena e pacata adesione all’ordine della priorità. Da quando l’ho conosciuto, non l’ho mai visto arrivare in ritardo o disdire all’ultimo momento un impegno assunto. Nell’equilibrio calmo e interiormente spazioso di questi due termini – preghiera e lavoro – hanno trovato posto tutti gli altri fattori. I più antichi: come la passione per l’esattezza della ricerca filologica, l’amore crescente per il pensiero e la spiritualità dei primi secoli di cui tanto si è nutrito. I più recenti: come le “obbedienze” dategli da Montini, prima arcivescovo e poi papa, per la direzione del quotidiano L’Italia e più tardi per la guida dell’Università Cattolica. E quelli di sempre: come lo zelo e il rispetto delicato per le anime, il magistero formatore di tanti giovani, l’amicizia riservata e perseverante, la preoccupazione per la città dell’uomo, l’anelito per il regno di Dio». Questa testimonianza di Giuseppe Dossetti, pubblicata su una rivista benedettina poco dopo la morte dell’amico, nel febbraio del 1987, è ora in Supplemento d’anima, agosto 1988, n.37, Fiesole.

IL SOLITO GIOCO, LA SOLITA MANCANZA DI MAGNANIMITÀ. Certi cattolici che si affannano a credersi «progressisti» hanno inventato uno strano gioco: sparlare del papa in vita, sarebbe più esatto dire sparare a zero su di lui, ed esaltarlo post mortem, non per un tardivo soprassalto di coscienza o per ravvedimento sopraggiunto, ma per poter continuare nel «compito» di discredito nei confronti del successore. È il destino capitato, spesso in forme paradossali, a Paolo VI. Proprio quelli che negli anni del suo pontificato non si stancavano di gridargli di continuo il loro crucifige, oggi non fanno che magnificarne la memoria e le opere, la lungimiranza e la finezza di spirito. Ma l’omaggio postumo in funzione anti-Wojtyla attesta in modo impressionante l’asservimento di tanta gente, peraltro spesso intellettualmente dotata, ai moduli della strumentalizzazione più meschini. Non si tratta affatto di essere servilmente ligi a tutti gli atti e le scelte e le dichiarazioni di un papa; ma giudicarli sempre con sufficienza, disprezzo e ostilità è cosa che può nascere solo da un animo angusto e settario.

LINEA RECTA BREVISSIMA. È bello pensarlo di qualcuno. I tuoi pensieri ci schiudono il cuore al respiro e diffondono sulla nostra anima il fulgore dei prati, dei mattini e delle sere di primavera (da una lettera di John Hamilton Reynolds a John Keats). I micidiali percorsi della banalità da detestare. Il delirio ripetitivo della politica nazionale, le assurde o criminali insipienze della burocrazia, le indegnità dei pubblici servizi, i disperati affollamenti estivi, la proterva idiozia di certi spettacoli teatrali e cinematografici (Fruttero e Lucentini). Contro lo spinoziano capire senza partecipazione. Intelligere senza pietà è cosa morta (Guido Ceronetti).

17 novembre 1988.

 LA POESIA CAPACE DI RIDARCI «SPERANZA DELL’ALTEZZA». Ritornerà la Commedia ad essere le livre de chevet degli italiani? Ci fu il gran rifiuto del sacrato poema negli anni della pseudo-rivoluzione culturale e ci fu tra i docenti di liceo chi Dante neppure lo nominò agli studenti (taccio per carità i titoli delle letture sostitutive!). A quel libro, a quel grande libro invece bisogna tornare e non solo nelle veglie, ma anche avendolo compagno nelle attese a cui ci costringe il tran-tran quotidiano. Ad esempio, quando aspettiamo il nostro turno per una visita medica, o il figlio che esce di scuola, o la moglie che fa le spese. Dante non detiene il monopolio, ma indubbiamente egli si inserisce nella ristretta cerchia dei massimi, in quella schiera che si apre con Omero, col suo e nostro Virgilio. E se nella lettura, da innamorati, non si percepisce la soluzione dell’uno o dell’altro punto controverso, non importa: l’essenziale è che non ci sfugga la poesia. Poesia incardinata nella severa armonia delle terzine, capace di darci di ogni sentimento della vita la definizione pittorica; poesia impossibile a esaurirsi; musica spirituale che sale verso la sua suprema liberazione e purezza. Se la stanchezza è il male che ci corrode, con il corteo della sfiducia in noi stessi prima che negli altri, perché non scegliere come compagno di viaggio il poeta che può ridarci, meglio di chiunque altro, «la speranza dell’altezza?».

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Seppellitemi in terra libera. Scavatemi la fossa ove volete, / in una bassa piana o sopra un colle eccelso, / fra le tombe più umili che siano sulla terra, / ma non in un paese ove l’uomo sia schiavo. / Qualunque tomba mi darà riposo / ove nessuno chiami il suo fratello schiavo (Frances E.W. Harper, poetessa nera del secolo scorso). Facce di pietra. Un viso privo d’amore o di grazia, / un viso odioso, duro, vincitore, / un viso con il quale una pietra / si sentirebbe a suo agio / come con una vecchia conoscenza (Emily Dickinson 1830-1886). Restituire all’uomo la sua dignità. Di questa creatura soffocata nell’anima, distorta, / derubata, profanata, diseredata, / come raddrizzare la forma? / La toccherete ancora d’immortalità; / le ridarete alto lo sguardo e la luce; / ricreerete in essa la musica e il sogno (Edwin Markham 1852-1940).

Che cos’è la vita. Considero la vita e i suoi brevi anni / filo di nebbia tra noi e il Sole. Il compimento. Fate che io veda ben chiaro come, / per ogni coppa di dolore che aveste, / ognuno di voi abbia nuovamente quel che un tempo rimpianse: / Omero gli occhi, Davide il figliolo. Ciò che è proprio dell’uomo. Vi piace cogliere il nuovo e trovare / motivo di gioia nella bellezza velata; / vi piace tentare una porta, e immaginare / lo strano evento che, forse, v’attende oltre la soglia. (Lizette Woodworth Reese 1856-1935) Non per ingannare, ma per difendere la nostra interiorità. Con il cuore piagato sorridiamo, / e declamiamo la nostra parte con mille sottigliezze. / Perché dovrebbe il mondo saperla tanto lunga / da contare le nostre lacrime e i sospiri? (Paul Laurence Dunbar, poeta negro, 1872-1906). Da: Poesia americana 1850-1950, Milano 1971.

LA RISPOSTA AL TIMER. L’attentato del 1° novembre alla chiesa di Appiano-Eppan, in provincia di Bolzano, è un fatto inedito per il nostro Paese. Gli attentatori neonazisti hanno motivato nei volantini il significato del loro gesto criminoso: hanno scelto di usare le bombe contro un luogo della fede e contro il vescovo di Bolzano e Bressanone, monsignor Wilhelm Egger, perché la Chiesa cattolica, attraverso l’opera del suo pastore, lavora a far vivere fraternamente una popolazione che qualcuno vorrebbe spaccata per sempre dall’odio nazionalistico e razziale. In luglio, nella sua visita in Alto Adige, Giovanni Paolo II ebbe a dire: «È missione particolare dei cristiani di questa terra agire nello spirito di Cristo, nel rispetto dell’identità e della particolarità dell’altro e nell’impegno a collaborare per la giustizia e la pace». La Chiesa cattolica altoatesina è stata colpita proprio a causa della sua «politica» di fratellanza tra i gruppi etnici tenacemente perseguita dall’ex-vescovo, Josef Gargitter, e dall’attuale, monsignor Egger. Ha fatto bene l’ufficio di presidenza della Volkspartei a chiedere alla popolazione di lingua tedesca di «denunciare autori e mandanti degli attentati, corpo estraneo alla coscienza religiosa degli altoatesini». Ci vuole però molto di più per trasformare la segregazione etnica, che raggela e acceca, in dialogo interetnico. Occorre che il tirocinio della fraternità diventi impegno quotidiano, prassi abituale, modo di convivere.

24 novembre 1988.

 NON BASTA LA POLITICA. Ogni popolo ha bisogno non solo di politici, ma di educatori e di profeti. I primi fanno bene il loro difficile mestiere quando riescono a cogliere per tempo la direzione del sentire comune e a coordinare le forze in gioco; i secondi hanno il compito e il dono di suscitare nuovi e più profondi orientamenti nelle coscienze e quindi forze nuove, idonee a cambiare in meglio il corso degli eventi. Non basta definire una società democratica dalle sue strutture legali. Un altro elemento gioca un ruolo insostituibile ed è l’energia dinamica, spirituale, lo slancio etico che mantiene il movimento politico e lo spinge di continuo all’attuazione del suo scopo e valore più alto: il bene comune.

Coloro che lavorano a destare il popolo e gli stessi politici – troppo presi dai giochi di palazzo – al senso delle priorità umane e morali sugl’interessi di parte e sugli egoismi d’ogni sorta, sono necessari ad ogni società ed in particolare ad ogni società democratica. Senza l’apporto appassionato e libero di quegli uomini l’ideale etico-politico della democrazia rischia di continuo di essere rinnegato. Sembrano condannati all’insuccesso, ma hanno per sé l’avvenire. Sembrano sognatori, ma la loro visione delle cose si spinge molto lontano perché fa realisticamente i conti con le sofferenze immeritate, con le ingiustizie patite dai propri simili e si rifiuta di pensare che un’eredità di confusione, paura e dolore debba ancora pesare in modo tanto gravoso sulle generazioni che salgono. Non basta la tecnica, non basta la politica. Occorre, affinché il corpo sociale viva, anche chi gli dia un supplemento d’anima.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il silenzio. Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare, / della città quando si placa, / dei boschi prima che sorga il vento di primavera, / e il silenzio per cui soltanto la musica trova il linguaggio. / Mi chiedo: per le cose profonde / a che serve il linguaggio? (Edgar Lee Masters). L’infinitamente piccolo, l’infinitamente grande. A un capo del cammino il telescopio, / all’altro il microscopio: / due strumenti di speranza (Robert Frost). Perdere con Dio da uomo a uomo. Dio, il nostro Dio, è un gagliardo avversario / che gioca dietro il velo… / Ho scommesso con il mio Dio per la verità, / ho perduto con il mio Dio… / Ma chi perde con Dio, da uomo a uomo, / al volger della sorte vincerà (Ezra Pound). Un augurio. Certi volti, alcuni, uno o due / per la mia mente, per i miei occhi / devono rimanere una gioia (Marianne Moore). Aprire le porte dell’anima. Ora, se non c’induca musica suadente / ch’apra improvvisa le porte dell’anima nostra, / non indoviniamo la presenza degli angeli, / e siamo soddisfatti di rimanere ciechi (Conrad Aiken).

Le arie che ci diamo. Noi tutti ci diamo l’aria di essere / la rara eccezione / alla schiavitù universale… / Ci piace che gli altri pensino bene di noi / così che noi si possa pensare bene di noi stessi. / E qualunque spiegazione ci soddisfa. La constatazione dolorosa. Non ci piace salire una scala e trovare che ci porta in basso. La strada smarrita. Eccetto un numero limitato / di scopi strettamente pratici / noi non sappiamo quello che facciamo. / E che cosa si fa a noi? / Abbiamo sofferto assai più che una perdita personale, / abbiamo smarrito la strada nelle tenebre. (Thomas S. Eliot)

OPERAZIONE NEW-SPEAK: CELEBRARE ORWELL, OCCULTANDONE IL SIGNIFICATO. Il fatidico 1984 ha costretto un po’ tutti a tornare al 1984 di George Orwell. Ebbene quelli che avrebbero dovuto trarre il maggior profitto dalla lezione del grande scrittore inglese hanno finito per dare una ennesima conferma della validità dell’analisi orwelliana. Hanno esaltato anch’essi Orwell, ma occultando il significato del suo messaggio che è di far sentire nelle ossa l’angoscia della più spaventosa realtà storica del XX secolo, il totalitarismo. La «neolingua» (il newspeak), la «lingua di legno» come la chiamano i francesi, fatta di giochi pseudodialettici mescolati a menzogne velate e a reticenze, ha ancora una volta avuto la meglio, mostrando quanto sia difficile liberarsi da essa per chi ne abbia una volta accettato l’ingranaggio, pur vivendo in un Paese democratico. Si è insomma celebrato l’antiutopia di Orwell, negando che vi si trattasse dei regimi totalitari (nella «neolingua» il termine stesso di «totalitarismo» è tabù). Si è suggerito che il bersaglio di Orwell fosse non Stalin dunque, ma la… pubblicità televisiva dei detersivi, i guasti della società industriale avanzata. Ora è fuor di dubbio che la società industriale avanzata manifesta sempre più la contraddittorietà del cosiddetto progresso, ogni conquista del quale è pagata con una minaccia. Ma è proprio questa ambivalenza del progresso, con le sue acquisizioni e perdite, a richiedere, per essere umanamente controllata, quella libertà intellettuale e politica di cui il totalitarismo è la più perfetta negazione. La democrazia è un bene non privo di ombre e di delusioni, ma non è essa che ha creato Auschwitz e Kolyma.

1 dicembre 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Nostalgia d’infinito. Dovunque io sia, mi sento in un altro posto (Edward Dorn). La febbre di teorizzare. Forse non ho più poesia ma ho ancora la mia Poetica. / La poetica è la politica della poesia (Lawrence Ferlinghetti). Le idee contano. Giudizi Ignoranti Creano Mondi Sbagliati (Allen Ginsberg). Bisogno di stelle. Dio, fammi un cielo sul mio soffitto. Ho bisogno di stelle (Bob Kaufman). Coloro che sono abbandonati nella solitudine del loro cuore. Sono ritirati / in una dolorosa intimità / per imparare a vivere senza parole (Denise Levertov). Nulla può saziarci. Quello che non cambia / è la volontà di cambiare (Charles Olson). Lo strano paradosso. Ci voltiamo la / schiena l’un l’altro così spesso, / che distruggiamo ogni comunanza. / Eppure i nostri cuori / sono seminati di amore. Una risposta che abbia senso. La pietà non è / forzata, la giustizia / che non è comprata, / un’offerta al di là di ogni dedizione / e una particolare sollecitudine. (Joel Oppenheimer) L’incanto della poesia. Un arcobaleno viene a versarsi nella mia finestra, / erompono canzoni dal mio petto, il mio pianto si ferma, il mistero / riempie l’aria (Peter Orlowvsky). Triste come. Triste come una ragazzina un pomeriggio di domenica / con i compiti da fare (Lois Sorrells). Cristo, vittoria dell’uomo. Io so nella mia anima che ci sarà sempre Cristo. / Niente può distruggere quella meraviglia dell’uomo: / né bomba né anti-Cristo né pensiero né io. / Cristo è la vittoria dell’uomo (Gregory Corso).

PERCEPIRE LA SOLITUDINE DEL PROSSIMO. «Vorrei scrivere una lettera alle persone sole, ma subito mi accorgo che le parole stentano a uscire dalla penna. La solitudine non invita alla facondia e gli uomini e le donne soli sono sempre di poche parole. Mi vengono in mente le parole di Pascal, il quale diceva che tutte le disgrazie dell’uomo (e della donna) dipendono dal fatto di non essere capace di starsene solo, almeno una giornata, in una stanza. Né meno acuta è l’annotazione di Rilke: «Una sola cosa è necessaria: la solitudine interiore. Tornare in se stessi e non incontrarvi, per ore, nessuno: a questo bisogna arrivare». Aggiungerei anche il pensiero di Thomas Mann: «La solitudine fa maturare l’originalità, la bellezza, la poesia. Ma genera anche il contrario: lo sproporzionato, l’assurdo, l’illecito».

Belle parole, ma a chi servono? Ecco il punto: servono a chi non è veramente solo, a coloro che si fanno compagnia con i libri, l’arte, la poesia, la musica. E che, una volta usciti dal loro studio, si tuffano tra la folla e vanno a trovare gli amici o hanno una famiglia a cui dare il proprio amore e riceverne. Le persone veramente sole, invece, non sanno a chi dare il proprio amore e in che modo riceverne. Eppure, in modi diversi, la solitudine non è un destino amaro riservato a pochi, ma una condizione comune a tutti. Quando nasciamo, quando moriamo e anche quando amiamo siamo terribilmente soli. Non so quale teologo ha scritto: “L’amore è l’incontro di due solitudini”». (Riflessioni di Giuseppe Bonura in Lettera dalla solitudine, su Avvenire del 19 nov. 1988).

LETTERA AL DIRETTORE DI «REPUBBLICA». «Leggo La Repubblica e mi infastidisce il tono di crociato anticlericale – e più spesso, purtroppo, anticristiano – di Beniamino Placido. Cito l’ultimo episodio. Critici di indubbio valore e libere coscienze come Carlo Bo e Geno Pampaloni hanno apertamente confessato il loro disagio nel recensire Il pendolo di Foucault e, come Ella sa, sul Suo giornale il 21 ottobre è apparso un articolo di inesorabile severità su quel libro. L’autore era Pietro Citati (noi ne avevamo riportato l’inizio in Detti e contraddetti del 3 novembre). Quando però L’Osservatore Romano ha espresso a sua volta un giudizio negativo, benché fosse meno duro rispetto a quello di Citati, ecco levarsi Beniamino Placido a denunciare l’oltraggio clericale alla cultura e alla libertà. Non sembra anche a Lei, signor Direttore, che in tutto ciò vi sia contraddizione e che la volontà di «pre-giudicare» quanto viene da una certa parte prevalga sul dovere di capire e di esaminare le cose con la massima oggettività possibile?».

8 dicembre 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Non solo contro chi la pensa diversamente. Per essere vera la satira deve rivolgersi contro chiunque, non solo contro chi la pensa diversamente; altrimenti è milizia politica. Può essere rispettabile, ma non è satira (Pier Francesco Pingitore). Incontri brevi e risorse nascoste. Una delle tristezze della vita è il carattere breve di tanti incontri che ci impedisce di esplorare e di conoscere le risorse nascoste nelle singole persone. Il mare dell’inconsistenza intellettuale. Ciò che oggi mi sembra molto preoccupante è il caos del pensiero. Nei settori scientifici si compie un lavoro serio, che porta a risultati convincenti. Niente di simile invece per quanto riguarda la conoscenza dell’uomo e del suo destino. Questo settore è lasciato all’arbitrio individuale, negando alla ragione la capacità di dirci qualcosa di valido sulle realtà fondamentali dell’esistenza umana. Così stiamo annegando in un mare di inconsistenza intellettuale. (Jean Daniélou)

Pensiero, bellezza, passione. Più preciso e dotto il pensiero, più alta la bellezza, la passione (William Butler Yeats). Il mistero della parola “destino”. Destino è una parola carica di significato, una parola di cui nessuna definizione riesce a esaurirne il senso. Non è necessità e neppure arbitrio; si tratta di un’elezione che non può essere spiegata. È un fardello, una responsabilità più che una ragione di gloria personale. Il destino non esenta l’uomo dalla responsabilità morale; può infatti accadere che un uomo, e non altri, abbia le capacità necessarie per fronteggiare una grave situazione, ma che non assuma l’impegno che gli viene richiesto (Thomas S. Eliot).

IL «DIARIO DELL’ANIMA» DI UN POLITICO CORAGGIOSO. I non più giovani lo ricordano con profonda ammirazione e con nostalgia; i giovani lo incontrano nei libri di storia, quando si parla del processo di decolonizzazione e del ruolo decisivo giocato dall’Onu, in particolare dal suo secondo Segretario generale (lo fu dal 7 aprile del 1953 al 18 settembre 1961). Destò emozione la sua morte misteriosa nell’adempimento di una difficile missione, mentre si recava arditamente in volo notturno da Léopoldville al villaggio di Ndola, ai limiti tra il Katanga e la Rhodesia del Nord, per incontrarsi, durante la gravissima crisi congolese, con i secessionisti. Pochi conoscono invece Dag Hammarskjöld autore di un piccolo libro che il filosofo Remo Cantoni giudicava «destinato a rimanere nel tempo e nella letteratura senza aggettivi, come un documento umano di intenso valore etico e religioso».

Dopo la morte venne trovato nella sua abitazione, a New York, un manoscritto intitolato in svedese Väg Märken, che significava tracce, piste, accompagnato da una lettera senza data rivolta all’amico Leif Beelfrage. In quella lettera Hammarskjöld autorizzava l’amico a rendere pubbliche le pagine del diario, tradotto in italiano con il titolo Linea di vita (Milano 1966). Il diario era stato iniziato senza l’idea che qualcuno lo dovesse vedere. «Ma dopo quanto mi è accaduto in seguito, dopo tutto ciò che si è detto e si è scritto sul mio conto – spiegava all’amico – la situazione è cambiata. Queste note danno l’unico “profilo” giusto che si possa tracciare… Se trovi che ne valga la pena, pubblicale pure, come una specie di “libro bianco” che riguarda il mio commercio con me stesso e con Dio».

Il coraggio, la sincerità di quelle pagine fanno pensare a Camus, la finezza e l’intensità dello scavo nella vita interiore sono degne di Agostino e di Pascal. La vita di quest’uomo, sempre impegnato in posizioni di primo piano nel mondo finanziario e nella politica internazionale, e la sua morte, il suo libro postumo rappresentano uno degli eventi spirituali più alti di questo nostro secolo. Il più energico e lucido difensore della dignità e dei diritti dei popoli del Terzo Mondo, inviso agl’imperialisti di qualsiasi colore, era un mistico, un protestante che voleva vivere come «il sacerdote cattolico che rinuncia al matrimonio per poter dare l’amore a tutti», un poeta vero, un discepolo di Kierkegaard.

15 dicembre 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La radice ultima dell’antisemitismo nel XX secolo. Gli ebrei sono il nemico perché, testimoniando per Dio che è Spirito, si liberano da ciò che si spaccia per assoluto: l’idolatria, l’esaltazione del capo, il fanatismo nazionalistico ecc. Perciò la semplice esistenza degli ebrei – il fatto che appartengono al ‘popolo di Dio’ – è una pietra dello scandalo. Devono essere eliminati con tanta maggior urgenza quanto più un sistema pretende di essere assoluto. Ne vale sempre la pena. Un individuo non può cambiare il corso del mondo. Ma se tutta la sua vita non si identifica con la ribellione ad esso, egli non potrà fare neanche quel briciolo di bene di cui è capace in quanto singolo. Proprio questo significa il cristianesimo. Essere consapevoli degli infiniti, terribili dolori, fisici e morali, specialmente delle torture fisiche che sono sofferte ogni momento nelle carceri, negli ospedali, dietro muri e all’aperto, su tutta la Terra, vivere con la chiara coscienza di tutto ciò, significa vivere con gli occhi aperti. Senza questa coscienza ogni decisione è cieca, ogni passo che si pensava sicuro è falso, nessuna felicità è vera. Ma la felicità e la verità si identificano, così come la verità e il cordoglio. Proprio questo significa il Cristianesimo, quando non è tradito dai suoi seguaci.

I brani riportati sono tratti dai Taccuini 1950-1969 di Max Horkheimer.

L’ILLUSIONE DELIRANTE. Nel 1936 l’estroso, affascinante André Malraux partecipò a una riunione di comunisti. La tesi comune, espressa con orgogliosa sicurezza, era che bisognava lavorare per l’avvento del comunismo – e si era nel bel mezzo dell’era staliniana – perché con il comunismo al potere il male è cancellato dal mondo. Malraux chiese che senso avrebbe avuto allora, la morte di una vecchina investita dal tram. L’intellettuale sovietico che presiedeva la riunione si stupì di tanta insipienza e disse che nella società comunista… non ci sarebbero stati investimenti di tram! E invece la domanda formulata da André Malraux, «che senso ha la vita, la morte», dev’essere il sottofondo reale, costante anche della politica.

SANTITÁ E UMORISMO. «Signore dammi una buona digestione e naturalmente anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e fa che non mi crucci di questa cosa troppo invadente che si chiama il mio io. Dammi il senso del ridicolo, fammi comprendere gli scherzi, affinché nella vita abbia un po’ di gioia e ne faccia partecipi gli altri. Amen».

Questa preghiera è stata chiamata «il Pater noster dell’umorismo». Il suo autore è Tommaso Moro. Grande umanista, avvocato, politico lungimirante, Moro fu Lord Cancelliere d’Inghilterra dal 1525 al 1532, quando di dimise per non avallare atti di governo e decisioni del re Enrico VIII che la sua coscienza non poteva sottoscrivere. Si leggano le sue splendide Lettere, ora pubblicate da Morcelliana, che ha pubblicato anche il ritratto di Tommaso Moro tracciato mirabilmente da Erasmo da Rotterdam, l’amico suo più caro, a cui risale la celebre definizione dello statista cristiano, decapitato il 6 luglio 1535: «un uomo per tutte le stagioni», cioè l’ideale compagno di viaggio per ogni libera coscienza.

22 dicembre 1988.

 GENEROSI, MA CON PREGIUDIZIO. No, qualcosa non va! L’immane tragedia causata dal terremoto in Armenia ha suscitato, com’era giusto, una nobile gara nel raccogliere aiuti per un popolo che ha conosciuto nella sua storia ogni sorta di sofferenza. Bene, quindi, ha fatto la Caritas Italiana a mobilitarsi con la solita tempestività e non si può non guardare con favore la sottoscrizione per i terremotati aperta da tre giornali europei. Tuttavia, anche nel compiere un’opera così utile e urgente, qualcosa non va. In un gioco che dovrebbe essere pulito si ha l’impressione che alcune carte siano truccate.

Primo esempio. Le motivazioni con cui i politici hanno accompagnato l’invio dell’assegno sono fuori luogo, tolgono nitore al significato universalmente etico di un atto di solidarietà, trasformandolo in un ennesimo «gesto» dell’intramontabile politique d’abord. Perfino un leader che ritenevo immune da simili confusioni, l’on. La Malfa, fa sapere che ha partecipato alla sottoscrizione per manifestare il suo «incoraggiamento al processo che in Urss oggi è aperto». Sarebbe proprio triste se si dovesse concludere che anche la generosità del cuore scatta solo per un pregiudizio politico.

Secondo esempio. In occasione del terremoto in Armenia una regione, quella siciliana, scorpora dal bilancio una cifra, 15 miliardi, e ne fa grazioso dono all’Urss. Quali che siano le intenzioni di chi ha preso o approvato una tale decisione, può una regione scavalcare il proprio governo nazionale e arrogarsi la facoltà di usare il denaro pubblico per finalità che possono essere anche lodevoli, ma sono estranee ai suoi compiti istituzionali? C’è poi qualche considerazione ulteriore da fare: il Belice non è Sicilia? Vent’anni fa scamparono in cinquemila al terremoto. Si legge che attendono ancora una casa e un lavoro, giacché i molti miliardi stanziati dallo Stato italiano per loro sono, per così dire, scomparsi carsicamente nel sottosuolo, senza lascia traccia. E può mai un gesto di indebita, scriteriata generosità coprire i crimini consumati ai danni degli abitanti del Belice e della stessa comunità nazionale?

LINEA RECTA BREVISSIMA. I ciotoli e l’oceano. Siamo come bambini che raccolgono ciotoli, mentre l’oceano della verità sta tutto intero davanti a noi (Isaac Newton). Pensiero e parola. Molti scrittori non pensano, prima, ma lo fanno mentre scrivono. La penna origina il pensiero. L’inconveniente che ne deriva – un pericolo contro il quale l’autore deve stare sempre in guardia – è che nella parola scritta si determina una specie di magia. L’idea acquisisce sostanza assumendo natura visibile e poi si frappone alla sua stessa chiarificazione (William Somerset Maugham).

Memoria e domanda sul destino dell’uomo. L’arte non è un divertimento. Non ci è stata data per distrazione, ma per ricordare. Solo l’attualità che aiuti a riscoprire l’autenticità. L’attualità non ha interesse che nella misura in cui essa sfugge alla fuggevolezza dell’attualità. L’indomita ricerca. Per l’artista, al di là delle ingrate apparenze, si tratta di muovere alla scoperta della sorgente nascosta che calma una sete molto antica. (Michel Ciry, pittore)

L’OMBRA DEL LEADER. «Un Leader Politico passeggiava in una bella giornata di sole, quando vide la sua Ombra svignarsela. –Torna qui, mascalzone, gridò. –Se fossi un mascalzone – gli risponde l’Ombra, aumentando la velocità – non ti avrei mai abbandonato». È uno degli apologhi surreali di Ambrose Bierce, lo scrittore capostipite dell’umorismo nero americano. Di lui, che finì disperso durante la rivoluzione messicana del 1914, possiamo leggere le Favole a orologeria tradotte da Guanda.

PRIMO CONTI: L’ESILIATO RITROVA LA BELLEZZA. Il 12 novembre Primo Conti ci ha lasciato. È un pittore meno noto e meno studiato dei suoi amici Boccioni e De Chirico, pur essendo una delle voci più significative della pittura italiana del Novecento. Fin dall’adolescenza, rivelò un forte temperamento d’artista e aderì al futurismo. Passò per altre varie esperienze, senza adagiarsi in nessuna di esse, cercando senza sosta sempre nuove forme espressive ai suoi ideali e al suo bisogno d’infinito. Scrittore e poeta soprattutto nei momenti di crisi, egli ha saputo esprimere nei suoi versi la nostalgia di una meta intravista, ma creduta irraggiungibile, e il suo tormento. «Ho versato vini di tutti i colori su questa maciullata / Bellezza. / Giro per le piazze con la cadenza dell’Esiliato» diceva di sé in Saltimbanco. Ma anche qui, attraverso le sue creazioni più alte, durante e dopo il fecondissimo decennio 1924-1934, l’Esiliato ha avuto il privilegio di ritrovare la Bellezza. Un suo quadro – la caravella dalle vele crociate che attraversa le Colonne d’Ercole – non sta forse a simboleggiare l’aspetto essenziale di un cammino di fede e ardimento?

29 dicembre 1988.

 LA «GRANDEZZA» DI OGNI BAMBINO. «Era una donna ancor giovane e il suo bambino poteva avere sei settimane. Egli sorrideva a sua madre per la prima volta. Subito la vidi fare il segno della croce con grande pietà. “Perché fai questo, mia cara?” – le dissi. Allora avevo la mania di fare domande. Ella rispose: “La gioia di una madre che vede il primo sorriso del suo bambino è così grande, quanto quella che Dio prova tutte le volte che vede, dall’alto dei cieli, un peccatore pregarlo dal fondo del suo cuore”. Ecco quasi testualmente ciò che mi rispose quella donna del popolo. Essa ha espresso questo pensiero così profondo, così sottile, così puramente religioso, in cui si sintetizza tutta l’esistenza del Cristianesimo, che riconosce in Dio il Padre celeste che gioisce alla vista dell’uomo come un padre alla vista del figlio. È il pensiero fondamentale di Cristo. Una semplice donna del popolo! È vero che era una madre…».

Chi ha scritto quella pagina, in cui dà indubitabilmente voce a un’esperienza diretta, amava profondamente i fanciulli. È Fëdor M. Dostoevskij che ci parla di loro ne L’Idiota. «Si può dire tutto a un fanciullo, tutto! Ciò che mi ha sempre meravigliato è la falsa idea che gli adulti si fanno dei fanciulli. Non li capiscono nemmeno i loro genitori… E i fanciulli si accorgono quando i loro genitori li considerano come bambole che non capiscono niente… Le persone adulte non sanno che, anche nella situazione più difficile, un fanciullo può dare un consiglio della più grande importanza. Oh Dio! Quando uno di loro fissa su di voi il suo sguardo felice e fiducioso, voi avete vergogna d’ingannarlo!… La loro conversazione guarisce l’anima». Così il Dante russo ci aiuta a riscoprire uno dei doni più alti che il Natale reca con sé: la consacrazione nella dignità di ogni bambino, la più indifesa di tutte le creature e la più preziosa.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’uomo che vorrei essere. Sorridente, aperto, incorruttibile / il corpo dominato e libero. / L’uomo che divenne quel che poteva / e fu quel che fu, / sempre pronto a raccogliere tutto / in una semplice offerta». Non passare la vita a far la guardia a se stessi. Non scrutare ogni tuo passo. Solo chi guarda lontano si trova. Il coraggio di osare. Quello che devi osare: di essere te stesso. Quello che potresti ottenere: che la grandezza della vita si rispecchi in te a misura della tua purezza. Faccia a faccia. Ogni momento / faccia a faccia / con quest’amore / che vede tutto / ma indulge / con una pazienza / che è giustizia / ma non giudica / se il nostro sguardo / rispecchia il suo / in umiltà.

25 dicembre. Nel tuo vento. Nella tua luce. / Quanto è piccolo tutto il resto, / quanto siamo piccoli noi. / Piccoli e felici in ciò che solo è grande. Che cos’è la fede. Fede è l’unione di Dio con l’anima; già, ma in ciò anche la certezza della onnipotenza di Dio mediante l’anima. E perché no? -Non vorrà esser lui ad insegnarmi! – E perché no? Non c’è nessuno da cui tu non possa apprendere. Dinanzi a Dio che parla in tutti sei sempre in prima elementare. La mancanza di contegno» da parte di Gesù. Sedeva a mensa con pubblicani e peccatori, frequentava prostitute. Era forse per avere i loro voti? O pensava di poterli convertire con tali accomodamenti? O la sua umanità era tanto ricca e profonda per poter venire anche in loro a contatto con la nota comune, indistruttibile, su cui costruire il futuro? (Dal volume Linea della vita di Dag Hammarskjöld, Milano 1966).

«CIÒ CHE MI COMMUOVE DI PIÙ IN QUESTO MONDO». Da quando le ho lette, ho ripensato spesso a queste parole: «Se dovessi morire questa sera e mi si domandasse ciò che mi commuove di più in questo mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini. Tutto si perde nell’amore, e benché sia vero che noi saremo giudicati sull’amore, è ugualmente fuori dubbio che noi saremo giudicati dall’Amore, che non è altro se non Dio». Le ha scritte Julien Green ed è con esse che si chiude il quinto volume del suo Journal, l’opera di gran lunga più affascinante di uno scrittore che pure ci ha dato romanzi celebri come Adrienne Mesurat, Leviatan, Moira, Mont Cinère, e il giovanile Paesi lontani.

A quelle parole torno specialmente in questi giorni in cui è riproposto a ognuno di noi il mistero dell’Incarnazione. Ad esse in me si affiancano i versi conclusivi della più alta lirica del nostro Ungaretti, Mio fiume anche tu. Perché non riascoltarli insieme?

«Cristo, pensoso palpito, / astro incarnato nell’umane tenebre, / fratello che t’immoli / perennemente per riedificare / umanamente l’uomo, / Santo, Santo che soffri / maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / per liberare dalla morte i morti / e sorreggere noi infelici vivi, / d’un pianto solo mio non piango non piango più / ecco, Ti chiamo, Santo / Santo, Santo che soffri».

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.