Detti e Contraddetti 1990 – 1° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1990 – PRIMO SEMESTRE

 

4 gennaio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un’insegna che fa onore a chi la fa sua. Preferisco perdere dei lettori piuttosto che ingannarli (Georges Bernanos).

L’autoritratto di Leonardo Sciascia. Il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del Meridione, siciliani in specie. La religiosità di Pirandello. Anima naturaliter cristiana che si scontra con un mondo soltanto nominalmente, per apparenza e finzione ormai inveterate e non più come tali riconoscibili, cristiano. Un bel colpo di fortuna. Per Pirandello avere scansato l’ora di Freud è stato un bel colpo di fortuna. (Leonardo Sciascia)

Per De Gasperi era così. Dirsi cristiani nel settore dell’attività politica non significa avere il diritto di menar vanto di privilegi in confronto di altri, ma implica il dovere di sentirsi vincolati, in modo più particolare, da un profondo senso di fraternità civica, di moralità e di giustizia verso i deboli e i più poveri (Alcide De Gasperi).

 

LA CARTOLINA DA INCORNICIARE. «Proprio in questi giorni, come per caso, tra le mie carte è balzata fuori una cartolina speditami alla Biblioteca Vaticana. Te la trascrivo: Dott., sono sempre solo. Vedrei con grande conforto qualche giovane amico come Lei. Sto a S. Chiara; mangio alla trattoria della Rotonda, ma verrei anche costì volentieri, se mi dice come. Suo Aff. Alcide. Data del timbro postale: 2.8.1928 VI E.F.». Quel vocabolo solo m’agghiacciò, allora. E mi ridà pena ancora. Esprimeva la solitudine d’uno appena uscito dal carcere».

Alcide è evidentemente Alcide De Gasperi. La persona, il giovane amico a cui De Gasperi si rivolge è Igino Giordani, collaboratore stretto e figlio spirituale di Luigi Sturzo, i cui infuocati articoli contro il fascismo in ascesa, i suoi metodi e le sue idee di fondo Piero Gobetti volle che fossero raccolti e pubblicò col titolo di Rivolta cattolica. Igino Giordani sfuggì al carcere perché grande invalido di guerra e a partire dal ‘28 fu assunto dalla Biblioteca Vaticana come capo del catalogo. Traggo la «perla» della cartolina degasperiana dal volume della giovane studiosa Luisa Cunego, Igino Giordani, Ferdinando D’Ambrosio, Corrispondenza inedita e altri documenti (La Nuova Cultura Editrice, 1989, p. 145).

 

CLERICO-FASCISMO E CLERICO-COMUNISMO. Igino Giordani con la sua Rivolta cattolica ci dette il manifesto del cattolicesimo democratico in polemica contro il clerico-fascismo. Siamo in attesa di un libro analogo su di un fenomeno assai più diffuso ed esteso nel tempo, come il clerico-comunismo, anche se l’introduzione puntuale allo studio di esso esiste già ad opera del compianto Augusto Del Noce: Il cattolico comunista (Milano 1981).

Quali che siano le differenze di inclinazioni, finalità e temperie storica, c’è qualcosa di essenziale che accomuna clerico-fascismo e clerico-comunismo: la tacita o esplicita rinuncia alla scelta fondamentale e irrevocabile della libertà come metodo e come valore. La pretesa «efficacia» delle scorciatoie totalitarie è un’illusione, ma un’illusione che costa lacrime e sangue ai popoli. In Europa un cattolico non può veramente lavorare ad una politica umanistica se non coniuga di continuo, per quanto difficile possa essere, libertà e giustizia, cattolicesimo liberale e cattolicesimo sociale.

 

 

11 gennaio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il povero e il… ministro. Vale più asciugare una lacrima a un povero che ottenere cento sorrisi da un ministro (Proverbio cinese). Una definizione del comunismo data 52 anni fa. Malgrado le apparenze talvolta seducenti, il comunismo è un sistema pieno di errori e di sofismi, contrastante sia con la ragione che con la rivelazione divina, sovvertitore dell’ordine sociale in quanto ne distrugge le stesse fondamenta. Il comunismo misconosce la vera origine, la natura e il fine dello Stato, così come nega i diritti della persona umana, la sua dignità e libertà (Pio XI, Divini Redemptoris, pubblicata il 19 marzo 1937, avendo condannato cinque giorni prima il nazismo nell’enciclica parallela Mit brennender Sorge). L’esito che era inscritto nelle premesse. Le promesse dei falsi profeti di questa terra si spengono nel sangue e nelle lacrime (Pio XI). Il senso di un anno eccezionale come il 1989. Viviamo questo momento come sollevati da un incubo e aperti a migliore speranza (Giovanni Paolo II).

 

CHI HA PARLATO DI HAVEL? Penso con malinconia all’ignoranza voluta della grande stampa nazionale e di quelli che pure si dicono «intellettuali» nei confronti della cultura del dissenso nei Paesi dell’Est europeo. In Italia sono stati editori poveri e coraggiosi come il Cseo, il Centro studi Europa orientale di Bologna, e Russia cristiana di Seriate ad avvertire la superiorità morale e l’autenticità di una cultura le cui idee costavano fame, carcere, emarginazione a quelli che le professavano. E per aver dato voce ai perseguitati, ai difensori dei diritti umani nei regimi comunisti, quanti insulti dai… progressisti del fronte culturale marxista! Il Cseo pubblicò di Havel, già nel 1979, Il potere dei senza potere, alcuni suoi scritti teatrali e, nell’81, Dell’entropia in politica, che si apre con la celebre lettera a Husak. Del grande Havel ricordo in particolare una riflessione che si legge nel volumetto Il potere senza potere: «Se nel ‘68 pensavo che il nostro problema sarebbe stato risolto dalla fondazione di un partito di opposizione che contendesse pubblicamente il potere al partito finora dominante, ormai da tempo so che nessun partito d’opposizione di per se stesso – come pure nessuna buona legge elettorale di per se stessa – può garantire che la società non resterà vittima di qualche nuova violenza. Questa garanzia non è questione di aride disposizioni organizzative. È davvero difficile cercare in esse quel Dio che è ormai l’unico che ci possa salvare». Senza un supplemento d’anima la stessa democrazia tende a degradarsi a tecnica di consenso, mentre la sua forza sta nell’essere un valore etico-politico, una proiezione nel politico di qual valore dell’uomo di cui il Vangelo è l’annuncio più alto.

 

DISCORSO PER L’ASSEGNAZIONE DEL PREMIO ERASMO. Il premio Erasmo – riservato a coloro che più si adoperano per riscoprire l’unità culturale e spirituale della nostra Europa – due anni fa fu assegnato a Vàclav Havel. Lo scrittore cecoslovacco si vide negare il permesso di recarsi a Rotterdam. Fece pervenire, però, il testo del suo discorso. Del suo discorso – che merita di entrare in quell’antologia ideale che intitolerei Per rifare liberi gli uomini – mi piace sottolineare il passaggio che meglio rivela la personalità di Vàclav Havel. «La prima cosa che ciascuno di noi può fare è di continuare a ripetere di volere quello che vuole. Ciascuno di noi può, anche dove la realtà politica sia particolarmente dura e i limiti frapposti dalla stessa natura e dall’ambiente sociale sembrino invalicabili, dar voce ai comuni ideali e cercare di metterli in pratica. Ciascuno può fare dei sacrifici personali per affermare i suoi ideali. Lo può se ritiene che ci siano alcune cose per le quali vale la pena di soffrire. La logica risiede in questo: a meno che io, tu, lui, lei, ognuno di noi, decidiamo di intraprendere questo cammino, il mondo è destinato a rimanere qual è. Dobbiamo cominciare da noi stessi: se aspettiamo che si muova prima qualcun altro, nessuno di noi potrà sperare di vedere un cambiamento. Erasmo scrisse un libro impressionante, l’Elogio della follia. Ebbene io vi sto consigliando proprio il coraggio di essere folli. Folli nel senso migliore della parola. Bisogna essere folli e cercare con tutta la serietà possibile, il cambiamento di ciò che viene definito immutabile! Del resto, oggi non state forse premiando un folle? E non sono forse premiati, per suo tramite, quelle decine e centinaia di altri folli che non esitano, per loro libera scelta, a rischiare anni di carcere per cambiare l’immutabile, osando opporre a un potere gigantesco di oppressione le loro insignificanti macchine da scrivere?».

 

 

18 gennaio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La legge morale non è la Gazzetta Ufficiale. La legge non fa i costumi, può solo proteggerli quando ci sono. Bisogna che l’ordine esista nelle coscienze, prima che nel testo della Gazzetta Ufficiale. Mille volte meglio un popolo corrotto che un popolo ipocrita. I cristiani devono ricristianizzarsi. I cristiani devono ricristianizzarsi, cioè vivere la loro fede: realmente, eroicamente, sostanzialmente. E non comprometterla, per esempio, in ogni combinazione politica. Bisogna servire la fede, non servirsene. Che cosa ha significato il totalitarismo per l’Europa. Le altre crisi del nostro continente erano crisi della coscienza europea cristiana, mentre il totalitarismo è una crisi della coscienza europea scristianizzata.

Impegnare la propria anima. Il maggior numero di noi non impegna nella vita che una debole parte di sé, una parte ridicolmente piccola, come quei ricchi avari che danno ai poveri solo il superfluo del loro superfluo. Un santo non vive del superfluo del suo superfluo. Vive del suo capitale, impegna totalmente la sua anima. Moltissimi uomini, vivono e muoiono senza mai essersi serviti della loro anima, nemmeno per offendere il buon Dio. La speranza, impegno d’amore con l’avvenire. Non hanno né pazienza, né intelligenza, né onore; non vogliono che godere. Ma l’attesa del godimento non è speranza, è piuttosto delirio, ossessione. Chi vive troppo in fretta non ha più tempo di sperare: il ritmo è troppo veloce perché nasca e duri un sentimento così forte e dolce come la speranza, questo casto impegno d’amore con l’avvenire (Georges Bernanos, Un uomo solo, scelta di scritti politici a cura di Valerio Volpini, Vicenza 1959).

 

«I TESORI DEL RE». È il titolo di una conferenza di John Ruskin, paradossale e mirabile protagonista, in Inghilterra e in Europa, del rinnovamento della storia dell’arte nel secolo scorso. Marcel Proust tradusse in francese quella conferenza e in una nota scrisse un bellissimo elogio del libro, la cui lettura concilia solitudine, riflessione personale e colloquio, discussione, arricchimento del «nostro io» grazie all’«altro io» che ci stimola e incalza.

«Quando si legge – scrive Proust – si riceve il pensiero di un altro, e tuttavia si è soli, si è in pieno lavoro intellettuale, in piena aspirazione, in piena attività personale: si ricevono le idee di un altro in spirito, cioè in verità, ci si può dunque unire ad esse, si è quest’altro e tuttavia altro non si fa che sviluppare se stessi con più varietà che se si pensasse da soli. Siamo spinti da altri sulle nostre proprie vie». I tesori del Re sono, appunto, i libri.

 

L’IMPONDERABILE: HAVEL PRESIDENTE! L’ultimo dono del fatidico 1989 è stata l’elezione del leader del dissenso e della lotta per i diritti umani, Vàclav Havel, a presidente della Repubblica di Cecoslovacchia. Ironia della storia: i suoi persecutori di ieri sono gli stessi che sono stati costretti dalla vittoria del popolo a votarlo oggi!

Chi ha seguito il 29 dicembre in Tv l’attuarsi di un evento così straordinario, può ben dire a se stesso che ci sono momenti magici in cui la realtà supera da ogni lato il sogno. Se poi si pensa che la «rivoluzione vellutata», come l’ha definita Alexander Dubcek, dell’autunno praghese ha avuto come protagonisti i giovani, come non gioire dell’esempio morale che essi ci han dato, come non essere ammirati della loro straordinaria maturità e del loro incredibile coraggio?

«Non servo nessuna ideologia, nessuna dottrina, nessun partito politico. – scriveva con forza sette anni fa Vàclav Havel – Servo soltanto la mia coscienza». E aggiungeva: «Non ho mai avuto l’ambizione di diventare un politico, un rivoluzionario o un dissidente di professione. Sono uno scrittore che scrive quello che vuole e non quello che vorrebbero gli altri. Il mio impegno civico lo sento come un dovere naturale che deriva dall’essere scrittore, cioè un personaggio pubblico che, volente o nolente, ha una responsabilità maggiore». Un impolitico, dunque, Havel? In un certo senso sì, ma di quella specie nobilissima che, a causa dell’energia morale che l’anima e del totale disinteresse, sa generare la più alta delle forme politiche. Quella politica che Jacques Maritain ha chiamato, con un termine felicissimo, «humaniste», umanistica.

 

UN INTERROGATIVO DA NON ELUDERE. «Lev Nikolàevic Tolstoj dice che quanto più l’uomo si dà a seguire la bellezza, tanto più si allontana dal bene».

«E voi credete il contrario? Che il mondo sarà salvato dalla bellezza, dal mistero e da cose del genere, Ròzanov e Dostoievskij?» Così Pasternak pone il problema nel primo capitolo del Dottor Zivago. Le celebri parole «la bellezza salverà il mondo» sono di Dostoevskij. Occorre però interrogarsi sul senso profondo di quelle parole. Proviamo a farlo.

 

 

25 gennaio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ciò che Dio non è. Dio non è un socio d’affari (lo scriveva a sua sorella Romolo Murri, uno dei padri del cattolicesimo sociale). Assai peggio della menzogna. L’auto-inganno è ancor più pericoloso della menzogna (Carl Friedrich von Weizsaecker). Fede e dubbio. Credere è anche essere capaci di sopportare i propri dubbi (Romano Guardini). Basta fermarsi attorno all’uomo? La scienza permette di fare il giro attorno all’uomo, ma non di entrare nel suo io (Charles Péguy). A proposito del crollo delle ideologie. Tutti gli idoli dei pagani sono un nulla (Libro dei Salmi). Coniugare storia e politica. La storia senza la politica è vana erudizione; la politica senza la storia è cieca, brancola nel buio (Alessandro Manzoni).

C’è una legge ironica che presiede all’attuazione delle utopie. C’è una legge ironica la quale fa sì che progetti di salvezza rivoluzionaria evolvano in regimi di terrore, e che la promessa di una perfetta democrazia diretta assuma in pratica la forma della dittatura totalitaria (Jacob L. Talmon). Dire che accadrà comunque ciò che si vuole che accada. Spesso la profezia è la causa principale dell’evento profetizzato (Thomas Hobbes). Padri e figli. I figli mangiano i frutti e i padri scivolano sulle bucce (Proverbio albanese). L’uomo e la macchina. Un giorno le macchine potranno risolvere tutti i problemi, ma nessuna di esse potrà mai porne uno (Albert Einstein).

 

I DETTI «SEGRETI» DI GESÙ. Accanto alle fonti canoniche del Nuovo Testamento nelle comunità primitive circolavano testimonianze e scritti, i quali appaiono utili e necessari a noi come a Clemente Alessandrino e a Origene, i primi grandi esegeti e teologi della nuova fede. Le tradizioni orali e scritte che precedettero e accompagnarono la redazione dei libri del Nuovo Testamento non costituiscono un «quinto Vangelo», ma gettano nuova luce sulla figura dello stesso Gesù e sul suo messaggio. I detti «segreti» di Gesù vanno pertanto accolti con commossa gratitudine verso chi – e in Italia il primo fra tutti è Luigi Moraldi – ha saputo restituirceli nella loro autenticità, accertata su tutte le fonti a cominciare da quelle canoniche.

Ecco alcuni dei detti «segreti» di Gesù che più mi hanno preso. «Colui che conosce tutto, ma ignora se stesso, ignora tutto» (Vangelo di Tommaso). «Siate transeunti!» (Vangelo di Tommaso). «Chi è vicino a me, è vicino al fuoco» (Vangelo di Tommaso citato anche da Origene, In Jerem. XX, 3). «Colui che non odia suo padre e sua madre come me, non è adatto a essere mio discepolo. E colui che non ama suo padre e sua madre come me, non può divenire mio discepolo» (Vangelo di Tommaso): brano in cui sono mirabilmente congiunti distacco interiore e amore profondo. «Chi si stupisce regnerà» (Vangelo secondo gli Ebrei). «Non potete essere lieti, se non quando guardate con amore il vostro fratello» (Vangelo degli Ebrei). «Un uomo non tentato è inetto» (Didascalia Sir.; è ripreso da molti antichissimi scrittori cristiani. In Tertulliano si ha la variante: «L’uomo non tentato non conseguirà il Regno», De baptis., 20). Esplicitazione del Discorso della Montagna mi pare il seguente detto: «Beati coloro che piangono sulla perdizione dei non credenti» (Didascalia Sir.). E così pure l’altro: «Beato l’uomo che ha sofferto. Egli ha trovato la vita» (Vangelo di Tommaso). Il rispetto per gli altri e il carattere non esclusivo, bensì incluso, della verità risplende nel passo: «Chi non è contro di voi, è per voi. Colui che oggi è lontano, domani sarà vicino» (Papiro di Ox., 1224).

Ultimi in ordine cronologico, ma non meno belli i «detti arabi» su Gesù. Un rapido assaggio. «Il Messia disse: Il mondo è un ponte. Attraversatelo, ma non abitateci sopra». «Non conquisterete ciò che amate, se non tollerando ciò che detestate». «In ogni credente vi sono quattro virtù: il silenzio, che è inizio di vita devota; l’umiltà; il ricordo di Dio; l’esiguità d’ingiustizia». Ce n’è anche per quelli che si credono di essere chissà chi: «Quante lampade spegne il vento! Quanti servi di Dio corrompe la vanagloria!». Sono semi di luce di cui abbiamo bisogno per riscoprire le nostre radici e il senso della vita. Li ha raccolti per noi Luigi Moraldi in Detti segreti di Gesù, ora negli Oscar Mondadori.

 

 

1 febbraio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. In morte di Samuel Beckett. Era un poeta in cerca di Dio. Non si può parlare di Beckett senza pensare alla metafisica. Il suo teatro e il mio hanno questo di caratteristico: non sono mondani (Eugène Ionesco). La sola critica che si vorrebbe. Gradiva ogni tipo di critica purché fosse entusiastica (Nantas Salvalaggio). È molto comoda “la cultura dell’invisibilità”. Il dogmatismo coltiva una cultura dell’invisibilità. Il Partito comunista italiano, per esempio, ha praticato per anni la cultura dell’invisibilità nei confronti dell’Est (Vàclav Belohradsky, esule cecoslovacco in Italia). Può un intellettuale essere un delinquente? Non c’è equivalenza tra l’intellettualità e l’innocenza. Nemmeno lo spirito di corpo o di casta, di cui peraltro sono sprovvisto, può far stravedere fino a questo punto. Ci sono stati intellettuali capaci di delitti più ignobili ed efferati: e un intellettuale che volesse ignorarlo non sarebbe un intellettuale ma un cretino (Leonardo Sciascia).

Gli esiti disastrosi del perfezionismo. Quando si vogliono perseguire le virtù fino al loro punto estremo, emergono dei vizi che si insinuano insensibilmente così che ci si perde nei vizi e non si vedono più le virtù. Perfino del desiderio della perfezione si può rimanere vittime. L’angelo e la bestia. L’uomo non è né un angelo, né bestia, e disgrazia vuole che chi vorrebbe fare l’angelo fa la bestia. La vera ampiezza di sguardo e di cuore. Gli spiriti universali non vogliono saperne di etichetta. (Blaise Pascal)

 

L’EMERGENZA CRIMINALE E LE TESI SOSTENUTE DA MARIO GOZZINI. Il cosiddetto «padre» della riforma carceraria, che in realtà ha molti «padri», com’è logico, Mario Gozzini, ha dichiarato: «Invece di sollevare polveroni occorre riflettere su come la legge è stata applicata, accertare meglio il criterio di pericolosità sociale dei soggetti affinché si chieda al magistrato che deve concedere i benefici della legge la prova provata del venir meno di tale pericolosità». Orbene è proprio questo che nessun magistrato può fare. Chi, infatti, o che cosa può dargli la prova provata del venir meno della pericolosità o del «concreto pericolo di fuga» di un boss mafioso, di un mozzatore di orecchie, di un trafficante di droga? Se Gozzini replica che tra le prove ci dovrebbero essere rapporti scritti sul comportamento dei detenuti, allora vuol dire che ignora ciò che tutti sanno: che i veri criminali, quelli che l’«organizzazione» considera suoi capi o pupilli, dispongono dentro e fuori del carcere di un enorme potere di intimidazione nei confronti di chi deve redigere rapporti sul loro comportamento.

Il signor Gozzini precisa il suo pensiero in questi termini: «La questione comunque va affrontata caso per caso e non definendo gruppi di reati esclusi dai benefici di legge» (La Repubblica del 18 gennaio 1990). Vorrei replicare con alcune osservazioni semplicissime. La prima osservazione è che la Costituzione parla di «senso di umanità» nell’applicazione della pena e non fa assolutamente obbligo di equiparare tutti i detenuti, quale che sia il tipo di reato commesso, nella concessione di determinati benefici. Poiché, come s’è detto, nessun magistrato può avere la prova provata di ciò che farà il boss mafioso, il sequestratore, il trafficante di droga una volta che le porte del carcere gli siano state spalancate, pretendere dal magistrato ciò che non è affatto in suo potere, di presegnare cioè il futuro di un detenuto in licenza premio, ipotizzando inoltre nei suoi confronti in caso di errore l’avvio di procedimenti giudiziari, è francamente una illusione e un assurdo giuridico. Nemo ad impossibilia tenetur! Ed è per questo che bisogna offrire al magistrato e ai suoi collaboratori un modo preciso per sottrarsi al gioco della grande criminalità organizzata, un criterio oggettivo e fisso a cui nessuno deve derogare. E poiché la battaglia contro la grande criminalità si combatte oggi sui fronti della mafia, del traffico di droga e dei sequestri di persona, crimini notoriamente connessi tra loro e di eccezionale pericolosità sociale, esiste un solo criterio certo ed è l’esclusione dai benefici di legge di quanti rientrano nell’uno o nell’altro dei tre gruppi di reati. Chi si rifiuta di aprire gli occhi sull’emergenza criminale che sta vivendo il nostro Paese oggi, favorisce oggettivamente i disegni della grande delinquenza, dà un contributo rilevante alla vanificazione del lavoro delle forze di polizia e dei giudici, offende il bisogno di giustizia che è un’altissima esigenza morale ed una componente fondamentale della coscienza di un popolo civile.

Gozzini conclude la sua dichiarazione con queste parole: «Non c’è Paese civile al mondo che non preveda flessibilità nell’esecuzione della pena e per il condannato un pertugio di speranza». Siamo d’accordo sul principio enunciato ed è per questo che ci pare cosa giusta e necessaria mantenere intatta la possibilità – persino per i mafiosi, i mozzatori di orecchie e i trafficanti di droga – di uno sconto sulla durata della pena, basato realisticamente sull’effettiva assenza di comportamenti criminosi durante la detenzione. Uscire prima dal carcere è certo anch’esso «un pertugio di speranza», ma sarebbe stoltezza e indecenza permettere ai peggiori criminali – che oggi sono anche quelli più forniti di mezzi finanziari – di farla franca del tutto grazie alla demagogia della porta spalancata per tutti. Chi non capisce che ben poche cose hanno il potere di demoralizzare un popolo, quanto lo spettacolo dei grandi criminali che rimangono impuniti, lavora, quali che siano le sue pie velleità, a moltiplicare il loro numero.

 

 

8 febbraio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il punto debole della laicizzazione atea e dell’agnosticismo. Sarà forse la scienza stessa a costringere l’uomo a riscoprire il mistero di Dio, via via che la sua solitudine cresce con la scienza (Philippe Turney). La legge che ignora la realtà. Un vizio costante nell’atteggiamento dei legislatori italiani è quello di non curarsi della praticabilità concreta delle leggi che producono. Essi si accontentano delle parole scritte nella legge. Che ci siano i mezzi per applicarle, che si possa passare dalla enunciazione astratta alla realtà concreta non sembra loro interessare (Vladimiro Zagrebelsky). I carri armati non bastano più. I carri armati non risolvono i problemi, offrono soltanto un temporaneo vantaggio, ma non a lungo termine. La storia è piena di esempi di questo genere (dichiarazione di Egor Ligaciov, leader dei conservatori sovietici, a un quotidiano svedese). Dubcek e Havel, simboli di due cose molto diverse. Non si tratta di dare un volto umano al comunismo. Nessuno ci è mai riuscito, neppure Dubcek. Si tratta di creare una comunità libera, nella quale nessun partito sia privilegiato, nessun sindacato sia subordinato al partito, nessuna religione sia al servizio dello Stato. Per fare ciò, la tradizione socialista e marxista non basta. Ci vuole la sintesi di democrazia e cristianesimo. Havel è tale sintesi (Gianfranco Morra). Nello spirito di Herder. Forse non saremo veramente salvi finché non impareremo a sentire, con una concretezza quasi fisica, che ogni nazione è destinata ad avere la sua ora e che non ci sono, in senso assoluto, civiltà maggiori o minori, bensì un succedersi di stagioni e fioriture (Claudio Magris).

 

LE «SOFFIATE» DI JOSIF BRODSKIJ AI GIOVANI. C’è un muro trasparente tra le generazioni. Non è un sipario di ferro, ma di… ironia, un velo invisibile, che rende difficile il passaggio dell’esperienza, la comunicazione diretta, la sintonia. Al massimo quel sipario d’ironia, quel velo impalpabile, eppur reale, riesce a superarlo qualche «soffiata». Josif Brodskij – condannato in Urss per «parassitismo sociale», espulso, residente in America da anni, premio Nobel nel 1987 – ha voluto passare, ad una festa di giovani a cui era stato invitato, alcuni dei suoi appunti scarabocchiati su un taccuino giallo.

«Le cose che state per ascoltare – ha detto ai giovani di Ann Arbor che festeggiavano la loro laurea – prendetele semplicemente come soffiate».

La prima soffiata. «Adesso e nel tempo a venire, credo che per voi sarà un buon affare puntare alla precisione del linguaggio. Cercate di costruirvi un vocabolario e di trattarlo come trattereste il vostro conto corrente. Seguitelo con ogni cura e cercate di impinguare i profitti. Qui non si tratta di migliorare la vostra eloquenza amatoria o il vostro successo professionale, né di trasformarvi in raffinati conservatori da salotto. Lo scopo è un altro: mettervi in grado di esprimere voi stessi con la massima ampiezza e precisione possibili. Perché l’accumularsi di cose non dette, non espresse a dovere, può tradursi in nevrosi… L’espressione resta indietro rispetto all’esperienza e questo non fa bene alla psiche. Per evitare questo pericolo basta comprare un dizionario e leggerlo un poco ogni giorno – e magari, di tanto in tanto, comprare libri di poesia. I dizionari, però, sono d’importanza primaria».

La seconda soffiata. «Adesso e nel tempo avvenire cercate di essere buoni con i vostri genitori. Voglio semplicemente dire questo: con ogni probabilità i vostri genitori moriranno prima di voi, e allora è meglio che vi risparmiate almeno questo motivo di colpa, se non di dolore. Se dovete ribellarvi, ribellatevi a gente meno vulnerabile. I genitori sono un bersaglio troppo vicino (come, del resto, le sorelle, i fratelli, le mogli e i mariti); la distanza è tale che sparate a colpo sicuro. In questo caso il ribelle, al riparo delle sue belle frasi, si assicura – e questo è estremamente borghese – il massimo del comfort, quello delle proprie convinzioni. Stare alla larga da questo schema significa ritardare il proprio imborghesimento mentale. Insomma, quanto più a lungo rimanete scettici, dubbiosi, lontani da un siffatto comfort mentale, tanto meglio per voi».

La terza soffiata. A me pare quanto mai utile a evitare sia il fanatismo, la caduta nell’inferno della disumanità utopica, sia la fuga dalle concrete responsabilità. «Cercate di non fare troppo conto sui politici – non tanto perché siano ottusi o disonesti, come sono infatti abbastanza spesso, quanto perché il compito che li aspetta è troppo grande anche per i migliori tra loro – né su questo o quel partito, su un’ideologia, un sistema politico o un progetto di sistema… Alla luce di questa realtà, spetta a voi giovani prepararvi a gestire il mondo in prima persona – almeno quella parte del mondo che è alla vostra portata, nel vostro raggio d’azione» (dal Corriere di Cultura del 14 gennaio 1989).

 

 

15 febbraio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’incedere dall’amore. L’amore e la fretta mai s’accoppiano. Perché è dalla pazienza che si misura l’amore. Un passo uguale e sicuro: è questo l’incedere dell’amore (Czeslaw Milosz). Il principio e la fine. La fine di una cosa val più del suo inizio (Libro del Qoelet). Ogni volta che abbiamo finito di leggere un libro. Che la fine del libro non sia la fine della ricerca (Bernardo di Clairvaux, ossia di Chiaravalle). Sereno. Dopo tanta / nebbia / a una / a una / si svelano / le stelle. / Respiro / il fresco / che mi lascia / il colore del cielo. / Mi riconosco / immagine / passeggera. / Presa in un giro / immortale (Giuseppe Ungaretti). Quando intuizione ed espressione si fondano nell’opera d’arte. Io non posso più distinguere tra il sentimento che ho della vita e il modo in cui lo traduco (Henri Matisse).

Contro la genericità e l’incomprensibilità dello stile. La prima regola di stile è di avere qualcosa da dire. Usare parole ordinarie e dire cose straordinarie. Senza retorica. La poesia è tanto migliore quanto meno è retorica. (Arthur Schopenhauer) I sacrificati. L’uccello sul ramo, il giglio nel campo, il pesce nel mare, schiere innumerevoli di uomini lieti proclamano nella gioia: Dio è amore! Ma, al di sotto, c’è qualcosa che sorregge tutte queste voci come il basso, muggente sotto i chiari soprani, che canta il De profundis: è la voce dei sacrificati (Søren Kierkegaard).

 

GIOVANI AMICI, LA MASSIMA VIGILANZA SUL… DITO INDICE! «Cercate di sfuggire, a ogni costo, alla tentazione di conferirvi il diploma di vittima. Fra tutte le parti del corpo, quella su cui dovete esercitare la massima vigilanza è il vostro dito indice, perché ha la mania di incolpare. Un dito puntato è la sigla della vittima ed è il contrario del segno V. Per quanto abominevole possa essere la vostra condizione, cercate di non incolparne qualcuno o qualche cosa: la storia, lo Stato, i superiori, la razza, i genitori, la fase lunare, l’infanzia, l’educazione igienica, eccetera. Il menù è vasto e noioso, e già questa vastità e questa noia dovrebbero indurre l’intelligenza a non scegliere tra i piatti della lista. Nel momento stesso in cui scaricate la colpa da qualche parte, minate la vostra volontà di cambiare le cose, qualsiasi cosa…

Il mondo in cui vi accingete a entrare non ha una buona reputazione. È riuscito meglio sotto l’aspetto geografico e visivo che sotto quello storico e sociale. Comunque, è l’unico mondo disponibile: non esiste alternativa ad esso e se ci fosse non abbiamo alcuna garanzia che sarebbe migliore. Il mondo può essere per noi – in senso reale e, quel ch’è peggio, in senso metaforico – una giungla e insieme un deserto, una palude. In ogni modo, come ha detto Robert Frost, il miglior modo per venirne fuori è passarci in mezzo. Però, in un’altra poesia, Frost ha anche detto che essere sociali vuol dire essere indulgenti.

Per passarci in mezzo e per esser indulgenti, cercate di non badare troppo a quelli che tenteranno di rendervi la vita impossibile. Ne incontrerete molti, moltissimi – quelli che hanno una veste ufficiale e quelli che si sono nominati da sé. Sopportateli se non potete scansarli, ma date loro il minor peso possibile. Non occupatevi di loro mentalmente o verbalmente; non vantatevi di averli perdonati o dimenticati. Meglio dimenticarli e basta. Ogni atto dei veri nemici, infatti, prende significato e rilievo dal modo in cui voi reagite». Ho ceduto alla tentazione di dare la parola ancora a Josif Brodskij. Ne valeva la pena.

 

LE SCRITTE SUI MURI A PRAGA. Quando non siano opera di una stessa mano che ripeta cento, mille volte lo stesso slogan, le scritte murale sono «spie» significative. Per abitudine, sono sempre stato attento ai loro messaggi. Ricordo undici anni fa, a Budapest, una scritta in latino, in pieno centro, che era insieme un sospiro e una protesta: Felices fuimus olim! (una volta siamo stati felici!). A Praga Arrigo Bongiorno ha letto ancora sui muri, sul metrò, dappertutto le vignette e gli appelli alla rivolta morale, non violenta, armata solo di ironia: sono i graffiti della «rivoluzione gentile», che non è costata neppure un ferito ai persecutori di ieri, che sono i vinti di oggi. Eccone alcuni: «Nonostante vent’anni di normalizzazione, ebbene noi siamo rimasti normali» – «Ora che ci siamo svegliati, vediamo di non appisolarci» – «Siamo feriti nell’anima, possiamo guarire solo con la verità». Una scritta, poi, è quasi incredibile: «Fede, speranza, carità – bentornate!».

 

 

22 febbraio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un’osservazione che ho sempre sperimentato vera. Negli argomenti elevati e difficili ciò che è vero dà quasi l’impressione di essere falso e ciò che è falso di essere vero. Ciò che la scienza non è autorizzata a fare. Noi domandiamo alla scienza di restare scientifica, di non avvolgersi in una metafisica incosciente che si presenta agli ignoranti e ai semidotti sotto la maschera della scienza (Henri Bergson) Se vogliamo restare umani. Noi possiamo ritornare allo stato ferino. Ma se vogliamo restare umani, ebbene, allora c’è una sola strada da percorrere: la via che porta alla società aperta (Karl Raimund Popper). Scienza e tradizione ebraico-cristiana. La conoscenza scientifica ci fornisce strumenti potenti per la conquista di certe mete, ma è la tradizione religiosa ebraica e cristiana a offrire il sicuro fondamento alle nostre aspirazioni e alle nostre valutazioni (Albert Einstein).

Le inevitabili sovrapposizioni. La fine di un tempo si prolunga negli animi più che nelle cose. L’inizio di un altro tempo richiede, d’altra parte, nelle decisioni politiche i necessari anticipi per le indispensabili maturazioni. La sovrapposizione dei due processi provoca un nuovo e più aspro conflitto. Non starsene inerti ad aspettare ciò che bisogna far nascere. Il nuovo non nasce mai automaticamente da una inerte attesa, non nasce aspettando che arrivi. Il nuovo tempo vuole il periodo della sua gestazione e chiede a ciascuno di fare la sua parte proprio perché possa nascere. (Corrado Belci)

 

I CARATTERI E GLI ESITI DELL’IDEOLOGIA. 1) L’ideologia è inseparabile dalla «messa in scena», dalla pretesa di coloro che vanno producendo di essere loro, e loro soltanto, il centro e il punto di svolta del cammino umano. Sono tutti paurosamente affetti dal complesso messianico.

2) Di qui la stretta connessione tra gnosi e ideologia. Anzi l’ideologia è la figlia prediletta e l’inevitabile esito della gnosi: entrambe hanno la pretesa assurda, e la malìa che ne deriva, di essere e offrire sistemi di sapere assoluto, spiegazioni globali dell’accadere degli eventi.

3) Di contro all’umiltà della ragione si ergono quindi l’incantesimo e l’arroganza dell’ideologia. La ragione cerca il colloquio, il confronto, la parte di verità nell’interlocutore; il riferimento ai fatti e la prova ponderata, il procedimento critico sono le sue vie. L’ideologia, invece, in quanto portatrice di conoscenza assoluta, sostituisce alla ricerca l’invasamento, il falso profetismo, l’intolleranza. L’ideologia tende a tradursi in esonero degli adepti, i soli che sanno, gli «illuminati», dalla fatica di pensare e di dubitare.

4) I produttori di ideologie hanno sempre fatto balenare le più accecanti illusioni, la «soluzione finale» dei problemi storici, senza minimamente mettere in conto la disumanità, gli orrori, le alienazioni che avrebbe causato il tentativo della loro realizzazione. E tutto in vista di «un gioco senza scacco» un gioco da cui sono a priori esclusi esiti negativi, scettici o anche solo disarmonici. Un gioco macabro, come si sa, visti i costi di sofferenza e di vite umane; ma anche «un gioco di illusione cosciente», per accreditare il quale la mitologia ideocratica giunge a servirsi contro la ragione del linguaggio della ragione e porta in ogni campo quella disgraziata forma mentis che Karl Jaspers definiva «obiettiva inobiettività».

5) Una ideologia prende corpo – e accresce la sua capacità di presa – nella misura in cui si sviluppa «contro» una certa categoria di uomini. Dunque il pericolo più grave insito in un’ideologia non è tanto l’errore, ma la malafede oggettiva che essa coltiva nei suoi adepti, azionando in loro un veri e proprio meccanismo dell’oblio, per cui si mette tra parentesi, si nega o si nasconde qualsiasi verità spiacevole che la riguardi direttamente o indirettamente, tranne che non siano gli stessi gestori dell’ideologia, e al massimo livello, a svergognare i predecessori, i loro metodi e le loro idee.

6) I problemi gravissimi che vengono alla luce, quando coazione e propaganda sono travolte dall’insorgenza dei popoli, sono lì ad attestare quanto grandi siano i guasti, in ogni ambito, prodotti dalle dittature ideocratiche. «Il popolo russo è come un uomo – dichiarava il 2 novembre 1989, a Bergamo, Aleksandr Zipko, intellettuale vicino a Gorbaciov – che si accorge di essere di nuovo sveglio dopo la sbornia e dice a se stesso: come è potuto accadere? L’utopia globale si è rivelata, nell’atto di realizzarsi, il sistema dell’oppressione totale». All’avvicinarsi del crollo del nazismo, Dietrich Bonhoeffer si era espresso in termini analoghi: «Le ideologie, dopo aver sfogato la loro furia sugli uomini, li lasciano come in un incubo che svanisce col risveglio. Ne rimane un ricordo amaro. Esse non rendono l’uomo più maturo e più forte, ma soltanto più povero e più diffidente» (dagli appunti di Etica pubblicati postumi).

 

 

1 marzo 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Si può trascrivere sullo schermo un testo letterario? Per me il regista deve sognare di nuovo il sogno del romanziere (Robert Bresson, che ha portato sullo schermo il capolavoro di Bernanos, Diario di un curato di campagna). Il bisogno di onore. Il mondo ha bisogno d’onore. È l’onore di cui difetta il mondo. Il mondo ha tutto ciò di cui ha bisogno, ma non gode di nulla perché manca d’onore. Il mondo ha perduto la stima di sé. Custodire e ritrovare la purezza di sguardo dell’infanzia. Noi tutti abbiamo peccato contro l’infanzia, abbiamo fatto un mondo avido e feroce, secco e freddo, dove il genio del fanciullo non può dare né il suo fiore, né il suo frutto. La testimonianza che dobbiamo rendere e lo stile con cui renderla. Io non vi giudico, io mi giudico con voi… La parte di verità di cui dispongo non l’ho rifiutata a nessuno. Ho risposto a chi me lo chiedeva. Ho risposto con il linguaggio dell’uomo e non con frasi velate che dicono tutto e dicono niente, con una dolcezza esecrabile, sul giusto e l’ingiusto, sul ricco e il povero, sulla vittima e il carnefice. La libertà cristiana. La fede non mi è mai apparsa come una costrizione. L’idea di doverla difendere contro me stesso non mi è mai passata per la mente. Al contrario, è essa che costituisce l’essenza della mia libertà: non potrei abbandonarla senza morire. Il compito sempre rinascente. Bisogna rifare degli uomini liberi. Ciò che si deve temere. La sola grande sventura da temersi: la dittatura della mediocrità. Non scambiare la speranza dei poveri con l’asservimento alle ideologie totalitarie. Anche se credessi in Marx come nel Vangelo, mi riterrei ancora in dovere di difendere contro i suoi seguaci la speranza dei poveri. (Georges Bernanos)

 

«FALSI FALLENTES»: GLI INGANNATI INGANNATORI. Il cardinal Albert Decourtray, arcivescovo di Lione, primate delle Gallie nonché presidente della Conferenza episcopale francese, ha parlato di una «connivenza» cattolica in Occidente – certi vescovi e, soprattutto, preti e frati«con le perversità del materialismo dialettico». A detta del cardinale, «alcuni sono stati sufficientemente sensibili ai rischi e ai pericoli dell’ideologia comunista».

La parola «connivenza» ha scatenato la reazione furibonda dell’ala gauchiste del mondo clericale, ma ecco che, in difesa di Decourtray, è sceso in campo il cardinale di Parigi, Lustiger, parlando di una complicità di tutto l’Occidente, che ha coinvolto anche uomini di Chiesa in una colossale truffa: «la truffa che truccava di generosità ciò che non era altro che totalitarismo». E ai clericali conniventi, Lustiger ha lanciato il monito: «Sarebbe saggio riflettere sulla nostra storia di questi anni». Ma quanti, anche nella Chiesa, sono ancora in grado di imparare dall’esperienza? Quanti osano dire: «Ho sbagliato. Mi scuso. Perdonatemi»? (Vittorio Messori, «Vivaio», in Avvenire del 18.2.1990).

 

I COLPI DI SONDA DI GESÙ NEL VANGELO DI MARCO. Quello di Marco è il primo dei Vangeli in ordine cronologico ed è quello meno elaborato dal punto di vista letterario. Eppure, che forza sprigiona la parola di Gesù in quelle pagine sobrie e disadorne! Pensate al più rivoluzionario degli imperativi cristiani: «È il sabato che è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (28,22). O all’invito incalzante di adeguare anche le forme alla novità del contenuto del messaggio di Gesù: «Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino squarcerà gli otri, e così si perde il vino e gli otri. Ma a vino nuovo otri nuovi» (2,22). E che dire dell’obbligo che ci vien fatto a usare la testa prima di tutto? «Abbiate sale in voi stessi e vivete in pace» (9,50).

 

 

8 marzo 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Così deve essere. E la caduta avviene per poter risalire (Libro del Zobar).

I camini dei forni crematori. Oh, i camini / sulle ingegnose dimore della morte, / quando il corpo di Israele si disperse in fumo / per l’aria / e lo accolse una stella… / Oh, i camini / vie di libertà per la polvere di Job e Geremia. L’ultimo sguardo. Se soltanto sapessi / cosa hai guardato sul punto di morire: / un cieco sasso / meta di altri sguardi ciechi? / O era forse il tuo ultimo cammino / che ti portava il saluto di tutti i cammini / da te percorsi? / Forse la fibbia addosso al suo nemico, / o qualcosa d’altro, un presagio impercettibile / del Cielo? / O forse questa terra / che non congeda nessuno senza amore / ti ha parlato col volo di un uccello? Se i profeti irrompessero… Se i profeti irrompessero / per le porte della notte, / incidendo ferite di parole nei campi della consuetudine, / orecchio degli uomini / attento alle piccolezze, / sapresti ascoltare? La via regale. L’Ignoto entra dove c’è una ferita. Mneme o memoria empirica e Anamnesis, memoria dell’Eterno. Tu pretendi che ci ricordiamo dell’altro ieri / noi, invece, ci ricordiamo di Dio. (Nelly Sachs)

Nelly Sachs nacque da famiglia ebrea a Berlino il 10 settembre 1891 e morì a Stoccolma il 12 maggio 1970. Dall’esperienza degli anni della seconda guerra mondiale – tanti familiari e amici morirono nei campi di concentramento – venne la grande svolta poetica ed esistenziale, da cui germinò la nuova e più alta poesia di Nelly Sachs, a cui nel 1966 fu assegnato il Nobel. Purtroppo l’introduzione alle Poesie nell’edizione Einaudi è quanto di più angusto e settario si possa pensare ed è, pertanto, di ostacolo alla comprensione della grande poetessa tedesca.

 

D’ACCORDO SUI MERITI DI FREUD. E I LIMITI? A mezzo secolo dalla morte di Freud, pare che presso il largo pubblico sia giudicato come segno di arretratezza domandarsi quali siano i limiti e gli errori della psicanalisi freudiana, o mettere in luce alterazioni ossessive di atteggiamenti fondamentali della vita umana a cui il freudismo ci ha indotto. Si è così trasformato uno dei metodi di esplorazione del profondo nel metodo per eccellenza, il solo scientificamente fondato.

Già la pretesa del freudismo di costituire il solo metodo per esplorare il profondo nasce da una mentalità riduzionistica; ma c’è di più. È riduzionistica la stessa immagine dell’uomo – la più nichilistica che io conosca – su cui Freud impianta la sua personificazione dei diversi livelli di esistenza. Il pregiudizio riduzionistico, infatti, consiste nel presupporre ovunque un motivo nascosto e inconfessabile, il cui smascheramento metterebbe a nudo la condizione infernale della nostra umanità, sia per quanto riguarda gli eventi passati, sia per quanto attiene alle aspirazioni presenti.

A queste cose pensavo rileggendo un’osservazione di Viktor E. Frankl, illuminante nella sua brevità. «In psicoterapia è senz’altro legittimo smascherare. – scrive il fondatore della logoterapia – Tuttavia lo psicologo che svela i motivi deve anche essere in grado di fermarsi quando si trova di fronte a qualcosa che, semplicemente, non può più smascherare perché è un fenomeno genuino. Se lo psicologo non si ferma neppure a quel punto, continua, sì, a svelare qualcosa, ma ciò che svela è la sua inconscia esigenza di svilire tutto ciò che è genuinamente umano».

 

LA MALATTIA DEL SALUTISMO E DELLA GIOVENTÙ OBBLIGATORIA. «Si pensa non senza sgomento alla folla di gente per la quale la salute in sé e come tale è uno scopo essenziale, o anche lo scopo per eccellenza, e che non vive che per essa. Poiché non cessano di impietosirsi sul loro corpo e sul loro stato psichico, poiché s’interessano unicamente a ciò che può loro far del bene o nuocere, ecco che il sole, l’aria e l’acqua, la virtù delle piante e dei frutti, la bellezza della pelle abbronzata e la potenza dei muscoli ben temprati, ma anche forse una quantità di possibilità della medicina e della psicologia, senza parlare dei rimedi da ciarlatano, sono diventati per essi delle specie di demoni benefici ai quali accordano la loro attenzione e il loro credito, e che si mettono a coltivare con una passione e un entusiasmo che tradiscono fino a che punto essi sono, in realtà, dei malati». Queste cose le scriveva parecchi decenni addietro Karl Barth nella sua Dommatica.

 

A COLLOQUIO CON OLIVIER CLÉMENT. Ho avuto la gioia di uno scambio di idee con una delle figure più alte della cultura francese e del pensiero ortodosso europeo, Olivier Clément. Alla domanda su che cosa lo ha colmato più di stupore, Clément ha risposto: «L’uomo. Come il Dio vivente eccede ogni concettualizzazione, così l’uomo in quello che è il suo nucleo più centrale. Ogni tutto, di cui si pensa l’uomo sia parte, è solo un’apparente totalità e non altro che una delle dimensioni della persona. Vi è nell’uomo un che di inaccessibile che si rivela in una sorta di grazia. Più conosciamo gli uomini, più sono stupefacentemente sconosciuti».

 

 

15 marzo 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ritrovarsi oltre lo smarrimento. Qui sono le tue acque e il luogo dove attingere. / Bevi e rifatti sano al di là dell’errore. Senza riluttanza. Cedere con grazia alla ragione, / e piegarsi e accettare la fine / d’un amore o d’una stagione. Non ci dev’essere un “più” della verità. Qualunque cosa in più della verità deve apparirci / debole… / Il reale è il sogno più dolce che la fatica conosca. Ciò che non sopporta un muro. Prima di fare un muro dovrei chiedermi / quello che intendo riparare o escludere, / e a chi potrei recar danno. / Qualcosa c’è che non sopporta un muro, / che lo vuole abbattuto.

A casa, sì, dov’altro? Casa è quel posto dove, quando ci devi andare, / loro devono accoglierti. / Qualcosa che non tocca meritarsela. Quando ero giovane e ora che sono vecchio. Quand’ero giovane erano i vecchi i miei maestri. / Andavo a scuola dai vecchi per imparare il passato. / Ora che sono vecchio ho per maestri i giovani. / Vado a scuola dai giovani per imparare il futuro. Il timore di Dio. Continua a non presumere… / Attento a non usare / per tua divisa quello che doveva / essere schermo al più intimo dell’anima. La poesia, come comincia, come finisce. La figura che una poesia crea comincia in gioia e finisce in saggezza.

Le citazioni sono tratte dal volume Robert Frost, Conoscenza nella notte e altre poesie, Milano 1988, traduzione di Giovanni Giudici.

 

COLTI E RAFFINATI, MA DICONO GRULLAGGINI. «Vorrei fare solo un’osservazione che ricorda quella ormai lunga storia giunta alla fine, che è la storia del comunismo. Questa storia è stata per una parte non piccola anche una storia di intellettuali, un grande capitolo – a suo modo – di storia della cultura. Il fallimento di quella storia, dunque, la catastrofe storica del comunismo, non può non implicare – anzi dovrebbe necessariamente implicare – anche un profondo esame di coscienza degli intellettuali. A proposito di un punto in specie: del loro modo, per così dire tradizionale, almeno qui in Europa, di porsi di fronte alle cose della società, dell’economia, della politica.

Soprattutto gli intellettuali di formazione filosofico-umanistico-letteraria, invece di essere consapevoli del fatto che in realtà essi nulla sanno, o solo ben poco, del modo concreto con cui funzionano i meccanismi della società, dell’economia e della politica, e quindi sarebbero tenuti ad una certa cautela di giudizio, viceversa – e si direbbe anzi proprio per questo – sono soliti da sempre abbandonarsi ai toni più apodittici e supponenti. Tutto viene giudicato sulla base di criteri di uno sconfortante semplicismo intellettuale, e l’attenzione per la realtà con i suoi aspetti insieme complessi e banali viene regolarmente sostituita da un eticismo di maniera e da un’astratta ansia per le sorti dell’Uomo che poi, a conti fatti, si sono rivelati forse tra i responsabili non ultimi dei massimi orrori del ventesimo secolo» (Ernesto Galli della Loggia, Tuttolibri, n. 686).

 

AMBIVALENZA DEL LOGOS. «La parola è un fenomeno misterioso, dai molti significati, ambivalente. Può essere raggio di luce nell’impero del buio, come ebbe a dire una volta Belinskij dell’Uragano di Ostrovskij, ma può anche essere freccia mortale. Peggio ancora: può essere un momento questa e un momento quello, può addirittura essere le due cose nello stesso tempo!

Come fu, veramente, la parola di Marx? Ha illuminato tutta la faccia nascosta dei meccanismi sociali, oppure fu soltanto l’apparentemente innocuo embrione originario di tutti i successivi orribili Gulag? Non lo so, ma è più probabile che fu le due cose insieme…

Come fu, veramente, la parola di Lenin? Liberatrice o, al contrario, illusoria, pericolosa ed infine soggiogante? Gli interessati alla storia del comunismo tutt’oggi litigano a proposito ed è indubbio che litigheranno ancora a lungo. Personalmente, di quella parola ho colto soprattutto un aspetto: che era sempre biliosa».

Questa citazione è tratta dal testo inviato da Vàclav Havel, allora prigioniero in patria, in occasione del premio conferitogli alla Fiera di Francoforte nell’autunno del 1989.

 

 

22 marzo 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La Germania, il problema da non rinviare. Non si può parlare di un’Europa unita con una Germania divisa, ma allo stesso tempo non sarà possibile una Germania unita in un’Europa ancora divisa (Vàclav Havel nel discorso tenuto al Parlamento polacco il 25.1.90). Dall’Utopia-Mito redentivo all’Utopia-Gulag. Se vuoi immaginare un mondo migliore in cui l’uomo sia veramente uomo per il suo simile, diffida dell’Utopia, non entrare nel labirinto dell’Utopia. L’Utopia comincia come Mito e finisce sempre come Gulag (Camilian Demetrescu, artista rumeno profugo in Italia). É modernizzazione o complicazione mostruosa? Quello che chiamiamo la modernizzazione della vita, non è che una continua e sempre più grande complicazione demoniaca (Alberto Savinio).

La ragione e le emozioni. Ragionevole non è vivere senza emozioni, ma vivere fino in fondo le emozioni che anche la ragione approva. Non ci può essere niente di più completamente umano e di più dolce dell’emozione di un cuore approvato senza riserve dalla ragione. Essere del proprio tempo, ma non essere reclusi in esso. Il proprio tempo non è l’orizzonte dell’uomo, è il balcone dal quale l’uomo guarda l’orizzonte. L’orizzonte dell’uomo è sempre il Tutto e l’Oltre. (Luigi Lombardi Vallauri) Per vincere la dispersione che ci minaccia. Solo con la venuta del Cristo tra gli uomini, gli uomini tutti e tutte le forze dell’uomo si sono saldamente connesse tra di loro. L’uomo è dentro di sé in salda armonia solo per il fatto che Cristo assunse la sua forma (Max Picard). Il ridicolo. È vero, in agguato c’è il ridicolo. / Il ridicolo è veniale come colpa, ma inesorabile. Ai lettori. Non c’è in quel che dico né abiura né congiura. / C’è vita invece, c’è il suo naturale respiro e mutamento. (Mario Luzi)

 

 

I POETI BATTONO I MOSTRI SACRI DELL’IDEOLOGIA. Una delle novità a cui sono stati costretti, al recente XIX congresso del Partito comunista italiano, non solo i fautori del sì» al superamento di un’ideologia ormai obsoleta, ma anche i sostenitori del «no», è estremamente rivelatrice. Sembrano, infatti, lontani i tempi in cui, per accrescere le proprie tesi, il ricorso all’autorità infallibile dei sacri mostri dell’ideologia – Marx, Engels, Lenin, Stalin, Gramsci, Togliatti – era un obbligo stretto per ogni leader e l’ipse dixit regnava sovrano. Nel congresso di Bologna, un po’ tutti, consciamente o inconsciamente, hanno avvertito che sarebbe stato fuori luogo e altamente rischioso rifarsi alle orgogliose sicurezze e agli oracoli di Dèi sul viale del tramonto. E così, negli interventi dalla tribuna, i poeti e gli scrittori hanno battuto, e di gran lunga, i padri dell’ideologia. Iniziò Occhetto con una lunga citazione dall’Ulisse di Tennyson, Veltroni rispolverò un articolo del ‘56 di Italo Calvino, Gavino Augias una poesia di Jorge Amado, e così via. I maestri di umanità hanno zittito i maestri di marxismo.

 

SARTRE A DIECI ANNI DALLA MORTE. «Jean-Paul Sartre, ovvero della rumorosità, dell’esibizionismo nell’impegno. A dieci anni dalla morte del poligrafo francese, autore di decine di migliaia di pagine, trattati di filosofia, opere teatrali, romanzi, novelle, infaticabile intervistato permanente; firmatario di mille appelli è difficile ritrovare qualcosa che ci dia la fisionomia della sua traccia, della sua impronta, l’identikit a presente e futura memoria… La sua impresa è consistita in ciò: non nel cercare e ricercare ragioni per prendere partito, quanto piuttosto nel prendere risolutamente partito e dirlo, scriverlo… C’è solo un libro, che mi sento di mettere in mano a uno dei miei o dei nostri figli, quello in cui Jean-Paul giudica Sartre. Un libro breve e pieno di verità, sommesso, sobrio, una volta tanto lontano dai riflettori: Le parole» (Salvatore Veca).

 

 

29 marzo 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Appena il sole della libertà risplenda. Una precipite cascata, / tagliata dal gelo, resta sospesa sul dirupo; / ma, appena il sole della libertà risplenda, / e il vento d’Occidente riscaldi queste contrade, / che ne sarà della cascata tirannica? (Adam Mickiewicz). Ciò a cui tendere. Gli enunciati generalizzanti e problematici servono solo a una più netta percezione delle situazioni individuali (Gianfranco Contini). Per vincere la nausea da ‘confusione dei discorsi’. L’atteggiamento scientifico ha un ruolo preciso nel dialogo tra disponibile e reale. L’età dei Lumi e il XIX secolo ebbero la follia di pensare che ciò non era solo necessario ma anche sufficiente per risolvere ogni problema. Oggi sarebbe ancora più folle decidere, come alcuni vorrebbero, che con la scusa che la ragione non è sufficiente, allora non è neppure necessaria (François Jacob).

L’inutile didascalia. Se il disegno non vi dice nulla, vuol dire che non è riuscito e non sarà la didascalia a renderlo migliore. Se è riuscito, lo capirete da soli, senza bisogno della didascalia (Honoré Daumier). Due modi di essere corpo. L’essere umano è costituito profondamente nel corpo come lui o lei… Le parole d’amore pronunciate da entrambi si incentrano sul corpo, non solo perché esso costituisce per se stesso sorgente di reciproco fascino, ma anche e soprattutto perché su di esso si sofferma direttamente e immediatamente quell’attrazione verso l’altra persona, verso l’altro io, femminile o maschile, che nell’interiore impulso del cuore genera l’amore (Karol Wojtyla).

 

LA METAFORA IN POLITICA: IL CORAGGIO DI IMMAGINARSI UN FUTURO MIGLIORE. Chi voglia andare al cuore della comunicazione sociale dovrà cercare il senso, la funzione della metafora. Il linguaggio umano è assai importante nel creare e organizzare un sistema politico, una realtà sociale; e nel linguaggio ha un ruolo preminente la figura retorica della metafora. Ma qual è la cifra della metafora? «La cifra della metafora sembra essere l’ambivalenza; le sue qualità paiono (ma si tratta, appunto, solo di un’apparenza elidersi con i suoi difetti. Capace di creare nuovi significati, si configura, peraltro, come una palese violazione dei codici linguistici; fonte di nuove visioni della vita, si presta però volentieri all’azzeccagarbugli di turno; catalizzatore delle energie umane tese a progettare il futuro, rischia, d’altro canto, di essere complice ambiguo delle peggiori nefandezze. Se una casa comune od un governo ombra sono metaforine di ordinaria amministrazione, quali oscure energie sono state mai mosse dalla metafora della Vaterland (il tutto tedesco padre/patria) o da quella del Common-wealth (l’idea molto inglese di una ricchezza di tutti)? La metafora si configura come plausibile relazione fra i campi di significato incompatibili logicamente: crollato il simbolo del Muro, quale metafora sapremo creare per la convivenza fra Est ed Ovest, fino a ieri anch’essi incompatibili? O riteniamo che sul fronte occidentale tutto vada bene così e che basti una semplice omologazione dell’Europa orientale al nostro sfilacciato modello di società?

Gli studiosi di scienze sociali sono spaventati dalla metafora in politica (e da quel “cugino” della metafora che è il “simbolo”). In parte vi è il timore di un ritorno irrazionalistico; si pensi, ad esempio, all’uso “scientifico” dei simboli come elementi di propaganda. Peraltro, a nostro giudizio, vi è un timore ancora maggiore di quella parte della metafora che è progetto di cambiamento, aspettativa per il futuro; e gli uomini non investono le proprie energie in un progetto politico solo per avere le vetrine dei negozi più luminose, ma per il desiderio di un mondo migliore, fino a ieri inconcepibile. Naturalmente ogni progetto si accompagna al rischio e richiede fiducia in se stessi e negli altri: non è questa la sfida che ci propongono i due volti della metafora?» (Francesca Rigotti, Metafore della politica, Bologna 1989).

 

L’INCONTRO TRA UN CRISTIANESIMO NON IDEOLOGICO E LA DIFESA DEI DIRITTI DELL’UOMO. Ai miei occhi l’evento etico più significativo del nostro tempo è l’incontro tra un cristianesimo non ridotto a una delle tante ideologie e la difesa dei diritti dell’uomo. Dopo Auschwitz, dopo i settant’anni di gulag in Unione Sovietica e le madri della Plaza de Mayo, la difesa dei diritti dell’uomo non può fondarsi che sulla scoperta concreta dell’umana dignità e sul rifiuto di quei falsi assoluti e di quegli orrendi manicheismi che sono, appunto, le ideologie. Ma questo convincimento è il cuore stesso della visione del mondo di Giovanni Paolo II. Il 20 ottobre dell’80 fu mio ospite Jean-Marie Domenach, il successore di Mounier alla direzione di Esprit dal 1950 al ‘78. Gli chiesi un parere su Papa Woityla. «Quando ancora era arcivescovo di Cracovia, ebbi con lui un lungo colloquio – mi disse Domenach – Ebbene, alla mia domanda sul compito assolutamente prioritario della coscienza cristiana nel mondo contemporaneo, la risposta fu: “Difendere i diritti dell’uomo ovunque siano calpestati”. Questa è dunque la chiave – concludeva Domenach – per leggere le scelte che caratterizzeranno il meglio del suo pontificato».

 

 

5 aprile 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Muto e cieco e sordo. L’uomo è reso muto e cieco e sordo, / perché l’intelletto non riconosce più / l’è dal dovrebbe essere (William Butler Yeats). Che vita può esserci mai? Dove non c’è verità è inutile fingere che ci sia vita (Guido Ceronetti). Le etichette e la sostanza. Ad un certo punto destra e sinistra ci appaiono per quello che sono: espressioni nominalistiche sotto le quali si nasconde la sofferenza di chi è cavia dell’una o dell’altra forma di oppressione (Guido Stella). Simpatia e solidarietà con i vinti. In qualunque rivoluzione appartengo a coloro che vengono messi al muro (Graham Green).

Sulle questioni serie non tradire mai la propria coscienza. Sì, sono un testimone. Ma non accattivato. / Nessuno mi strapperà dalle labbra un placido assenso. / Chi è fedele non conferma. Uno straniero tra noi. Se fra voi verrà a stabilirsi uno straniero / accoglietelo affabilmente, perché non conoscete i boschi / per i quali correva bambino e non sapete pronunciare / i nomi a lui cari / eppure ciò che è suo / è davvero anche vostro, benché nessuno lo sappia. Il rammarico e il gran desiderio. Spero che ciò verrà in qualche modo conteggiato: / il rammarico e il gran desiderio di esprimere finalmente / una vita non a mia ma ad altrui gloria. (Czeslaw Milosz)

Non la riflessione sul reale, ma la certezza che discende dalla “citazione” di Marx-Engels-Lenin. È un uomo di prim’ordine… Ma ha una minuscola pecca: non è sempre sensibile ai cambiamenti, non li avverte. Quel che conta per lui sono le citazioni dei classici. Quel che la vita insegna lui non sempre lo vede, tanto si è imbottito di citazioni (Vasilij Grossman).

 

L’UTOPIA: FASCINO E DISUMANITÀ. Ci si chiede perché mai abbia tanto fascino l’utopia. Non è facile rispondere. C’è in essa un’ardente aspirazione al cambiamento ed essa ha spesso ragione nella critica dell’attuale stato di cose. Il mondo dell’utopismo, però, è schizoide. Volendo radicalmente mutare la realtà effettuale, invece di comprenderla fino in fondo per trasformarla in meglio, prende ben presto congedo da essa: l’utopia diviene sempre, appunto, «non-luogo», fuga dal reale nei cieli fioriti della fantasticheria.

Integralmente manicheista e pessimista per quanto riguarda il passato del cammino umano, e peggio ancora per il presente, sogna ad occhi aperti le magnifiche sorti e progressive della società futura. Essa non si pone mai «il problema del giorno dopo»: quali nuove minacce di alienazione saranno messe in atto dal realizzarsi stesso della rivoluzione, dall’assunzione del potere da parte dell’utopia? L’utopia, che sorge come rivendicazione di un’assoluta libertà, mette così capo a sistemi di totalitaria oppressione, cinicamente giustificati come vie necessarie al raggiungimento dello scopo.

Il giudizio di Hegel sugli utopisti è di un’implacabile durezza: essi – dice il filosofo di Stoccarda – possono sorgere solo negli interstizi della società, così come i pidocchi che non vivono senza un corpo organico di cui sono parassiti. Io preferisco l’immagine di Baudelaire: l’utopia è come l’albatro, bello nel cielo quando vola, goffo quando tocca terra. Quando però l’utopia è al potere, non è più questione di… goffaggine, bensì di lacrime e sangue. «Nessuna utopia può essere realizzata senza il terrore; ma poi rimane solamente il terrore» ha scritto Erazim V. Kohak in Requiem for Utopia.

 

COME I MAESTRI DI SPIRITUALITÀ DELL’ORIENTE CRISTIANO CI INSEGNANO A CONTEMPLARE LA NATURA. L’universo è un oceano di simboli (Efrem Siro). Come abbiamo due occhi fisici, così abbiamo due occhi spirituali e ciascuno di loro ha la propria visione. Con uno vediamo i segreti della gloria di Dio nascosti negli esseri… con l’altro contempliamo la gloria della santa natura di Dio (Isacco Siro, Tratt. ascet. XX). Non tutto è Dio, ma tutto è in Dio (Sergej Bulgakov).

Questo mondo è un semiessere sempre fluente, in divenire e vibrante; e, di là da esso, l’orecchio spirituale percepisce un’altra realtà (Pavel Florenskij). Eccolo, il non-differenziato, nelle cose differenziate; il non-composto, nelle cose composte; il senza inizio, nelle cose soggette ad un inizio; l’invisibile, nelle cose visibili; l’impalpabile, nelle cose palpabili. Così ci riunisce in sé a partire da ogni cosa (Massimo il Confessore). Così l’Oriente cristiano ha compreso e contemplato la natura nella sua Sorgente divina. San Francesco è in Occidente lo spirito più affine a quel modo di amare la creazione.

 

DA UNA MALATTIA ALL’ALTRA: IL TABÙ DI IERI, OSSESSIONE DI OGGI. «Il freudismo ha mostrato che l’uomo censurava le realtà della vita sessuale perché ne aveva paura. Giustissimo. Ma questo teorema ha anche il suo contrario. La verità è che se a volte l’uomo si nasconde la sua vita sessuale, altre volte invece si compiace di essa e ci sguazza dentro perché gli fa meno paura della realtà più profonda». L’osservazione è della psicanalista ebrea Eliane Amado Lévy-Valensi.

 

 

12 aprile 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La filosofia e i perché dei bambini. La filosofia è ciò su cui i bambini continuano a far domande finché i genitori, disperati, dicono loro di smetterla di essere così stupidi. A che serve?, la più miserabile delle domande. Ci sono studenti le cui scelte, se le valutiamo in base ai canoni ristretti dell’ambizione puramente professionale o finanziaria, sono un tantino assurde. I loro amici glielo dicono: «Filosofia? Teologia? Devi farti prete (o suora)? No? E allora a che serve? Sei pazzo?» Alcuni di loro, lo so per certo, rispondono che questo tipo di studi li aiuta a diventare liberi in una società di schiavi. Chi ha animo e mentalità da schiavo. Io considero un disastro avere una mentalità da schiavo. La mentalità servile non coincide con la condizione di schiavo e non sta solo a significare, come nel suo senso moderno, un tipo strisciante, abbietto, adulatorio. Quando dico che un individuo ha una mentalità servile intendo dire che i suoi pensieri e le sue reazioni sono ristretti, limitati, bassi, ignobili o cattivi. Può essere intelligente, acuto, o quanto meno furbo; tuttavia sarà privo di magnanimità, incapace di pensieri elevati e di emozioni generose e riterrà che gli uomini migliori di lui sono degli sciocchi quando manifestano pensieri ed emozioni del genere. Una caratteristica di questa mentalità è il fatto che valuta ogni cosa in termini di vantaggio economico o pratico immediato. Ognuno ha il suo Rinascimento. C’è un breve Rinascimento personale e normalmente si produce al termine della pubertà. A chi pensa di non aver nulla da imparare dagli altri. Solo gli stupidi imparano a loro spese. I saggi imparano dall’esperienza degli altri o addirittura dall’esperienza collettiva della specie. Ma per qualcuno questo è alquanto irritante.

Le riflessioni qui riportate sono dell’amico Christopher Derrick e si possono leggere nel suo libro Via dallo scetticismo (sottotitolo: L’educazione liberale come se la verità contasse qualcosa), Milano 1980.

 

LA PAROLA NEL NUOVO TESTAMENTO. Qui si vuol solo offrire un… aperitivo al tema. Gesù univa profondamente silenzio e comunicazione della sua parola. «Parlava – dicono concordi i Vangeli – come uno che ha autorità, non come gli scribi» (Mt 7, 28). Il commento unanime delle folle che lo ascoltavano era: «Nessuno ha mai parlato come lui» (Mc 1, 22). Gesù ha detto del suo insegnamento: «Cielo e terra passeranno, le mie parole non passeranno» (Mc 13, 31). Gesù, rivelandoci l’intimità di Dio al cuore dell’uomo, esige un nuovo linguaggio quando l’uomo parla al Padre: «Pregando, non fate spreco di parole…» (Mt 6, 7). Poiché la Parola stessa di Dio è la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Gv 1, 9), ad essa deve commisurarsi la parola umana, il discorrere e il rapporto di ognuno con gli altri. L’ottica del Vangelo comanda innanzi tutto un’estrema franchezza, senza tergiversazioni: «Il vostro parlare sia sì, quando è sì, no, quando è no. Il di più viene dal maligno» (Mt 5, 37).

La parola del cristiano dev’essere, dunque, sempre verace e chiara; ma anche sempre e nello stesso tempo buona. E buona di una bontà incondizionata, che non ammette eccezioni di sorta, perché gli altri su cui rischiosamente portiamo il nostro giudizio sono, comunque, nostri fratelli e nostri simili. «Nessuna parola cattiva – incalza Paolo – esca più dalla vostra bocca… ma piuttosto parole buone che possano giovare a quelli che ascoltano» (Ef 4, 29). Insomma lo stile, la sostanza dei cristiani, la loro stessa sovrana libertà consistono in ciò: essi sono quelli che fanno la verità nella carità (veritatem facientes in caritate, Ef 4, 15). E poiché per il Vangelo le cose stanno così, si comprende l’affermazione di Giacomo 3,2: «È segno di perfezione per l’uomo il non mancare con la parola».

 

IN MEMORIA DI ANDREJ DMITRIEVIC SACHAROV. «Quando Lenin ideò e fondò, e Stalin poi sviluppò e perfezionò lo schema geniale dello Stato totalitario, tutto era stato da loro previsto affinché questo sistema rimanesse in piedi in eterno, affinché non si udisse mai una voce libera, né una ne sorgesse controcorrente. Tutto era stato previsto, ad eccezione di una cosa: il miracolo. Quell’avvenimento irrazionale le cui cause non possono essere previste, predette e stroncate. L’apparizione di Andrej Dmitrievic Sacharov nello Stato sovietico è stato questo miracolo».

Così scriveva nel 1973 Aleksandr Solzenicyn. Quando, nei primi giorni del 1990, al Parlamento sovietico, Mikhail Gorbaciov in persona credette di dover strapazzare l’illustre scienziato, che proponeva di discutere il famigerato articolo 6 della Costituzione sovietica (che sancisce il monopolio del Partito comunista nello Stato), le immagini trasmesse dalla televisione fissarono l’ultima coraggiosa battaglia di Sacharov. Ironia della sorte, un mese dopo proprio quel Gorbaciov che aveva irriso Sacharov doveva battersi, anch’egli, per l’abrogazione dell’articolo 6!

Sacharov riposa in un semplice cimitero della periferia di Mosca. Il suo Paese lo rimpiange come non ha mai rimpianto nessuno dopo la morte di Dostoevskij, di Tolstoj e di Pasternak. Sulla tomba di Sacharov la corona di fiori che più fece riflettere fu certamente quella che recava la scritta: «Ad Andrej Dmitrievic con amore. Solzenicyn».

 

 

19 aprile 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. È la parola che fa rivivere gli eventi. Se scritte, le storie sopravvivono a tutte le intemperie e senza spegnersi mai; ma le storie degne di sopravvivere hanno bisogno di spazio nella memoria e di leggerezza nella mente. Per chi pratica l’ossequio calcolato e le fedeltà intercambiabili. Non compromettersi mai, nascondere i propri sentimenti, guardare davanti a sé e anche dietro, guardare in alto e anche in basso, a destra e a sinistra, diffidare di tutti… non affrontare mai in faccia il nemico. (Luigi Malerba)

Ai teorizzatori dello scetticismo come sistema. Nessun edificio raggiungerà una grande altezza se la nostra preoccupazione quotidiana sarà di demolire la parte che abbiamo costruito il giorno prima. Umanità di gesti e di comportamenti, non volgarità-sporcizia-trasandatezza. Il poeta Chapman aveva ragione quando dalla parola Compitezza fece il nome di una dea e la rappresentò come il grande difensore dell’umanità contro la barbarie e la rovina. Tutte le grandi civiltà hanno riconosciuto questo principio e hanno attribuito grande importanza ai modi di comportamento, alle buone maniere, alla Compitezza. I morivi per farlo non erano puramente estetici. Esiste un rapporto di causa ed effetto, nei due sensi, tra l’immagine che un uomo ha di sé e i suoi schemi di comportamento. Unire passione della verità e rispetto della libertà, non scetticismo e tolleranza. Qualsiasi relativismo circa i valori ultimi può essere fatto sembrare ammirevole, umile, largo di spirito, tollerante. Sfortunatamente è anche autodistruttivo: si impicca con la sua stessa corda. (Christopher Derrick)

 

IL 18 APRILE 1948, IL VECCHIO E IL NUOVO PC. «Se, per maledetta ipotesi, un partito come questo avesse fatto tutt’uno coi meccanismi dello Stato, se i suoi politici di professione avessero coinciso coi funzionari statali, beh, sarebbe stata la fine» Queste le parole dure e lucide pronunziate da Massimo Cacciari in un’intervista a Paolo Franchi, ai primi di febbraio riguardante il Pci del 1948 e dintorni, insomma il vecchio apparato stalinista, liberticida e intollerante. Una gran verità. Ma anche un segreto di Pulcinella. Queste cose in Italia le sapevano tutti e dovrebbero saperle tutti ancor oggi. Ma nel nostro Paese la memoria politica è corta. Che nel ‘48 il Pci fosse un partito armato e pronto alla guerra civile; che nel ‘56 si lanciasse in un’apologia dei carri armati sovietici; che fino all’altro ieri negasse la tirannia e la miseria dei Paesi dell’Est: tutto ciò lo sanno tutti, ma fingono di non ricordarselo.

Cacciari, e con lui tutti i comunisti onesti e intelligenti, non ci stanno: sanno bene che per avviare un serio discorso di revisione e di riforma bisogna a questo punto partire dal grado zero, quello dei propri errori. È il prezzo per ridiventar credibili.

 

LA TRASFORMAZIONE DELLA PAROLA UMILE IN PAROLA SUPERBA. «Al principio di tutto c’è la parola. È il prodigio a cui dobbiamo il fatto di essere uomini. Ma è anche insidia, prova, astuzia e test. La stessa parola può essere una volta umile e un’altra volta superba. E molto facilmente e inavvertitamente la parola umile può trasformarsi in parola superba, mentre molto più difficilmente e lentamente la parola superba si trasforma in parola umile. Non è difficile dimostrare che tutte le principali minacce a cui deve far fronte questo mondo, e soprattutto l’Europa alla fine di questo secondo millennio dopo Cristo, hanno al fondo delle loro viscere una causa comune: l’impercettibile trasformazione della parola originariamente umile in parola superba.

Superbamente l’uomo ha incominciato a pensare di essere in grado, come proprietario della ragione, di comprendere completamente la propria storia e di programmare una vita felice per tutti e perciò di avere il diritto di spazzar via chiunque non condividesse il suo piano nell’interesse di un presunto futuro migliore, per cui aveva trovato quest’unica e vera chiave… Fatalmente si è sbagliato. E questo è male. Ma comincia a capire il suo errore. E questo è bene. Ammaestrati da tutto questo dovremmo tutti insieme lottare contro le parole superbe e scovare le uova di cuculo della superbia nelle parole apparentemente umili. Non si tratta, ovviamente, di un compito puramente linguistico, ma di un compito essenzialmente morale. In quanto tale non ha le sue radici nell’orizzonte del mondo a noi accessibile, ma là dove dimora il Verbo che è stato al principio di tutto e che non è parola d’uomo» (Vàclav Havel).

 

 

26 aprile 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Davanti a chi non inchinarsi. Non prostrarti mai a ciò che appare grande (Rabindranath Tagore). La disgrazia della scissione ostile. L’eros e l’ethos non si scartano l’un l’altro, né si oppongono, ma sono chiamati a incontrarsi nel cuore umano e, in quell’incontro, a fruttificare (Karol Wojtyla). Ciò che è più santo. Che cosa vi è di più santo?… Ciò che collega gli uomini tra loro (Johann Wolfgang Goethe). Dio e libertà. La preghiera più gradita a Dio è l’amore della libertà. Chi è veramente egoista. Non è egoista chi fugge gli uomini, ma chi insegue il prossimo come una preda. (Adam Mickiewicz)

La ricerca non ha fine. L’ignoranza non deve impoverirsi con il sapere. Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda che prima dormiva appiattata. Chi ha molte risposte deve avere ancora più domande. Se ci lasciamo prendere la mano dalla tecnica. La cosa più pericolosa della tecnica è che essa distoglie da ciò che costituisce realmente l’uomo, da ciò che realmente gli serve. L’invadenza che cattura. Non possiamo fare cosa peggiore a qualcuno che occuparci esclusivamente di lui. L’eternità. Nell’eternità tutto è inizio, mattino profumato. Il kitsch morale del puritano. Nella sua più profonda e contrita auto accusa, il moralista puritano si rappresenta sempre almeno cento volte migliore di quanto non sia in realtà. L’avaro. Tiene in serbo il suo danaro nel cuore, i battiti lo contano. Attenti al fanatismo del dubbio, oggi assai in voga. Il dubbio si fa più illusioni della fede. (Elias Canetti)

 

LE LETTERE DI JOHN KEATS. I Poemi di Keats sono universalmente noti, ma del poeta londinese, la cui vita fu assai breve, meritano di essere conosciute anche le Lettere. In esse c’è profondità di pensiero, accuratezza di espressione, sincera ricerca della verità. Sono più di trecento e vanno dal 1814, quando Keats era diciannovenne, al 1821, l’anno in cui sopraggiunse la morte. Sono state edite da Rollins Hyder Edward presso la Cambridge University Press.

Sensibilissimo al multiforme spettacolo della natura – è ben lui che scrive: «se un passero viene alla mia finestra, io prendo parte alla sua esistenza» (1,186) – egli ricorda con forza che al centro di ogni problema sta l’uomo, l’unico essere che è e si fa problema a se stesso. «Lo scenario è bello, ma la natura umana lo è di più» (1,242)annota icasticamente Keats. L’esperienza del dolore egli vorrebbe viatico alla «educazione dell’anima» e tuttavia, la conoscenza del male lo induce a dolersi per le immeritate sofferenze dei giusti: «Il mondo è abbastanza maligno da deridere la semplicità più stimata» (1,353).

L’esistenza del male morale, assai più che l’esistenza del male fisico, fa sorgere in noi interrogativi tormentosi. Keats sa dire su quel tema cose nobili e vere. In una lettera del maggio 1818 scrive: «Molte porte sono aperte, ma tutte conducono a passaggi oscuri. Il genio ha il dono d’esplorare quei passaggi oscuri ed è tanto superiore a noi quanto più riesce a gettare luce su di essi». E prosegue: «Siamo avvolti dalla nebbia. È il nostro stato attuale. Sentiamo il peso del mistero» (1,280). E non riesco a non trascrivere le espressioni così dense di Keats nella lingua in cui egli le pensò e le scrisse: «We are in a Mist. We are now in thatstate. We feel the burden of the Mystery».

Particolarmente bello e vero è un pensiero sulla poesia. «La poesia – scrive Keats – dovrebbe sorprendere per eccesso di finezza e non per singolarità. Essa dovrebbe colpire il lettore come un’espressione dei suoi pensieri più elevati e apparire come una rimembranza» (1,238-239). E nella lettera del 22 novembre 1817: «Ciò che l’immaginazione coglie come Bellezza deve essere verità» (1,183), dando al termine «cuore» la pienezza di significato che un Pascal gli conferì – in profonda sintonia, del resto, con l’uso che ne fa l’umanità – non si può non sottoscrivere la definizione che Keats ne dà in relazione all’intelligenza: «Il cuore è la Bibbia della mente » (11,103).

Dalle Lettere risulta con chiarezza qual era l’aspirazione più profonda del poeta: essere un amico attivo degli uomini per tutta la vita e ancor più dal giorno seguente a quello della morte. Keats fu e rimane fedele a quell’amicizia.

 

LA LEZIONE DI RABBI WOLF. La moglie di Rabbi Wolf ebbe un giorno una lite con la sua serva… La lite si accese sempre di più, al punto che la moglie decise di appellarsi al tribunale rabbinico e si abbigliò in fretta per recarvisi. Rabbi Wolf allora indossò anche lui il suo abito nuovo. La moglie protestò che non voleva essere accompagnata, sapendo bene da sé che cosa dovesse dire al tribunale. «Tu lo sai bene», rispose Rabbi Wolf, «ma la poveretta, di cui mi assumo la difesa, non lo sa. E chi altri se non io dovrebbe prendere le sue parti?» (da I racconti dei Chassidim di M. Buber).

 

 

3 maggio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un’ammirevole abitudine. È ammirevole l’abitudine di supporre che l’interlocutore possa avere ragione. Da Atene a Gerusalemme. Musica greca. / Finché dura questa musica, / meriteremo di aver visto, da un’altura, / la terra promessa. L’unione tra un uomo e una donna, se si amano davvero. Un saluto che due anime si scambiano. Altro che post-cristianesimo. I Vangeli sono ancora contemporanei, anzi futuri. (Jorge Luis Borges)

I protagonisti degli anni di piombo. Erano giovani senza allegria, che si sentivano perseguitati da ogni parte. Tra loro non c’era amicizia. Ma il suo contrario: la smorfia della misantropia… L’anticonformismo emotivo li portava a radicalizzare le mode politiche di massa (Luigi Compagnone). Quando l’intellettuale è costretto all’esilio per motivi di coscienza. Ogni intellettuale nell’emigrazione è minorato. Espropriata è la sua lingua, livellata la sua dimensione storica dalla quale la sua conoscenza attingeva energia… Tutte le misure diventano false, la prospettiva è alterata. Lo sguardo acquista l’espressione gelida e maniaca (Theodor W. Adorno).

Il dolore che ci umanizza. Il dolore serve a rendere la materia trasparente. Cioè matura. Coro dei nascituri. Le ombre del tempo posano ancora / come domande sul nostro segreto. / Siamo noi che cominciamo a vivere nei vostri sguardi, / siamo noi, che odoriamo di domani. L’anelito inciso nel nostro essere. Ogni traccia porta fuori. (Nelly Sachs)

 

PERCHÉ STIAMO DIVENTANDO SEMPRE PIÙ INCAPACI DI ASCOLTO? Sono domande su cui si torna molto spesso. Taylor Caldwell nel romanzo Il mio cuore ascolta (Milano 1963) ha individuato in modo mirabile una delle ragioni del nostro disagio, per cui siamo diventati incapaci di essere in ascolto e, a nostra volta, siamo condannati a non essere ascoltati.

«Uno degli aspetti più sconcertanti di questo mondo odierno – afferma un personaggio di Taylor Caldwell – è che non ci si ascolta a vicenda. Se siete malato o anche morente, nessuno vi ascolta. Se siete spaventato o sgomento o perduto o privo di tutto, o solo, o infelice, nessuno vi ascolta realmente. Anche i sacerdoti hanno fretta e sono stanchi. Fanno quanto possono e lavorano incessantemente, ma il tempo ha assunto un carattere frammentario: non sembra avere più alcun contenuto. Nessuno ha tempo d’ascoltarvi, neppure quelli che vi amano e che sarebbero pronti a morire per voi».

Come si può giungere a un livello così pauroso di disamore, di disprezzo effettivo anche se non dichiarato per gli altri? Perché siamo diventati così incapaci di ospitalità nel cuore e nell’intelligenza? Chiusi nel nostro miserabile «io», siamo ora narcisisti, persuasi della nostra autosufficienza ed eccellenza, ora maledettamente ansiosi di non essere disturbati nel nostro piccolo mondo, «peterpanisti» (Peter Pan, com’è noto, è il bambino che non volle diventare grande). O, più semplicemente, stiamo diventando sempre più incapaci di ascoltare perché il nostro tempo, dominato dal rumore e dalla chiacchiera non conosce più quell’atto intenso di presenza a se stessi che è il silenzio? Il silenzio che ci aiuta a riflettere, a metterci in chiaro con noi stessi e, dunque, con Dio e con gli altri. La legge della vita interiore è chiara: quanto più discendo in me stesso, tanto più ritrovo gli altri, e quanto più mi pongo al servizio del prossimo, tanto più attuo, nella sua forma più autentica, me stesso. La via obbligata, dunque, è e resta il silenzio fecondo e raccolto, che ci restituisce a noi stessi e ci rende possibile l’accesso alla verità. Solo chi ascolta il silenzio diverrà capace di ascoltare i suoi simili. Solo il silenzio che è in noi, ascolta.

 

UNA PARABOLA DI PACE DA GERUSALEMME. Accadde a metà novembre dell’89 ed è un episodio così bello da costituire una parabola degna di essere sottratta allo stillicidio di informazioni, per entrare a far parte delle testimonianze a difesa dell’onore dell’umanità.

Il cuore di un soldato israeliano ferito a morte da un commando palestinese è stato trapiantato ad un palestinese di Gerusalemme, affetto da gravi disfunzioni cardiache. Il cuore donato è quello del sergente Se’ev Traum, originario della Galilea, e batte ora nel petto di Hanna Khader, padre di due figli. La famiglia del sottufficiale caduto ha autorizzato il trapianto sapendo che il paziente in attesa di un cuore era un palestinese. Anche la famiglia del palestinese era stata preventivamente informata dell’identità del donatore.

 

 

24 maggio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La forza delle idee. Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto si pensi comunemente… Gli uomini della pratica, i quali si ritengono affatto liberi da qualsiasi influenza intellettuale, sono egualmente schiavi di qualche economista defunto (John Maynard Keynes). La radice storica. Non dimenticherà il cristiano, nel suo confronto con la cultura contemporanea, che i migliori valori umanistici di cui essa si vanta sono, nella loro radice storica, riconducibili al Cristianesimo e al suo affermarsi nella società (Pietro Rossano).

Il metodo del Grande Lombardo.Quando il mondo ha riconosciuto un’idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela, bisogna rivendicarla al Vangelo, mostrare che essa vi si trova, ricordargli che, se avesse ascoltato il Vangelo, l’avrebbe riconosciuta dal giorno in cui esso fu promulgato (Alessandro Manzoni). Per meglio congiungere tra loro e giustificare singole verità. Le verità stesse che pur si trovano senza la scorta della religione cattolica non mi sembrano intere, fondate, inconcusse, se non quando sono ricondotte ad essa, ed appaiono quel che sono, conseguenze della sua dottrina (A. Manzoni nella lettera del 1820 a Diodata Saluzzo di Roero). La moralità del critico. Si è dimenticato che la critica, specialmente quella teatrale, è un mezzo di elevazione del gusto del pubblico. Quello che è diventato un mestiere dovrebbe essere una missione (Piero Gobetti).

 

L’ESERCITO PIÙ EROICO E PRODUTTIVO CHE CI SIA. Il nostro Paese non è solo mafia e corruzione, alti costi e inefficienza dei servizi sociali: l’Italia è anche la patria di un autentico miracolo morale. Prendete in mano il volume Indagine sociale italiana: Rapporto 1986, a cura di Gabriele Calvi, e ve ne renderete conto. Nel 1985 in Italia svolgeva attività non retribuita l’11,7% della popolazione tra i 18 e i 74 anni; pertanto, su di una popolazione di quasi 39 milioni i volontari erano 4.458.000! Il monte ore annuo era di 1 miliardo e 21 milioni. Calcolando il costo di un’ora di lavoro 14 mila lire, risulta che i nostri volontari cinque anni fa hanno prodotto qualcosa come 14.305 miliardi di lire in beni e servizi.

Come sono andate le cose nel 1989? L’indagine promossa dall’Istituto di ricerche educative e formative, di Roma, realizzata in collaborazione con l’Eurisko, di Milano, attesta che il fenomeno ha assunto, al di là di ogni previsione, dimensioni su cui occorre riflettere seriamente. Infatti, in solo quattro anni la percentuale dei volontari è salita al 15,4%, cioè a oltre 6 milioni di unità; il monte orario annuo balza a 1 miliardo 370 milioni; il valore del servizio a 18 mila lire orarie, può essere quantificato in 24.746 miliardi.

Il volontariato assistenziale e socio-culturale in Italia costituisce un vero e proprio esercito, che conferisce al nostro Paese un primato morale, civile e religioso (dappertutto è fortissima la presenza dei cattolici), di cui si deve a buon diritto essere fieri. Altro che gli 8 milioni di baionette che Mussolini diceva di avere e non aveva! E quello dei volontari è un magnifico esercito in cui le defezioni, se ci sono, vengono immediatamente rimpiazzate. Di più: nel corso degli ultimi quattro anni il numero dei volontari è cresciuto di oltre 1 milione e mezzo. Ed è un esercito, infine, che non costa nulla e permette di risparmiare una valanga di danaro, posto che qualcuno potesse trovarlo e volesse spenderlo per sostituire i volontari con occupati iscritti al sindacato e garantiti dallo statuto dei lavoratori. Quale ente, privato o pubblico, quale industria robotizzata può vantare un simile incremento di produttività a costo zero? Il volontariato è il fenomeno sociale più bello del nostro tempo. Il consumismo e l’individualismo ci sono ed esibiscono la loro arrogante volgarità. Ma c’è anche l’altra Italia, quella della generosità disinteressata, della dedizione, dell’amore per i fratelli meno fortunati e per la cultura. E questa meravigliosa Italia ha già vinto, se mai fosse messa in palio, il suo titolo mondiale. Senza clamore, nella silenziosa concretezza dell’operare quotidiano.

 

UN’AMARISSIMA AUTO-DEFINIZIONE. «L’arte commerciale è il passo successivo dell’arte. Io ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista affarista… Io sono tutto sulla superficie: dei miei quadri, dei miei films, di me stesso. Dietro non c’è niente». Sono i termini con cui il creatore della pop-art, Andy Warhol (1928-1987), definiva se stesso.

Una sommessa obiezione. Chi giunge a radiografarsi in un modo così lucido e impietoso è innanzi tutto uomo che rifiuta gli orpelli della menzogna e dell’autogiustificazione, è inappagato del suo stesso successo e serba ancora nel cuore un’alta visione dell’arte. La quale è, appunto, al di qua del commercio e dell’affarismo.

 

 

31 maggio 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Oltre la virtù l’agàpe. Tu che spezzi la servitù e l’orgoglio / …vieni / se già non sei dovunque / in veste di randagio, / d’infermo, di bambino tribolato. / La virtù quando non giunge / fino all’amore è cosa vana (Mario Luzi). Perché si fa così spesso la caricatura del pensiero altrui. La caricatura del pensiero altrui o è fondata sull’ignoranza di chi la fa o conta sull’ignoranza di chi ascolta (Giuliano Amato). Libertà, retaggio biblico. L’idea di libertà deriva dalla Bibbia e dal suo straordinario insistere sulla dignità della persona (Henry A. Wallace).

Coloro che meglio ci trasmettono l’esperienza morale dell’umanità. La lettura di Omero, di Eschilo, di Sofocle, di Erodoto, di Tucidide, di Demostene, di Plutarco, di Epitteto, di Marco Aurelio (meglio leggerli accuratamente in una traduzione, piuttosto che imparare la loro lingua e leggerne soltanto qualche brano), la lettura di Virgilio, di Seneca, di Tacito e di Cicerone, di sant’Agostino, di Dante, di Cervantes, di Montaigne, di Pascal, di Shakespeare, di Racine, Montesquieu, Dickens, Goethe, Dostoevskij alimenta il senso e la conoscenza delle virtù naturali dell’onore e della pietà, della dignità dell’uomo e dello spirito, della grandezza del destino umano, degl’intrecci del bene e del male, della charitas humani generis. Una simile lettura, più di qualunque corso di morale naturale, trasmette ai giovani l’esperienza morale dell’umanità (Jacques Maritain). Scienza e coscienza. La scienza senza la coscienza è la rovina dell’anima (Rabelais).

 

PRIMA DI TUTTO L’UOMO. «Non vivere su questa terra come un estraneo o come un turista nella natura. Vivi in questo mondo come nella casa di tuo padre: credi al grano, alla terra, al mare; ma prima di tutto credi all’uomo. Ama le nuvole, le macchine, i libri; ma prima di tutto ama l’uomo.

Senti la tristezza del ramo che secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che rantola; ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo.

Ti diano gioia tutti i beni della terra: l’ombra e la luce, le quattro stagioni ti diano gioia ma soprattutto, a piene mani, ti dia gioia l’uomo» (Ultima lettera al figlio di Nazim Hikmet).

 

L’EUROPA, UNA VIA VERSO LA PACE. Perché De Gasperi, uomo di frontiera come Adenauer e Schumann, si adoperò con tutte le sue forze affinché l’idea di Europa unita diventasse realtà politica e volontà di popoli? Rileggo Mio caro padre di Maria Romana De Gasperi (Brescia 1979), e trovo la risposta. «La tua voce negli ultimi anni – ricorda la figlia dello statista – si è alzata mille volte per chiedere la solidarietà della ragione e del sentimento, per richiamare nei popoli d’Europa quello spirito eroico di libertà e di sacrificio che, altre volte, aveva vinto sulle forze irrazionali ed istintive della disgregazione e della violenza.

In un’Europa solidale vedevi che si sarebbe anche infranta la propaganda dell’odio ideologico e la mistica del materialismo rivoluzionario. Non era un’illusione la tua, ma una forte speranza. Questa era la spinta essenziale della sua opera per l’unità europea: unità di popoli come scalino di progresso verso la perfezione, che utilizza un elemento politicamente nuovo nella nostra storia, cioè il senso della fraternità. Quindi, al di sopra delle ragioni economiche, dei principi di giustizia distributiva e sociale, questa spinta all’unità illuminata da una visione cristianamente più umana, fu per te la ragione profonda che ti fece lavorare, duramente e senza soste, nella speranza di lasciare alle generazioni future una via irreversibile verso la pace.

Tentare e ritentare con tenace ottimismo, dicevi, finché fosse possibile trovare una sintesi creatrice che potesse sostituire tutte le antitesi passate e quindi cercare organi funzionanti per assicurarne lo sviluppo. Ed è anche se la realtà non fosse riuscita a tenere il passo con i piani e con i propositi già formulati, incoraggiavi a non perdere la fiducia, e incitavi perché si lavorasse in clima di concordia a costruire anche solo gradualmente, anche con ritmo pacato purché fosse ininterrotto, chiedendo che le porte di questa nuova Europa restassero sempre aperte a tutti i popoli che sentissero di avere comunanza di ideali e di interessi.

L’Europa esiste, dicevi, ma è incatenata dagli egoismi nazionali, da vecchie strutture politiche, da interessi di parte. Si tratta, quindi, di spezzare queste catene e di trovare attraverso nuovi dibattiti i principi di una comune sintesi politica, economica e morale, in base alla quale gli Stati possano edificare finalmente la casa comune».

 

 

7 giugno 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando si sporca la creazione e la vita. Il mondo è bello. È proprio ciò che mette tanta tristezza! Per questo è assurdo divinizzare un qualsiasi regime politico. Ogni regime diventa alla fine ancien régime. Allungare la vita, ma a una condizione. È lecito allungare la vita umana solo allorché se ne accorciano le sofferenze. Ci sono alibi tutt’altro che innocenti. Talvolta proprio l’alibi è un delitto. La trasfigurazione di ciò che è lontano. Una legge ottica: da lontano sembra tutto più grande. Un pericolo quotidianamente verificabile. Non lasciarti fuorviare dalla giusta strada, neppure da quelli che vanno nella stessa direzione. Senza libertà non c’è mai sincerità di consenso. È difficile applaudire chi ti ha legato le mani. La domanda inevitabile. Arte impegnata. Per conto di chi?

Attenzione alla precedenza. Non lasciatevi imporre la libertà di parola prima della libertà di pensiero! Due stili diversi. La forza degli argomenti – gli argomenti della forza. Un sicuro criterio di giudizio. Quanto più pulite le vittime, tanto più sporche le mani degli assassini. Ci vuole proprio l’imperfetto. Tutti gli dèi erano immortali. La distanza ontologica, certo, ma anche l’infedeltà alla divina sorgente. In principio era il Verbo – e alla fine le chiacchiere. A proposito dei sistemi che avrebbero inaugurato un’umanità nuova. Cercarono di creare la pietra filosofale e pietrificarono i pensieri (Stanislaw Jerzy Lec, Pensieri spettinati, Milano 1984).

 

«PERALTRO», L’AVVERBIO LIMITATIVO CON CUI SI DISDICE QUEL CHE S’È DETTO. A fine marzo, se non ricordo male, Francesco Cossiga, ricevendo i rappresentanti dell’Ordine dei giornalisti, ha confidato loro una sua intima sofferenza. «Sono stufo – ha detto il Presidente della Repubblica – dei discorsi formali che, comunque rigirati, non significano niente». Cossiga ha espresso fastidio in particolare per l’uso di avverbi come il famigerato «peraltro» e per una ragione precisa, su cui noi tante volte abbiamo richiamato l’attenzione in questo spazio di libertà e di schiettezza, qual è la nostra rubrica: «Avverbi come quello consentono di chiamare qualcuno come figlio di buona donna e poi di parlare bene della madre del medesimo». La corruzione del linguaggio, operata dal politichese, è la radiografia della degradazione, del processo di svuotamento morale, di entropìa della stessa politica in questa nostra malandata democrazia. Sarà un grande servizio che renderà al Paese il Signor Presidente della Repubblica se, almeno lui, comincerà a dire chiaro e forte quello che pensa. Se il coraggio di una coscienza che non si pieghi alle pretese illegittime e meschine dell’una o dell’altra parte, può risvegliare negli animi la volontà di non rassegnarsi al degrado.

 

PIÙ CHE GIUSTO. «Un buon autobus e un buon ufficio postale, una buona scuola, un buon ospedale sembrano a me importanti per la teoria e la pratica di una democrazia, almeno quanto i miei argomenti di filosofia politica». Lo scrive Salvatore Veca e si può convenire con lui. A patto di fare qualche aggiunta: una giustizia rapida, la malavita sgominata, i rapitori e i mafiosi espropriati fino all’ultima lira, la galera finalmente assicurata in primo luogo ai politici che rubano, un parlamento che non legiferi di continuo e che continui a non affrontare mai i pochi problemi di fondo, il rispetto rigoroso delle leggi che già ci sono. Quali ulteriori aggiunte ritengono urgenti e necessarie i nostri lettori?

 

IL SILENZIO E LA PAROLA. Terapia d’urgenza. Se fossi medico e uno mi domandasse consiglio sull’odierna malattia del mondo, risponderei: crea il silenzio! porta l’uomo al silenzio (Søren Kierkegaard). Il maggior nemico di Dio. Il maggior nemico di Dio non è l’ateismo moderno, ma il rumore (Carlo Maria Martini). Silenzio e ascolto. Solo dal silenzio si può realmente udire» (Romano Guardini). L’ascolto, inizio dell’amore. Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore di Dio incomincia con l’ascoltare la sua parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo (Dietrich Bonhoeffer). Filosofia e linguaggio. Tutta la filosofia è linguaggio e nondimeno essa consiste nel ritrovare il silenzio (Maurice Merleau-Ponty). Quando la parola è autentica, nasce dal silenzio. La parola più bella non spezza il silenzio, lo rende più sensibile. La parola procede dal silenzio, l’esprime ed in esso ritorna. Il silenzio è lo spazio che attraversano le parole, è in esso che risuonano, esse evocano la sua non finitezza (Louis Lavelle).

 

 

14 giugno 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il giudizio da dare su molti libri lanciati dall’industri culturale. Belli i tipi, la carta, i fregi e il sesto; / e il libro è bello se non levi il testo (Mario Mariani). Non solo contro il totalitarismo nazista, ma contro ogni totalitarismo. Amici e voi imparate che occorre / vedere e non guardare in aria: / occorre agire e non parlare. / Questo mostro stava una volta / per governare il mondo! / I popoli lo spensero, ma ora non / cantiamo vittoria troppo presto. / Il grembo da cui nacque / è ancora fecondo (Bertold Brecht). Le false associazioni. Rompiamo le facili associazioni: la rivendicazione dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani non implica affatto la rinuncia alla gerarchia dei valori. L’amore per l’autonomia e per la libertà dell’uomo non ci costringono a ripudiare ogni solidarietà, così come il riconoscimento di una morale pubblica non comporta ineluttabilmente la regressione al tempo dell’intolleranza religiosa; né un contatto con la natura implica un ritorno alla caverna (Tzvetan Todorov). La poesia non serve a niente? E allora ne abbiamo assoluto bisogno. La pratica della poesia non è mai tanto desiderabile quanto nei periodi in cui, per eccesso dell’egoismo e del calcolo, l’accumulo dei materiali della vita esteriore supera il grado di capacità di assimilarli alle leggi interiori della natura umana (Percy Bysshe Shelley).

 

L’EPILOGO NECESSARIO ALLA TRAGEDIA: LA CONCILIAZIONE TRA EBREI E PALESTINESI. Sul quotidiano israeliano Jerusalem Post il 14 gennaio 1988 fu pubblicata una lettera aperta da Dalia Landau, un’ebrea israeliana, a Bashir Khayri, avvocato di professione e palestinese. È una lettera che racconta quarant’anni di storia, lo svolgersi di una tragedia che deve, per l’onore stesso dell’umanità, trovare un epilogo ragionevole, coerente ai grandi principi morali a cui pure le parti in conflitto affermano di far riferimento. Uno stesso destino unisca Dalia e Bashir: hanno una casa in comune; quella in cui Bashir è nato, prima che sorgesse lo Stato d’Israele, e in cui Dalia è cresciuta, dopo il suo arrivo in Israele nel ‘48. «Dopo la guerra dei Sei Giorni sei venuto qui a Ramle insieme a due altre persone a vedere la casa in cui sei nato. Dopo quella tua visita, ho accettato il tuo invito a venire a Ramallah. Abbiamo parlato per ore e stabilito un caldo rapporto umano. Tuttavia, fu chiaro che le nostre posizioni politiche erano molto diverse. Ognuno di noi guardava attraverso le lenti della sofferenza del proprio popolo. La mia prospettiva, però, cominciò a cambiare. Da allora anche i muri di casa evocano memorie e lacrime di altra gente. L’amore per il mio Paese ha perduto la sua innocenza e si è caricato di una nuova dimensione».

A quale nuovo modo di sentire i rapporti tra ebrei e palestinesi porta questa nuova dimensione in cui si pone anche l’amore per il proprio Paese? La risposta è in quel mirabile documento di storia e di umanità. «Forse un giorno, se tutti e due saremo disposti a fare dei sacrifici, arriveremo a una sorta di perdono reciproco… Ognuna delle due parti, la mia e la tua, ricorre a una dose di ingenuità per giustificare le proprie posizioni: fino a quando terremo in vita questo circolo vizioso? Ci insegnano che l’essenza della nostra tradizione ebraica si può racchiudere in queste parole: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Fin quando sia israeliani che palestinesi non faranno proprio questo principio fondamentale, non costruiremo mai una solida base per la coesistenza. Quest’eredità di dolore – prosegue Dalia Landau – si accrescerà e si indurirà nell’amarezza nel passare da una generazione all’altra».

Di qui il grido che prorompe dal cuore di questa donna coraggiosa, l’impegno a non farsi incastrare da ciò che è alle nostre spalle. «Io mi appello – scrive nobilmente Dalia Landau – sia ai palestinesi che agli israeliani perché comprendano che l’uso della forza non risolverà alle radici questo conflitto. È una guerra che nessuno riuscirà a vincere. O i nostri due popoli otterranno ambedue la liberazione, o non l’avrà nessuno». E chi autorizza coloro che possono concludere oggi la pace – una pace con garanzie internazionali e a patti chiari – a sacrificare il destino dei fanciulli dell’una e dell’altra parte? Dalia Landau sa trovare le parole più semplici e più forti in difesa del diritto di quei piccoli alla vita e alla felicità. «Le nostre memorie d’infanzia, le mie e le tue, sono intrecciate nella tragedia. Se non riusciamo a trovare un modo per trasformare quella tragedia in una comune benedizione, rimanere aggrappati al passato distruggerà il nostro futuro. Deprederemo così dell’infanzia serena e lieta a cui ha diritto un’altra generazione ancora e ne faremo martiri per una causa che non ha più nulla di santo».

 

 

21 giugno 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Lo scrittore J. Rodolfo Wilcock, nato a Buenos Aires, visse nella piena maturità vent’anni in Italia, dal 1958 al ‘78, anno della sua morte. Nel volume Poesie l’Adelphi pubblicò nel 1980 la produzione poetica italiana del borgesiano Wilcock (con l’aggiunta di una scelta dalle Poesie spagnole), È un’opera diseguale, ma non può essere esclusa dalla lirica italiana di questa seconda metà del secolo, Vogliamo farne conoscere ai lettori le cose migliori. Il dono di un giorno nuovo. Non tutti hanno il cuore vuoto: / ci si può lasciare entrare / ogni mattino un mondo nuovo. Auguri a chi ha varcato la soglia della vecchiaia. Il miglior premio, dopo una lunga vita / è una calma vecchiaia arricchita / da visioni di penetrante dolcezza / come i ricordi della prima fanciullezza. Il più necessario dei servizi. È una forma di carità / correggere gli errori / dei mistificatori.

Non arrendersi. Accidia rode e volontà ripara. La saggezza. La saggezza non è un dono degli anni / bensì una qualità aristotelica, / una conoscenza previa alla conoscenza. / Non piove dal cielo ma con noi fiorisce; / non indifferenza ma trattenuta passione, / gioiosa e malinconica accettazione. A mio figlio. Abbi fiducia nella vita / e non nelle ideologie; / non ascoltare i missionari / di quest’illusione o quell’altra. / Ricorda che c’è una sola cosa / affermativa, l’invenzione. Consiglio. Ripudiamo la facilità, / la facilità dissolvente, / l’affascinante quasi-verità. Cieli aperti. Seguire il Vangelo, non peccare in spirito / può portare in prigione. Ma la prigione è aperta.

 

I NUOVI PARADOSSI: LA FRANTUMAZIONE DELLA RESPONSABILITÀ PORTA AL SUO AZZERAMENTO. Nel volume Psicologia di John M. Darley ed altri, tradotto dal Mulino, si mette a fuoco un fattaccio che accadde nel 1964, a New York, e che fu ampiamente commentato dalla stampa. È un episodio rivelatore di uno stato d’animo assai diffuso.

Una giovane donna fu accoltellata per strada in un quartiere residenziale nelle prime ore del mattino. La ragazza invocò aiuto e le grida acute e protratte svegliarono molta gente del vicinato. Le ricerche della polizia stabilirono più tardi che almeno trentotto persone, molte delle quali guardavano dalle finestre, avevano osservato in parte o del tutto la criminale aggressione. Ma non una persona andò in aiuto della vittima e forse, ed è cosa ancora più preoccupante, nessuno neppure telefonò alla polizia!

Che dire? I cittadini sono senza cuore? In verità chi ha studiato quell’episodio ha fatto assai di più che deprecare e accusare, individuando un meccanismo di deresponsabilizzazione collettiva, a causa del quale ognuno inconsciamente affida agli altri l’iniziativa che egli in persona è tenuto a prendere. Il paradosso, insomma, sta proprio qui: nessuno era intervenuto in aiuto della ragazza accoltellata non benché ci fossero trentotto testimoni oculari, ma perché c’erano trentotto testimoni oculari. La presenza di tante persone aveva permesso, senza che nessuno se lo proponesse, una frantumazione della responsabilità fino al suo effettivo azzeramento. Se ognuno si aspetta che siano gli altri a partire per primi…

 

IL SILENZIO E LA PAROLA. Chi tace può far capire. Nel corso di una conversazione, chi tace può far capire, cioè promuovere la comprensione più autenticamente di chi non finisce mai di parlare. L’ampiezza di un discorso su qualcosa non equivale affatto all’ampiezza della comprensione della cosa. Al contrario, un fiume di parole su un argomento non fa che oscurare l’oggetto da comprendere, dando ad esso la chiarezza apparente dell’artificiosità e della banalizzazione (Martin Heidegger). Il limite. Il limite della parola è forse un muro? Potrebbe essere una finestra» (Massimo Baldini). Quando è reale comunicazione di vita. Ogni insegnamento esistenziale finisce in una specie di silenzio (Søren Kierkegaard).

 

UN BIGLIETTO AD EUGENIO SCALFARI. Leggo su La Repubblica del 27/28 maggio ‘90 a pagina 4 un servizio di Orazio La Rocca. Non giudico quanto si afferma del cardinal Biffi, benché altre volte la lettura integrale delle dichiarazioni del vescovo di Bologna mi abbia reso fortemente dubbioso sull’obbiettività del cronista di Repubblica. Ciò che non è sopportabile sul piano della storia e della cultura è veder attribuito ad una coscienza altissima e ad una mente geniale come John Henry Newman l’assurdo progetto di «coalizzare i cristiani in una specie di chiesa-partito». Il grande Newman – che non a caso Paolo VI indicò come il vero ispiratore e il profeta del Concilio Vaticano II – poteva essere tanto rozza e stupido?

 

 

28 giugno 1990.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La preghiera. La preghiera non è un coro di parole: è fiamma e ti scalda dentro. In diecimila pagine solo tre righe. L’opera di Karl Marx è di oltre diecimila pagine a stampa: alla morte ha dedicato solo tre righe. Il libro assolutamente unico. Il Vangelo, lettura dell’anima, dà cappotto a tutti i libri. La compagnia degli innocenti come terapia. Un innocente rimette sempre l’uomo nei suoi panni migliori. Dio e la Tv. Dio in principio ha fatto Adamo, dopo la Tv ha creato il gregge. I bambini non parlano più con le cose. I bambini non parlano più con le cose perché il televisore è il signore delle ore. Parlarsi con gli occhi. Parole tra noi non avevano posto, ma gli occhi dicevano cose del cuore. L’uomo e il prete. Ogni uomo è mistero: ma prete e mistero camminano insieme. Il domicilio dentro l’uomo. La felicità non parcheggia tra le cose, ha da sempre il domicilio dentro l’uomo. E canta, quando è in casa. La campagna visitata dalla primavera, ossia la fedeltà nei ritorni. Passeggio la campagna visitata dalla primavera e si slega dentro una scarabattola di lietezze: la primavera ha seminato le viole nel fosso. I bambini non le cercano più, ma ci sono e si fanno dentro il loro profumo. C’è fedeltà nei ritorni. Quello che era, riè; e io mi sento nel gioco vivo delle cose. Il ricordare come catarsi. Smuovere il girotondo dei ricordi mette calma e dolcezza. I giorni ritornano con un flutto pacifico in cui si riflette il sole. A chi è giovane. Hai tutta una vita da spendere. Non fare il taccagno. Di fronte alla prova. Se è notte, si farà giorno.

Queste annotazioni sono tratte dal volume Mea culpa di Francesco Fuschini, prete-scrittore di Romagna (Milano 1990).

 

«IL PIAVE»: UNA CANZONE CHE COMMUOVE, A CUI È INCORPORATO UN FALSO STORICO. «Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio / dei primi fanti il 24 maggio. / L’esercito marciava per raggiunger la frontiera / per far contro il nemico una barriera». La commozione mi assale ancora oggi quando sento risuonare le note di quel canto. L’ultimo dei versi citati, tuttavia, contiene un vero e proprio falso storico (non voluto, di certo, dall’autore della celebre canzone, ma reale). È l’Italia, infatti, che il 24 maggio 1915 dichiara guerra all’Austria e all’Ungheria e non viceversa. Non è, dunque, l’impero asburgico ad attaccarci e a rovesciare in quel maggio, che a tanti interventisti di casa nostra appariva «radioso», sul nostro fronte le sue divisioni, contro le quali noi si doveva «far barriera». Come mai quel falso storico si insinuò con tanta immediatezza, inconsciamente, nella Canzone del Piave? Il fatto è che la grande guerra fu sentita veramente come sua dal popolo italiano, affrontata eroicamente e, alla fine, vinta solo dopo la disfatta di Caporetto, quando le irrompenti forze degl’Imperi Centrali divennero una terribile minaccia per l’integrità nazionale del nostro Paese. Allora sì, e non nel maggio del ‘15, a mano a mano che andava riannodando le sue fila, «l’esercito marciava per raggiunger la frontiera / per far contro il nemico una barriera». L’inconscio collettivo intuisce, però, che solo una guerra difensiva può avere una sua validità etica e pertanto tende a rendere tutta «giusta», e sin dall’inizio, dal 24 maggio del ‘15, la vicenda bellica 1915-1918, conferendole quel carattere di lotta all’invasore che essa acquistò solo a partire dall’autunno del 1917.

 

CHI DICE DI AVER RAGIONE. È di gran lunga preferibile che siano gli altri a riconoscere che abbiamo ragione. Darcela da noi stessi è talora inevitabile, ad esempio quando gli interlocutori sono chiusi nella corazza di astrazioni pericolose per sé e per gli altri. Attenti, però, alla percentuale che assegniamo al nostro «aver ragione». Un illustre e simpaticissimo cardinale, che è originario della zona dei Pirenei, mi ha riferito le parole di un vieux galicien. Eccole. «Quando qualcuno dice di aver ragione per il 55% e dice il vero, nulla da obiettare. È poi meraviglioso se qualcuno ha ragione per il 60%. Ma che dire di chi ha ragione per il 75%? Bisognerebbe considerarlo con un certo sospetto. Chiunque poi dice di aver ragione al 100% è un fanatico, un brigante e un briccone della peggior specie». I fogli sui quali andiamo scrivendo le nostre ragioni devono avere larghi margini in bianco: per annotarvi le ragioni degli altri, o la correzione dei nostri giudizi fatta da noi stessi quando conquistiamo un più alto punto di vista.

 

L’ETHOS MISTICO DEI CHASSIDIM. La seduzione più sottile. Quando l’istinto del male cerca di sedurre l’uomo al peccato, allora cerca di sedurlo a diventare troppo giust). La benedizione. La mia vita fu benedetta in questo, che io non avessi mai bisogno di una cosa prima di possederla (Rabbi Michal). Il primo pensiero. Offrite a Dio il primo pensiero che avete al risveglio. Se qualcuno fa questo, Dio lo aiuterà a rimanere tutto il giorno unito a lui e a legare ogni cosa al primo pensiero (Rabbi Mardocheo).

 

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.