Detti e Contraddetti 1993 – 2° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1993 – SECONDO SEMESTRE

1 luglio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La condizione prima. L’unico modo di avere un amico è di essere noi stessi (Ralph Waldo Emerson). Definizione di Dio. Dio è amicizia (Aelredo di Rievaulx). L’ospite interiore. Eccoci, io e tu, e, spero, terzo tra di noi, Cristo (sono le prime parole del trattato di Aelredo, monaco cistercense). L’ho visto in TV. Se un albero cade in una foresta e non è ripreso in TV, l’albero è realmente caduto? (titolo di un famoso saggio dello studioso americano Percy Tannenbaum). Cultura e guadagno. La cultura ha guadagnato soprattutto da quei libri con cui gli editori hanno perso (Thomas Fuller). Le parole grosse. Le parole grosse, logorate come sono dall’uso, non si adattano molto a esprimere cose straordinarie; vi si riesce meglio innalzando le piccole e portandole al culmine del loro significato (Thomas Mann).

La creazione è bella. Ad occhi aperti / ho attraversato questa terra. / È bella, lo sapete anche voi. / E il suo abbraccio è durato tutta la vita. Scusatemi. Ormai sto finendo. A milioni di versi nel mondo / aggiunsi appena un paio di strofe. / Non furono in nulla più sagge d’un canto di grilli. / Lo so. Scusatemi / Ormai sto finendo. (Jaroslav Scifert)

IL CARROZZONE DI CASA VERRI. Un racconto in dialetto milanese di Carlo Dossi illustra efficacemente il punto di vista di Manzoni sui modi e i tempi necessari per risolvere la questione romana. La moderazione mancava a tutti, tuttavia bisognava operare nella ragionata condizione che «l’una cosa non ha a che fare con l’altra», cioè che Roma capitale non avrebbe significato la fine del Papato religioso. Certamente, una scelta così importante comportava dei prezzi da pagare e degli inconvenienti, ma bisognava pure confidare nella forza di un’idea direttiva giusta e vera, qual era la possibilità per i cattolici italiani di far parte di uno Stato nazionale, unendo nei loro cuori le due fedi, quella religiosa e quella civile. Bisognava perciò andare a Roma, pur mettendo in conto che la soluzione più accettabile sarebbe venuta strada facendo, in progresso di tempo, una volta che si fossero placati, a poco a poco, i risentimenti furibondi e le provocazioni delle parti in causa. Ecco, tradotta in italiano, la significativa testimonianza del Dossi.

«Quando si discorreva appassionatamente della questione romana e dell’andata dell’Italia a Roma, Alessandro Manzoni, ambrosianamente, così diceva: “Il vecchio conte Verri aveva un grande carrozzone che gli serviva per mandare la famiglia in campagna. Quando veniva la stagione di tirarlo fuori ed era in cortile con i due cavalli attaccati e la porta aperta, il conte Verri cominciava a mandar dentro la contessa, poi le figlie, poi la cameriera, poi il pappagallo, il cane, le borse, gli scialli, gli scatoloni. Dentro, tutti, non si sapeva come potessero starci, e gridavano, dicevano d’aspettare per mettersi comodi, ma il conte Verri chiudeva di colpo la portiera dicendo: Andate. Vi sistemerete per strada… Andate a Roma. Vi aggiusterete poi”».

L’EGOCENTRICO VOLGARE E QUELLO RAFFINATO. L’egocentrismo è il peccato originale dell’uomo, la violazione dei veri rapporti tra l’io e il suo altro, cioè Dio, il mondo e gli uomini, tra la persona e l’universo. L’egocentrismo è un universo illusorio, deformato. Esso ingenera una prospettiva falsa del mondo e di tutto ciò che è reale nel mondo ed è incompatibile con la vera percezione della realtà. L’egocentrismo rende ogni cosa strumento della propria affermazione, dell’affermazione del suo io, ed è perciò l’essere maggiormente dipendente, che vive in uno stato di perenne schiavitù. Questo è il più grande mistero dell’esistenza umana: l’uomo è schiavo del mondo esteriore che lo circonda perché è schiavo di sé stesso, schiavo del suo egocentrismo. L’uomo si sottomette docilmente alla schiavitù interiore in relazione agli oggetti a causa dell’affermazione egocentrica del proprio io. Gli uomini egocentrici sono generalmente dei conformisti. Colui che è schiavo di se stesso si perde. Alla schiavitù si contrappone la persona, ma l’egocentrismo porta alla disgregazione della persona. L’uomo egocentrico non solo è schiavo della sua natura inferiore, animale: è questa la forma più grossolana di egocentrismo; egli può anche essere schiavo della sua natura superiore, e ciò è di più grande rilievo ed ancora più sconvolgente. L’uomo allora è schiavo del suo io raffinato, assai lontano dal suo io animale, schiavo delle sue idee sublimi, dei suoi sentimenti elevati, dei suoi talenti. Egli può, senza rendersene conto, trasformare i valori più alti in armi e servirsene in vista dell’autoaffermazione. Il fanatismo altro non è che questa affermazione egocentrica dell’io (Nikolaj Berdjaev, Sulla schiavitù e sulla libertà dell’uomo, Milano 1952).

8 luglio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. A chi ci muove accuse del tutto infondate. La vostra miseria non mi tange (Dante Alighieri, Inferno 2, 92). Fonte d’ispirazione. Dietro a sua bellezza, poetando (Paradiso 30, 32). Dolce amore. O dolce amor che di riso t’ammanti (Paradiso 20, 13). Amore e maraviglia e dolce sguardo (Paradiso 11, 77). L’irrinunciabile amore per la libertà. Libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta (Purgatorio 1, 71-72). La causa efficiente d’ogni retto agire. Amor mi mosse, che mi fa parlare (Inferno 2, 72). Quando la ‘sementa santa’ degenera. Fu fatto il nido di malizia tanta (Inferno 15, 78). Quando ciò che era nascosto viene conosciuto. Or quel che t’era dietro, t’è davanti (Paradiso 8, 136).

Chi tocca una molla tocca anche la sua contraria. La natura ci ha posto in una situazione tale per cui se mutiamo qualcosa da uno dei lati della bilancia, mutiamo anche dall’altro lato. Ciò mi fa pensare che ci siano nella nostra testa delle molle scattanti, disposte in modo tale che chi tocca l’una tocca anche l’altra. La realtà supera da ogni lato l’immaginazione. Si stancherà prima l’immaginazione di immaginare che la natura di fornirle oggetti. Tutto questo mondo visibile non è che un tratto impercettibile nell’ampio seno della natura. Nessuna idea si avvicina a tanto. Abbiamo un bel gonfiare le nostre concezioni al di là degli spazi immaginabili: non generiamo che degli atomi in paragone della realtà delle cose. È il maggior carattere sensibile della onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero. (Blaise Pascal)

UNA VITA CHE SOPRAVANZA IL PENSIERO. Le interpretazioni del pensiero e della personalità di Socrate da Platone a Kierkegaard, da Hamman a Romano Guardini mi hanno sollecitato sempre di nuovo a interrogarmi sulla missione storica del grande ateniese e sulle fonti, in cui occorre tuffarsi per rivivere esistenzialmente una situazione, un dramma, un messaggio. Sarei felice se i lettori scegliessero come prima, affascinante guida alla scoperta di Socrate il bel libro di Romano Guardini, La morte di Socrate, più volte ristampato dalla Morcelliana. Dall’opera del pensatore italo-tedesco, Socrate ci viene incontro attraverso una penetrante, rigorosa lettura dei dialoghi platonici in cui la voce del Maestro è più idonea a spiegarci la grandezza della sua testimonianza di vita: Apologia, Eutìfrone, Critòne, Fedòne. Perché Socrate è appunto uno di quegli uomini, rarissimi, in cui il vivere sopravanza il pensare, a tal punto che è lecito porsi la domanda: quale fu il suo «segreto»?

IL SOCRATE DI BERGSON. Nel suo ultimo capolavoro, Le due fonti della morale e della religione, Henri Bergson ha scritto pagine memorabili su Socrate e si è accostato al suo «segreto» forse come nessun altro. Accenno ad alcuni passaggi essenziali. Gli stoici, nota il filosofo francese, ci hanno dato molti begli esempi, ma non sono riusciti a trascinare con sé l’umanità, come ha fatto il cristianesimo, che si è propagato di anima in anima come un incendio. Ebbene, per trovare un’emozione creatrice di vita nuova nell’antichità classica non bisognerà rivolgersi agli stoici, ma a Socrate.

«Socrate pone al di sopra di tutto l’attività della ragione e più specialmente la funzione logica dello spirito. Egli ci ha insegnato a sottoporre ogni opinione alla prova del dialogo e dal dialogo come egli lo praticava è nato il metodo filosofico che pratichiamo ancora oggi. Mai la ragione è stata posta più in alto. Ecco perlomeno quello che colpisce a un primo sguardo».

Ma esaminiamo Socrate più da vicino. Egli insegna perché l’oracolo di Delfo ha parlato. Ha ricevuto una missione. È povero e deve restar povero. Un «démone» gli fa sentire la sua voce quando è necessario un avvertimento. Dinanzi al tribunale popolare afferma che «è meglio obbedire a Dio che agli uomini» e che la sua stessa esistenza è stata «un dono di Dio per Atene». «In breve, è questa la tesi di Bergson, la missione di Socrate è di ordine religioso e mistico: il suo insegnamento, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione».

Si è detto che egli aveva riportato la filosofia dal cielo, oggetto di ricerca naturalistica, sulla terra; ma egli ha aiutato l’umanità come pochi altri spiriti eletti a incontrare Dio nella interiorità della coscienza, con l’assoluta certezza che «la sorte del giusto è nelle mani di Dio». Ha lasciato ad altri indagare «il cielo» e ha rivelato all’uomo il suo incoercibile bisogno di «Cielo», cioè di vivere e morire dinnanzi a Dio. Nella misura in cui Socrate ha aperto con le sue intuizioni, Bergson dice «esplosioni», il passaggio a una nuova visione dell’esistenza, testimoniata eroicamente dal suo destino personale, la sua vita e la sua morte non cesseranno mai di essere «un dono di Dio» anche per noi e per quanti verranno dopo di noi.

15 luglio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Santità e peccato. La santità diventa il segno della speranza, mentre il peccato è il termine fisso della nostra miseria (Carlo Bo). Riscoprire le proprie radici per rinnovarsi. Io sono una forza del passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati… / dove sono vissuti i fratelli (Pier Paolo Pasolini. Parole poste sulla bocca di Orson Welles nel film La ricotta). L’Italia deve ricostruire la sua unità nazionale. Una nazione che ricominci la sua storia, ridà prima di tutto agli uomini l’umiltà di assomigliare con innocenza ai padri. La tradizione è una grandezza che si può esprimere in un gesto. Mille padri lo videro e, attraverso loro nei secoli, è diventato puro come il volo di un uccello, elementare come il moto di un’onda. Ma solo la Rivoluzione salva il Passato (P.P. Pasolini).

BERLINGUER UNO E DUE. Nove anni fa, 1’11 giugno del 1984, moriva Enrico Berlinguer, in Piazza delle Erbe a Padova, durante un comizio. Come lo ricorda uno come me, attento certamente all’evoluzione del mondo comunista ma fermo nel rifiuto dell’ideologia marxista-leninista e del regime dittatoriale in cui essa si incarnava?

Piacevano in Berlinguer l’aperta sensibilità per la questione morale, la denuncia dell’occupazione dello Stato operata dai partiti di governo, gli appelli ad arrestare il processo di degradazione della politica. Né fu piccola la speranza che destò nei democratici sinceri lo «strappo da Mosca», la coraggiosa ammissione che ogni spinta propulsiva era cessata nel Paese Archetipo del comunismo. Occhetto ha fatto conoscere anche un particolare interessante: già nel 1974 il leader, in una conversazione svoltasi in Sicilia, gli avrebbe confidato di voler cambiare nome al Pci, in qualche modo prefigurando quello che, in un ben diverso contesto storico, è accaduto nell’89.

Rimane tuttavia qualcosa di irrisolto e aggrovigliato nel pensiero e nell’azione di Berlinguer. Io penso che il suo grande tormento sia stato tenere insieme, in nome della permanente riaffermazione dell’identità comunista (il dogma che da solo bloccava ogni reale spinta innovativa), cose che insieme non potevano stare. Ad esempio: aperture pluralistiche e concezione leninista del partito; soluzioni statalistiche in economia e protesta contro l’asservimento dell’economia pubblica ai partiti che pure inevitabilmente ne conseguiva. E ancora: adesione conclamata alla democrazia, di cui il Pci berlingueriano voleva essere il garante per antonomasia, e nello stesso tempo aperta e mai smentita adesione alla dottrina leninista dello Stato. «Siamo e restiamo leninisti» giurò Berlinguer nell’estate del 1978 a Genova; e Lenin è il capofila del totalitarismo comunista; non certo un pensatore e uno statista democratico.

LA POESIA SALVA LA VITA. 1. Occorre dissipare finalmente un equivoco: niente è più concreto o meno astratto della poesia. La poesia è come un paio di occhiali da infilare con attenzione per vedere, della realtà, quello che di solito non vediamo. A questo riguardo siamo tutti un po’ miopi. 2. In una società che tiene sempre più conto dell’utile, l’inutilità della poesia appare sempre più indispensabile. 3. Chi ha interesse a sfruttare gli altri uomini e li considera non persone, ma merci, può ricorrere anche a mezzi più subdoli, come contraffare la poesia con qualcosa che le assomiglia. Perciò imparare a riconoscere la voce della poesia può anche aiutarci a non farci usare. A irrobustirci contro le frasi fatte, gli slogan, i tentativi di lavaggio mentale, qualsiasi tipo di ideologia. 4. Senza emozione l’intero mondo dell’arte si spegne e il telone cala su un palcoscenico vuoto. Tanto più dobbiamo avere cara la nostra capacità di emozione e non permettere che niente ce la tolga: imparare a farne l’uso migliore potrà cambiare la qualità della nostra vita (Donatella Bisutti, La poesia salva la vita, Milano 1992).

22 luglio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il peso necessario delle cariche pubbliche. Molti rifiutan lo comune incarco (Dante Alighieri, Purgatorio 6, 133). La luce che rischiara e slarga l’orizzonte. Per guisa d’orizzonte che rischiari (Paradiso 14, 69). A quei cristiani che credono di avanzare mentre retrocedono. O superbi cristiani, miseri lassi, / che, de la vista della mente infermi, / fidanza avete ne’ rètrosi passi… (Purgatorio 10, 121-123). Nessun uomo è spiritualmente auto-sufficiente. La fede, sanza la qual ben far non basta (Purgatorio 22, 60).

Il nostro vero stato: il mezzo tra due estremi. Limitati in tutti i modi come siamo, questo stato che rappresenta il mezzo tra due estremi si ritrova in tutte le nostre facoltà. I nostri sensi non percepiscono nulla di estremo. Il troppo rumore ci assorda, la troppa luce ci abbaglia; la troppa distanza e la troppa vicinanza impedisce la vista; la troppa lunghezza o la troppa brevità del discorso lo rende oscuro. E così il piacere eccessivo causa disgusto, troppe consonanze spiacciono nella musica… Insomma le qualità eccessive ci sono dannose, le cose estreme sono per noi come se non esistessero, e noi non esistiamo nei loro confronti (Blaise Pascal).

Preziosità del tempo. Vi è un solo modo per dimenticare il tempo: servirsene. Ispirazione e quotidianità. L’ispirazione è la sorella del lavoro quotidiano. La fuga che ci fa miseri e l’apertura che ci fa grandi. E fuggite l’infinito che portate in voi. Da ogni finestra non vedo che infinito. (Charles Baudelaire)

CHI FU FRANZ JOSEPH? Franz Joseph è colui che, con il lunghissimo suo regno e il ruolo che si assegnò di primo funzionario dello Stato, giunse a identificarsi con l’idea dinastica della casa d’Austria. Pedante, burocratico, ligio al dovere, ma non tiranno, freddo ma non feroce. Instancabile nel voler tutto controllare e amministrare, in politica aveva fatto dell’inazione l’insegna dell’impero austro-ungarico. Quieta non movere, mota quietare era il suo motto. E quando dovette agire, prendere decisioni gravi, non ebbe affatto la mano felice. Come in quel 28 luglio 1914 quando entrò in guerra, avallando i calcoli sbagliati dei suoi generali, e portò alla disgregazione uno Stato multinazionale di cui l’Europa aveva ancora bisogno. Chi fu, dunque, Franz Joseph? Qualche tempo dopo la sua uscita di scena, se lo chiese in una lucida, incalzante poesia Karl Kraus. Eccone il testo nella bella traduzione di Armando Deidda (Poesia tedesca del Novecento, Torino 1990).

«Com’era? Era stupido? Era accorto? / Che sentimenti provava? Gli avrà fatto veramente piacere? / Era un corpo? Era solo un vestito? / C’era un’anima in quei panni sontuosi? / Il Paese lo plasmò? Plasmò lui il Paese? / Chi lo conobbe l’avrà anche conosciuto? / Portava una faccia o una barba? / Donde veniva e da quale specie? / Che cosa gli fu risparmiato se non il modo stesso di essere? / Era il personaggio o soltanto l’effige? / Fu tanto crudele quanto fu mite a causa dell’età? / Contava i caduti come la selvaggina abbattuta? / Avrà riflettuto o rischiato a cuor leggero? / Avrà afflitto anche se stesso, non solo il mondo? / Voleva la guerra? C’era in lui un’ombra / d’amore e di morte e dell’umana sofferenza? / Giammai più forte impresse al suo tempo / la propria immagine l’impersonalità».

NON C’È UMORISMO, MA IL COMICO NON MANCA. Uno degli aspetti del nostro tempo è che si ride sempre di meno o non si ride affatto. E la cosa fa molta impressione; se si considera che i più colpiti da questa mancanza del riso sono soprattutto i giovani. Da noi è merce assai rara l’umorismo e ancor più l’ironia; abbondano, invece, il sarcasmo e la falsa, ignobile serietà di chi vuol coprire con grandi parole affarismo e marciume. Si dirà: non c’è umorismo nella nostra tradizione letteraria e forse anche nel nostro costume, ma il comico non è mai mancato. Noi non abbiamo un Molière o un Cervantes, ma Arlecchino, Brighella e Pulcinella. Non abbiamo Don Chisciotte tra noi, ma disponiamo di Sancho Panza. «La comicità italiana, nota col solito acume Saverio Vertone, é sempre stata il contrario di quella di Molière, che esplora gli scambi segreti tra egoismo e decoro, e di quella di Cervantes, magistrale nel mettere a nudo la malinconica distanza che separa le illusioni dalla realtà. La nostra comicità è compiacimento per i modi con cui l’egoismo riesce a imporsi ed è pertanto esaltazione dell’astuzia».

Entro quei limiti non sono mancati, però, apporti di alto livello: da Totò a Franca Valeri, da Walter Chiari allo stesso Dario Fo, almeno quando affonda il suo pungiglione senza propagandare la sua mitologia politica. E oggi? L’unica comicità di cui disponiamo non è né intellettuale, né popolare, né plebea, ma del tutto involontaria. È la comicità che ci viene regalata, attraverso la televisione ed anche attraverso i giornali, dai gesti e dalle dichiarazioni di quel mondo ufficiale vuoto e arrogante che crede ancora di darcela da bere.

30 luglio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Meglio essere pronti. Hai fatto una buona azione? Non pentirtene, anche se prima o poi ne riceverai la punizione (Sam Quilleri). Non c’è dubbio. Meglio, infinitamente meglio il Discorso della Montagna che una… montagna di discorsi (Giulio Cittadini). Primavera verrà. Rondine in te / s’agita e canta… / La primavera a festa ella vorrebbe / e verrà, / come dice anche il tuo cuore, / verrà, / per te, per me, / e per tutti gli uomini del dolore (Giovanni Testori). Il dubbio. Classe dirigente o non piuttosto, visto il sistema di sommo latrocinio che hanno creato in Italia, classe digerente? (Levi Appulo). Il compito della Chiesa nell’età moderna. Occorre demolire gli artificiosi muri d’angoscia che la Chiesa aveva innalzato attorno a sé contro il mondo. La Chiesa si libera, riscoprendo e riassumendo la sua propria missione in ordine al mondo tutto intero e indiviso (Urs von Balthasar). Se ti infastidisce… Dio non lo puoi credere davvero morto, se ancora ti dà noia (Carlo Bo).

Ad ogni cosa la sua forma. Trova ad ogni cosa la sua forma. Che il pensiero miri alla conclusione, che la tua parola esprima il tuo pensiero; finisci le tue frasi, i tuoi gesti, le tue letture. Mezzopensiero, mezza-parola, mezza-conoscenza, triste cosa. La dissipazione. Per la tua vita interiore la dissipazione è il tuo scoglio. Perdi di vista te e i tuoi piani, se credi interessante tutto quello a cui tu conferisci urgenza. (Henri-Frédéric Amiel)

TRA I CLASSICI «SENECA MORALE» E LE SUE «LETTERE A LUCILIO». Tra i grandi libri dell’umanità, quelli di cui dobbiamo nutrirci perché ricchi di verità e bellezza, occorre includere senza dubbio le Lettere a Lucilio di Lucio Anneo Seneca, che oggi possiamo leggere in edizioni economiche pregevolissime. Seneca è uno dei più alti pensatori della classicità. In lui si percepisce ancora, qua e là, il titanismo solitario del «saggio» stoico; ma non è affatto questo aspetto a colpirci e a farci simpatizzare con lui. A destare in noi una risonanza non facilmente cancellabile è qualcosa d’altro: l’appassionata richiesta, ad esempio, di un giudizio critico su se stessi e sui moventi del nostro agire; la consapevolezza delle ambivalenze della vita e del mistero umano; oppure la tensione eroica dell’uomo che si sa fallibile ad ogni passo ed esposto allo scacco e, tuttavia, non desiste dall’emendare e dal trasfigurare se stesso, né si stanca di giovare agli altri. Fine, penetrante nell’analizzare il gioco e la logica delle passioni, egli è forse il primo di quegli spiriti, della cui schiera faranno parte Agostino, Montaigne e Pascal, profondi nell’esplorazione dell’animo umano e implacabili nel denunciare quegli alibi e quelle maschere dietro cui l’io tenta di nascondersi a se stesso prima ancora di mentire agli altri.

La sua vita fu intensamente drammatica perché si svolse tra situazioni estreme. Seneca disponeva di enormi ricchezze e nello stesso tempo aspirava al più ascetico distacco interiore; godeva di un grande prestigio e possedeva un’eloquenza di rara efficacia ma ciò non lo mise al riparo da odi tenaci, dall’esilio e da una morte violenta. Aristocratico di grande raffinatezza, comprese, meglio di ogni altro tra i precristiani, l’ingiustizia e gli orrori della schiavitù. Denunciò come nessun altro l’alienazione dell’uomo, la vitae iattura (De brevitate vitae 9, 1), il continuo spreco che facciamo dell’esistenza e giudicò la possibilità di riuscire a non muoversi e a stare con se stessi (posse consistere et secum morari, Ad Luc. 2, l) come il primo indizio di una mente equilibrata e di una volontà che intenda sottrarsi alla dispersione e al conformismo Nello stesso tempo avvertì la responsabilità del potere e accettò il rischio di far politica, impegnandosi a servire il bene comune finché gli fu possibile e, poi, a risparmiare il peggio alla città; e quelle scelte pagò con la vita.

Seneca è filosofo nel senso pieno della parola perché la sua ricerca affronta tutti i grandi temi che specificano ogni autentica interrogazione sul senso della vita. L’orizzonte da esplorare è dunque ampio e Seneca pensava, con ragione, che se l’uomo vietasse a se stesso di porsi quelle domande e di cercarne le risposte più razionali, o meno inadeguate, nello stesso istante rinuncerebbe ad essere uomo; allora sì, verrebbe voglia di dire: «Non valeva la pena di venire al mondo» (nisi ad haec admitteter, non tanti fuerat nasci, Questiones naturales, praef. 4).

Tuttavia il punto di vista a cui la ricerca è finalizzata, ciò che meglio caratterizza l’opera di Seneca sta nel primato che egli consapevolmente conferisce alla vita morale, in piena sintonia con Socrate e con Zenone, prima di lui, e dopo con Immanuel Kant e Antonio Rosmini. Dante, dunque, vide giusto e non espresse affatto un giudizio limitativo quando, nel consacrare la grandezza del pensatore di Cordova, lo pose nell’anti-inferno tra gli «spiriti magni», dei quali diceva «del vedere in me stesso n’esalto», e ne segnò per sempre la fisionomia e la funzione storica in due sole parole, chiamandolo «Seneca morale» (Inf. IV, 141).

TROVERÒ ACCOGLIENZA PRESSO I POSTERI. Le Lettere a Lucilio sono tali da indurre il lettore attento a proseguire per proprio conto, come capita per i Pensieri di Pascal, il movimento a cui l’Autore ha dato la spinta iniziale. Seneca giunse a scrivere all’amico Lucilio: «Io mi occupo ormai degl’interessi dei posteri» (posterorum negotia ago, Ad Luc. 8, 2) e «parlo con i posteri» (cum posteris loquor, Ad Luc. 8, 6). Egli confidava con tutta l’anima nel dialogo a distanza, nella libera comunicazione degli spiriti attraverso il libro, nella potenzialità maieutica dei suoi scritti per il risveglio delle coscienze all’amore «contumace» della verità e del bene.

Habebo apud posteros gratiam. «Troverò accoglienza presso i posteri!» (Ad Luc. 21, 5). Fu questa la speranza che illuminò l’intensa fatica degli ultimi anni, quando ormai era da attendersi qualsiasi infamia da un potere divenuto dispotico e sanguinario. L’umanità finora gli ha dato ragione. Seneca merita quanto ebbe a sperare. Anche oggi egli può diventare per ognuno di noi un incomparabile compagno di viaggio, un amico con cui conversare, un maestro. Pochi come lui, infatti, possono aiutarci a ritrovare la coscienza dell’universalmente umano, cioè di quei valori senza i quali il vivere non è più un vivere da uomini.

12 agosto 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Rimane merce rara. Il rapporto profondo che intercorre tra la preghiera e la poesia, da Francesco d’Assisi a Ungaretti, è lì sotto i nostri occhi, se i nostri occhi non sono accecati da pregiudizi per cui la creazione non sarebbe più veramente artistica se religiosamente ispirata e mossa. Oggi questi veti ridicoli sono caduti; rimane, però, una cosa rara, e dunque preziosa, leggere opere che siano di autentica poesia religiosa, in cui la sincerità di un sentimento profondo e il rigore di un’alta visione della vita si facciano immagine, ritmo, musica. Straziante amarezza. Camminare coperto da uno spegnitoio, nascondere sempre il proprio talento, dire sempre di sì a chi dispone del tuo pane o della tua reputazione è una malinconia, una degradazione, un supplizio. Ma chi quel supplizio impone in quale cerchio dell’Inferno lo porrebbe il padre Dante? L’obbedienza o la verità? Non l’obbedienza in quanto tale, ma la verità rende liberi. È liberatrice solo l’obbedienza alla verità. (Levi Appulo)

IL PASOLINI «VERO». In Pasolini si sovrappongono dolorosamente il cliché del poeta «maledetto» e dell’immoralista, da una parte, e la vibrante protesta contro ogni depauperamento dell’uomo nella società d’oggi, dall’altra. Forse in nessun altro scrittore come in lui convivono la ribellione alla tradizione religiosa e insieme la sua appassionata difesa, il cedimento al torbido e il richiamo ai valori più alti, il coraggio di non accodarsi alle stolte illusioni dominanti, la determinazione a non lasciarsi «omologare».

Perché tacerlo? Pasolini degli ultimi dieci anni della sua vita, quelli che vanno dal 1965 al 1975, noi lo abbiamo sentito vicino tante volte nel suo confrontarsi provocatorio e irriducibile con le certezze mitologiche sia della Sinistra, sia della società consumistica ermeticamente chiusa alle sole cose che dovrebbero contare. Come dimenticare i suoi interventi «corsari» sul Corriere della Sera, brevi scritti sferzanti tesi a individuare le malattie che avrebbero portato allo sfascio il nostro Paese? Malattie che per lo scrittore friulano erano essenzialmente tre: l’influenza capillare, atmosferica, estremamente nefasta di una forma mentis consumistica, che trova nella televisione il suo strumento più micidiale; la vergognosa fuga della scuola, ed in particolare di quella dell’obbligo, dalle sue responsabilità educative; l’indegnità di una classe politica, la cui pratica di potere gli appariva cinica, priva di slancio, radicalmente estranea ad ogni autentica ispirazione cristiana. Una classe politica che, elevando a sistema la corruzione, svuotava le coscienze e le istituzioni della Repubblica, prima ancora che le casse dello Stato. Tra gli esiti più deleteri della crisi etico-politica Pasolini non esitava a mettere al primo posto l’accettazione generalizzata da parte dei giovani di un modello di condotta fatto di «insolenza, disumanità, spietatezza». Un modello coniugabile sia con le chiacchiere ideologiche, sia con l’insensibilità consumistica.

«OH GENERAZIONE SFORTUNATA!» C’è una composizione, La poesia della tradizione, in cui Pasolini denuncia con profonda tristezza il disancoraggio dei giovani dalla grande tradizione culturale e religiosa, disancoraggio questa volta professato «in nome della Causa». Chi darà più a quei giovani ciò di cui sono stati derubati, quell’esperienza dell’umano di cui avevano assoluto bisogno per diventare pienamente se stessi e farsi autentici promotori di umanità negli altri? E dove può portare un simile impoverimento se non alla triplice degradazione di «insolenza, disumanità, spietatezza»?

Ecco alcuni passaggi tra i più incalzanti e commossi di quella poesia. «Oh generazione sfortunata! / che nell’inverno del ‘70 usasti cappotti e scialli fantasiosi / e fosti viziata. / Ti si insegnò a non sentirti inferiore, / a rimuovere le tue incertezze divinamente infantili: / “Chi non è aggressivo è nemico del popolo!” / I libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi / come oggetti di un vecchio nemico / sentisti l’obbligo di non cedere / davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate, / fosti in fondo votata ai buoni sentimenti… / Venisti al mondo, / e vi trovasti chi rideva della tradizione, / e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda, / erigendo barriere giovanili… La gioventù passa presto; oh generazione sfortunata, / arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia / senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere / e che non si gode senza ansia e umiltà / e così capirai di aver servito il mondo / contro cui con zelo “portasti avanti la lotta”. / Vi troverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita. / La lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere; / irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti / e di aggressività disperata / passaste una giovinezza / e, se eravate intellettuali, / non voleste dunque esserlo fino in fondo, / mentre questo era poi fra i tanti il vostro vero dovere, / e perché compiste questo tradimento? / per amore dell’operaio: ma nessuno chiede a un operaio / di non essere operaio fino in fondo. / Oh sfortunata generazione / piangerai, ma di lacrime senza vita / perché forse non saprai neanche riandare / a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto».

19 agosto 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Dire le cose bene. Si dicano pure cose meravigliose; se non si dicono bene, non contano nulla. Si dica poco, ma si dica bene ed è molto (Francesco di Sales). Lo scandalo nel Vangelo. È impossibile che non avvengono scandali (Vangelo di Luca). È necessario che avvengono scandali (Vangelo di Matteo). Maledetto colui da cui viene lo scandalo (Vangelo di Matteo). L’insondabile benignità di Dio. Dio vuole che ognuno sia salvo e che giunga alla conoscenza della verità (San Paolo). La prova dei giusti. La fornace mette alla prova i vasi del vasaio, la prova dei giusti è la tribolazione (Libro di Siracide). Ci vuole tempo, ma i farabutti alla fine sono giudicati per quello che sono. Le menzogne dovranno venire allo scoperto (Teodoreto di Ciro). Preferenza che intenerisce. I nipotini ai padri preferiscono, con nuovo affetto, i nonni e le nonne (Ausonio). Se potessimo meritare di dirlo ai nostri figli. Conserva la sostanza delle cose giuste che udisti da me: io ho custodito il buon deposito (San Paolo). Lui soltanto per primo. Io, che seguo soltanto Cristo come primo, mi unisco in comunione alla cattedra di Pietro (San Gerolamo).

LA STRAGE DEGLI INNOCENTI CONTINUA. A Sparta bastava essere un bambino fisicamente imperfetto per venir scaraventato giù dalla Rupe Tarpea. In Galilea, Erode il Grande ordinò la strage degli innocenti. Nel Colosseo, i bambini cristiani venivano dati in pasto ai leoni come e quanto i loro genitori. Nei campi di concentramento nazisti venivano eliminati per primi, visto che non si potevano usare per i lavori forzati. E il giorno in cui ad Amman chiesi a un capo guerrigliero palestinese se si vergognava del massacro compiuto dai suoi uomini facendo saltare in aria un pullman di ventisei bambini ebrei che si recavano a scuola, costui berciò: «Gli israeliani vanno ammazzati quando sono bambini. Così non crescono». Più o meno ciò che dovevano pensare i falangisti quando nel massacro di Sabra e Chatila uccidevano i neonati palestinesi facendoci il tiro al bersaglio. Quanto alla guerra vera e propria, uccide più bambini che adulti. E il motivo è duplice. Uno è che i bambini non si proteggono come gli adulti, stanno per strada anche quando infuria una sparatoria o un bombardamento. L’ho visto in Vietnam, l’ho visto a Beirut, e in qualsiasi guerra sia stata. L’altro è che, quando arriva una bomba, muoiono anche se non vengono investiti dalle schegge. Muoiono uccisi dallo spostamento d’aria che li fa schizzare via come fuscelli…E ora per i bambini bosniaci feriti, storpiati, mutilati nel corpo e nel cuore ci sono parole di conforto e di speranza? Deve essere possibile parlare loro di futuro. Il futuro è sempre una possibilità di bene e non bisogna mai negare a chi soffre e a noi stessi la speranza. Forse tra quei bambini mutilati ci sono un grand’uomo e una grande donna. Un grande poeta, o un grande scrittore, un grande musicista, un pensatore, un buon leader… Omero era cieco, Leopardi era gobbo, Pascal aveva la scatola cranica aperta e Roosevelt era storpio (Oriana Fallaci, Lettere ai bambini di Bosnia, La Stampa, 7 agosto 1993).

SOLIDARIETÀ VO CERCANDO. È apparsa nei giorni scorsi su alcuni quotidiani una pubblicità un po’ speciale. Si apre con queste parole. «Questo spazio è pagato dai pensionati per portare a conoscenza dell’opinione pubblica le rivendicazioni che hanno avanzato al Governo in materia di previdenza, sanità e casa. Nella società dell’informazione e della comunicazione le condizioni sociali e di vita di un quinto della popolazione italiana (i pensionati) non hanno, infatti, adeguata visibilità, non riescono a fare notizia…». Tutti sembrano dimenticare che i vecchi non sono una categoria, ma sono una fascia di età e che escluderli, significa escludersi prima o dopo. «In questo caso, annota Tito Cortese sul Corriere della Sera (3 agosto 1993), meno che mai la solidarietà può essere considerata un connotato emotivo, poiché è invece un elemento di razionalità. È dunque pericolosamente irrazionale la scelta di negare udienza a chi ha poche armi da far valere nello scontro degli egoismi». E non è solo questione di solidarietà. Ci sono grandi risorse, in quel quinto della nostra società che ha smesso di lavorare: risorse di competenza, di esperienza, di disponibilità. Possiamo davvero rinunciarvi, così alla leggera?

26 agosto 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La vera legge del progresso. Perché la legge del progresso esistesse, bisognerebbe che ognuno volesse crearla; cioè, solo quando tutti gli individui faranno il possibile per progredire, l’umanità sarà in progresso. Questa ipotesi può servire a spiegare l’identità delle due idee contraddittorie di libertà e fatalità. Non solo, in caso di regresso, ci sarà identità fra la libertà e la fatalità, ma questa identità esistette sempre. Questa identità è la storia, storia delle nazioni e degli individui (Charles Baudelaire). Se si volesse… Se si volesse, tutto sarebbe meraviglioso (Pau1 Eluard). Bagliore inatteso. L’ergastolo buio / salda la trama d’incessante ferro; / ma in un angolo del tuo carcere forse / c’è una dimenticanza, una fessura. / La via è tracciata, è quella della freccia, / nelle crepe Dio è celato e attende (Jorge L. Borges. Lo scrittore argentino era quasi del tutto cieco e ha descritto così le sue condizioni: «Fin dalla nascita il tempo minuzioso mi ha rubato le forme visibili del mondo… Invano interrogano i miei occhi esauriti le vane biblioteche e i vani leggii. L’azzurro e il vermiglio sono adesso una nebbia. Ogni specchio che guardo è una cosa grigia. Nel giardino aspiro la lugubre rosa della tenebra… E posso solo vedere per vedere gli incubi… Non so qual è la faccia che mi guarda quando guardo la faccia nello specchio»). Smetti di aspettare. Smetti di aspettare e di lamentarti, ma crea, forma e trasforma (Henri-Frédéric Amiel).

LADRI SPERGIURI E SUPERSTIZIOSI. Il prologo è sempre lo stesso. Quando un politico di rango riceve l’avviso di garanzia, si scandalizza dell’accaduto («non riesce a comprendere come mai…»), dichiara la sua «totale estraneità ai fatti e ai reati ipotizzati» e, naturalmente, si dice «a completa disposizione della Magistratura per ogni chiarimento». Ma di lì a qualche settimana, i De Lorenzo, i Martelli, i Formica, i Prandini, i Pomicino, i Bernini (sono ben quindici i ministri dell’ultimo governo Andreotti finiti sotto processo a non contare il presidente!) assumono toni ben diversi: si auto-definiscono vittime sacrificali di un oscuro disegno autoritario, del complotto dei «poteri forti» contro i politici, e soprattutto dell’«uso violento della giustizia». Lo spettacolo è francamente penoso perché manca del tutto a quei signori la dignità nella sconfitta e ancor più la forza di fare finalmente ad alta voce i conti con sé stessi e con il Paese. Ci sono persino quelli che, malgrado la pesantezza e la molteplicità dei reati di cui sono chiamati a rispondere, cercano ancora di darcela da bere, aggiungendo all’arroganza sprezzante e al cinismo ostentato fino a ieri l’esibizione di una fede che dovrebbe di per sé, al di là delle risultanze giudiziarie, garantire l’onestà immacolata della loro vita e il carattere esclusivamente miracoloso della moltiplicazione dei miliardi nelle loro tasche, nonché in quelle dei loro congiunti e prestanome. Così, nella ricerca di impossibili alibi, la menzogna autodifensiva si fa spergiuro, oltraggio alle cose più alte.

Chi però ha coniugato con incredibile disinvoltura intrallazzo con gli uomini e intrallazzo con Dio è stato Cirino Pomicino. Infatti, a quanto asseriscono i giudici, l’ex-ministro già in fase di pattuizione del pizzo disponeva che alcune tangenti minori fossero direttamente versate a preti e religiosi, ma ad una precisa condizione: che… pregassero per la sua salute, per la sua carriera, per la riuscita dei suoi affari. Che cosa dire? Affido il commento a un pensiero di Baudelaire, che si intitola Dio e la sua profondità: «Si può non essere privi d’intelligenza e cercare in Dio il complice e l’amico che fanno difetto sempre. Dio è l’eterno confidente in questa tragedia di cui ognuno è l’eroe. Ci sono forse ladri e assassini che dicono a Dio: “Signore, fate che la mia prossima operazione riesca?”. Ma la preghiera di tale gentaglia non guasta l’onore ed il piacere della mia» (Diari intimi).

POETI ITALIANI DEL NOVECENTO. Riposante pensiero. Raggiunta la fama / e gli onori / talvolta / la vita travolge. / Che gioia / essere un nulla. / Essere un umile stelo / di un prato fiorito / che il vento trastulla (Lieo Grassi).

Il rosso innamorato dei papaveri. Ardito fiore e timido, / mia recondita gioia, / persino dalle crepe nel cemento, / più forte della morte, / ad ogni costo esplode il tuo colore. / Il rosso fuori crepita e divampa, / per poco ancora, d’innocente ardore. Gli inopinati lampi di reale. Oltre i fili invisibili che intesso / passa ogni cosa come se non fosse: / solo frammenti minimi trattengo, / bagliori, epifanie, gocce d’essenza. / Questi i segnali certi, / gli inopinati lampi di reale, / che in ogni accanimento / e in ogni cosa e in ogni volto o gesto, / che solo a me fa cenno, / attendo e scruto / e nel mio buio accolgo. (Piera Simeoni)

2 settembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Chiaro e netto. Una democrazia senza valori si trasforma in totalitarismo dichiarato o ipocrita (Giovanni Paolo II). L’avamposto del vecchio regime e la scellerata intesa. Che dentro i Servizi segreti, dove accanto a persone per bene ci sono persone che perbene non sono, tutta l’attività sia costantemente coperta dal segreto, ecco ciò che offre una garanzia all’illecito. Con l’aggravante che è l’autorità politica che sola decide se proteggere o togliere il segreto in ogni singolo caso. Era quindi inevitabile che si venisse a stabilire una sorta di patto, di negoziato tra i vertici dei Servizi e chi rappresentava, nella sua reale continuità, il vertice politico. Un patto, è inutile dirlo, indecente (Dichiarazione del presidente dell’Antimafia, Luciano Violante, rilasciata il 4 giugno 1993). La testimonianza della figlia di Ezra Pound. Mio padre sapeva quanto lenta e difficile fosse l’opera bella. Agli artisti diceva: ricordate che siete l’occhio di Dio (Mary de Rachewiltz). Alcune idee-forza su cui far leva per il futuro dell’Europa. Democrazia in politica, economia di mercato senza monopoli e senza intrusioni statalistiche, entrambe animate da quei principi etici che sono il retaggio del Cristianesimo. Le due forme di santità cristiana nei secoli XIX e XX. Due sono le forme di santità cristiane negli ultimi due secoli. L’una la si riconosce, anche se a distanza di tempo, dalla testimonianza resa al Vangelo e dal bene irradiato. L’altra vive il dramma della scristianizzazione ed insieme quello della insostituibilità della fede in Cristo. Questa seconda santità nasce dalla violenza dei combattimenti sostenuti per non farsi vincere dalla Grazia che, dappertutto respinta nell’indifferenza e nell’irrisione, invade le loro anime fino a traboccarne. Non fu questo il destino di Van Gogh e di Rimbaud? (Levi Appulo)

UN SENTIERO VERSO L’ITALIA CHE VERRÀ. In democrazia i cittadini, si dice, hanno lo scettro nelle loro mani perché votano; ma poi l’egoismo corporativo si manifesta, si consolida e si scatena attraverso le organizzazioni di categoria e coloro che ne fanno le spese, i malcapitati, sono proprio nella grande maggioranza i titolari della cosiddetta «sovranità», in primo luogo i più deboli, quelli che sono sforniti di forza contrattuale. Come uscire da una situazione che, collegata ad altri fattori di illegalità, ha prodotto, da una parte, pessimi servizi e, dall’altra, vere e proprie vessazioni per quelli che devono farvi ricorso? In molti modi evidentemente, il primo dei quali sta nella riscoperta, e non solo da parte dei sindacati, dell’etica del lavoro e del primato del bene comune, che consiste in modo concreto nel riconoscimento pratico della dignità dei cittadini.

In questa direzione si muovono i due documenti diffusi il 6 agosto 1993 dal ministro della Funzione Pubblica Sabino Cassese. Il primo indica come il ricondurre all’efficienza la pubblica amministrazione che in Italia è ultraburocratica, lentissima, e perciò inevitabilmente improduttiva, irrispettosa degli utenti. Essa è, inoltre, frammentata in veri e propri corpi separati e nello stesso tempo ipertrofica, cioè affollata da megadirigenti e da una massa considerevole di impiegati mal distribuiti. Bisogna cominciare dall’alto (una dozzina di ministri sono più che sufficienti al posto dei trentuno dei Governi De Mita e Andreotti); occorre eliminare la prassi «scaricabarile» per cui nessuno in Italia è veramente responsabile di ciò che passa per le sue mani; cancellare per sempre la vergogna dei «tempi geologici» per l’ideazione e l’esecuzione di un progetto con l’evidente moltiplicarsi dei disservizi e dei costi. Scrive Sabino Cassese: «La moltiplicazione delle strutture, delle procedure e delle regole costituisce un costo occulto e finisce con l’essere, spesso, uno schermo dietro il quale si nascondono inefficienza e corruzione».

Il secondo documento si intitola in modo inequivocabile «Codice di comportamento dei dipendenti pubblici» e detta regole ben precise, che sarebbero ovvie se non fossero state messe sotto i piedi sistematicamente dal regime partitocratico: ad ogni posto si accede per concorso; principio della mobilità volontaria e obbligatoria; niente consulenze superpagate, attraverso cui si dà parvenza legale alle mazzette; divieto di utilizzare a fini privati qualsiasi strumento di lavoro, dal telefono alle auto blu; dichiarazione dei redditi dei dirigenti a disposizione del pubblico; il dirigente che venga da un’azienda privata non può per cinque anni prendere decisioni che riguardino quell’azienda.

Cassese in tre-quattro anni potrebbe attuare una riforma così necessaria, che ha valore addirittura preliminare rispetto a tutte le altre; ma un uomo di quelle competenza e dirittura, concluso il ciclo del governo Ciampi, chi ce lo darà più? Il nostro timore è che alla Funzione pubblica torni se non il vecchio e screditato Remo Gaspari, uno dei suoi eredi. In tal caso continueremo certamente ad avere ancora i rituali «incontri» con le rappresentanze sindacali di categoria, ma non la riforma della Pubblica amministrazione in programma da quattro decenni.

NON E’ PIÙ GRATITUDINE, MA COMPLICITÀ. «Chi viola le leggi della vita associata e dello Stato, con ciò stesso recide ogni eventuale legame di gratitudine che altri possano avere nei suoi confronti. Se egli mi avesse fatto del bene, coprendomi di onori e prebende, e poi io venissi a sapere che ha lavorato a mandare in rovina la mia patria, ebbene allora avrebbe immediatamente perduto il diritto, che si era meritato, alla mia gratitudine. Anzi, in quella circostanza, manifestargli ancora gratitudine da parte mia sarebbe addirittura un delitto» (De Beneficiis VII, 19, 9). Così la pensava, uno dei grandi pre-cristiani, Lucio Anneo Seneca (2 a.C. – 65 d.C.). Un pensatore e un cittadino che aveva, evidentemente, un alto senso dello Stato e una limpida coscienza morale. Le cose che, a quanto pare, più scarseggiano oggi nel nostro Paese.

9 settembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. A ciascuno la sua parte. Dio ha raccomandato a ciascuno il suo prossimo (Libro di Siracide). La semplicità dei giusti. La semplicità dei giusti sarà la loro guida (Libro dei Proverbi). La resina del passato. Nel far politica ci si rifà di continuo a categorie e moduli del passato. Si dimentica che già di per sé la politica, se non è quella di un Cavour o di un De Gasperi, è sempre in ritardo sulla realtà in movimento (Levi Appulo).

Affinità profonda. Se ci fu una ricerca, per me almeno, fu quella di dir le cose col numero minore che fosse possibile di parole; di qui l’amore per l’aforisma, per il bon mot, per l’arguzia, e in certi momenti di follia, lo sforzo per una espressione che prendesse a modello il telegramma. Operaio della cultura. Operaio sono e operaio tengo a restare. Ma anche per fare l’operaio sul serio, l’operaio contento, soddisfatto del proprio lavoro, l’operaio che ha l’orgoglio del proprio vestito e dei propri strumenti, occorre una fede. (Giuseppe Prezzolini)

La forza del cristiano. Questa è la forza del cristiano, sapere che le sue forze non bastano. Un sano spirito di dimissione. Da qualche anno la Chiesa ha cercato di sciogliersi dai legami più stretti con la politica, e ci auguriamo che continui a irrobustire in sé questo spirito di dimissione mondana e politica. (Carlo Bo)

NEL NOME DELL’AUDIENCE. «Provate ad osservare uno di quei dibattiti in cui tra lazzi e sberleffi si discutono cose serie, come il deficit pubblico, il taglio delle pensioni o l’assassinio di Falcone. Dovrebbero confrontarsi opinioni, e invece si scontrano parole, sfumate o tronche, che non fanno un concetto. Non si fa in tempo a sentire una frase che l’anchorman, preoccupato della noia incombente, toglie la parola a chi la pronuncia, per passare a un’immagine. E non si fa in tempo a vedere l’immagine (i rottami di Capaci, ad esempio) che il regista, preoccupato della sua persistenza sulla retina, la sfuma per ridare la parola a qualcuno; al quale l’anchorman la toglierà immediatamente, per darla a un altro, che la perderà subito a favore di un terzo. Dopo tre sillabe pronunciate di seguito dalla stessa persona, la faccia del presentatore dà segni di inquietudine e il suo braccio destro comincia ad alzarsi come una ghigliottina che si prepari a troncare la desinenza e a farla rotolare gorgogliante nel panel dell’Auditel. Forse si crede che i telespettatori si compiacciano di veder cadere le teste e le code delle parole. O forse qualcuno si è convinto, negli attici delle Reti e dei Canali, che sessanta minuti di noia diversificata facciano un’ora di divertimento o di informazione» (Saverio Vertone, Nel nome dell’audience: l’ultima divinità del conformismo di massa, Il Mulino, 1, 1993).

È difficile dire se la Tv italiana raccolga o produca la spazzatura che trasmette. È sicuro però che ha modificato gli impianti della Nettezza urbana. Infatti, in nessun Paese del mondo l’immondizia viene scaricata direttamente nei tinelli, nelle cucine e nelle camere da letto. Da noi ci sarà magari più spazzatura. Ma per smaltirla altrove ci sono le pattumiere, qui la Tv.

L’AUTORIDUZIONE ESEMPLARE E QUELLA CHE NON C’È MAI STATA. Renato Cassaro, dal 1991 presidente della Innocenti Santeustacchio e amministratore delegato della Iritecna, ha scritto una lettera agli oltre cento presidenti delle aziende controllate per invitarli ad auto-ridursi gli emolumenti. Lui lo aveva già fatto e in modo esemplarmente drastico. In una precisazione a Repubblica (6 agosto 1993) dichiara inoltre di non aver mai voluto in dotazione telefonini o autoblu.

Quando avremo la ventura di vedere i nostri rappresentanti in Parlamento prendere una decisione analoga a quella di Renato Cassaro? Nei quarantasette anni della Prima Repubblica, che io ricordi, non è mai successo, e me ne duole, pensando ai gravi sacrifici che invece sono stati più volte richiesti ai cittadini onesti che pagano le tasse. Mi auguro che un atto del genere faccia finalmente da prologo all’attività del prossimo Parlamento con cui avrà inizio la Seconda Repubblica. Chi non ha né la sensibilità morale né il fiuto politico per capire l’importanza e l’efficacia educatrice di certi gesti, non ha diritto ad avere un posto nel cuore della gente.

16 settembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Perché tanti non sanno comandare. Chi non ha fatto altro che obbedire, non saprà comandare (Pierre Corneille). Credere e agire. Credete in ciò che fate, fate ciò in cui credete (Robert Barth). Uno sberleffo all’arrivismo. A Napoli occorre segnalare tra le numerose associazioni il Cidar, che sta a significare Comitato Individui senza Alcuna Raccomandazione (Nantas Salvalaggio).

L’itinerario. Partecipi della divina natura, mettete ogni impegno per aggiungere alla fede la virtù, la conoscenza, la pietà, l’amore fraterno, la carità. In questa tenda del corpo. Lo credo giusto, finché sono in questa tenda del corpo, di tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda. Vorrei che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di esse. È impossibile non essere angustiati. È impossibile non essere angustiati dal comportamento immorale di così grandi scellerati. Per ciò che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, Lot si tormentava ogni giorno nella sua anima per tali ignominie. (San Pietro)

Il lusso non tassato. Riflettere è l’unico lusso che non sia tassato. Quando uno è classico. Classico è chi ha il gusto della verità. Che cosa è l’ordine? L’ordine è il nome sociale della bellezza. (Abel Bonnard)

RIPENSARE LA NOSTRA IDENTITÀ NAZIONALE. Una nazione può cessare d’esserlo. La nazione, infatti, non è una struttura statuale fusa e indistruttibile. Non è neppure un dato etnico disancorato dalle sue forme politiche storiche. «La nazione democratica, in particolare, è una costruzione sociale delicata e complicata, fatta di culture e storie condivise, di consenso manifesto e corrisposto, basato sulla reciprocità tra i cittadini. È un vincolo di cittadinanza, motivato da lealtà e da memorie comuni. Soltanto attraverso quell’intreccio di motivi e di legami si instaurano rapporti politici che possono dirsi democratici. Soltanto così si crea l’intelaiatura istituzionale di una ‘nazione di cittadini’». Con queste riflessioni si apre una delle opere di cui il nostro Paese ha urgente bisogno per progettare, dopo la fine ingloriosa della Prima Repubblica, il suo nuovo Risorgimento con la consapevolezza e il coraggio necessari alla gravità dell’ora. Quel libro l’ha scritto Gian Enrico Rusconi e s’intitola Se cessiamo di essere una nazione. Lo ha pubblicato di recente Il Mulino di Bologna.

Da anni in questa rubrica abbiamo ricordato che anche a causa di una cattiva politica, possono essere condotti a morte non solo i partiti, ma anche gli Stati e le nazioni. Quando, infatti, la politica produce inefficienza e corruzione, allora si intaccano i vincoli stessi che tengono insieme una nazione al di là della sua struttura statuale. Allora il senso di appartenenza storica non è più sentito come un valore e l’identità nazionale non sostiene più la vita politica. Allora una nazione cessa di essere tale. E può farlo in molti modi, non necessariamente né più clamoroso della disgregazione del suo apparato politico-amministrativo con la secessione di alcune regioni.

Una nazione democratica è fatta ad un tempo di radici etnico-culturali e di buone ragioni politiche di convivenza. Ma le radici si possono seccare o strappare e le ragioni si possono smarrire. Che cosa fare, dunque? Che cosa fare per ricostruire nel nostro Paese il senso di appartenenza a una stessa comunità nazionale e il senso dello Stato? È tempo ormai di andare oltre l’allarme o il lamento per questa situazione. È necessario ricominciare a pensare se e come «dobbiamo diventare una democrazia solida ed efficiente senza cessare di essere una nazione». Perché la Patria torni ad essere la casa di tutti gli italiani occorre che lo Stato democratico torni ad adempiere ai suoi compiti. Che ripristini ovunque il diritto e la legge; che renda ovunque operanti sul territorio nazionale le scuole, gli ospedali, l’amministrazione della giustizia, il fisco; che faccia scomparire la vergogna dell’assistenzialismo-serbatoio di voti perché possa una buona volta diventare efficace il sostegno a quelli che realmente sono sfavoriti nella gara della vita. «La nazione, scrive epigraficamente Gian Enrico Rusconi, va ripensata alla luce di una cittadinanza matura». È più che giusto ed è nel contempo vero che riscoprire i valori etico-politici, le aspirazioni ideali e le radici storiche dell’appartenenza alla nazione Italia può essere oggi una ragione e una via per far rivivere una democrazia che boccheggia.

L’ANGOLO DI SENECA. Estremi da evitare. Alcuni raccontano al primo che incontrano ciò che si deve confidare solo agli amici e scaricano così nelle orecchie di uno sconosciuto ciò che li tormenta. Altri, al contrario, rifuggono dal confidarsi anche con le persone più care e soffocano dentro i loro segreti che, se potessero, non affiderebbero neppure a se stessi. Sono estremi da evitare: è male sia il fidarsi di tutti, sia di nessuno (Ad Luc. 3, 4).

23 settembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Maestro per tre motivi. Maestro è colui che insegna cose nuove o rivissute personalmente in profondità, che è una guida per chi gli si affida e sa creare attorno a sé uno spazio gravitazionale dove ognuno respira in libertà (Stanislas Bréton). Ciò che non potremmo perdonare ai giudici di Mani Pulite. Ai magistrati dell’inchiesta che ha travolto l’ancien regime, il pubblico ha perdonato e può perdonare tutto: errori, fughe di notizie e persino qualche eccesso nell’applicazione delle norme. L’unica cosa che non potrebbe perdonare e che scardinerebbe la sua fiducia nell’azione giudiziaria è la parzialità politica (Saverio Vertone). Un Anticristo contagioso. Dov’è oggi il segno dell’Anticristo? Certo non conosciamo le profondità di Satana. Ma se c’è un fenomeno da cui i cristiani dovrebbero stare in guardia è la versione politica dell’Islam: la trasformazione dell’Islam in potenza politica totalizzante (Gianni Baget-Bozzo). L’Islam è una religione ed una civiltà di altissimo significato, ma il fondamentalismo islamico, esclusivo, intollerante, capace di comandare ogni crimine in nome di Allah, è la nuova versione della barbarie totalitaria a cui si deve far fronte con idee chiare e con decisione (Levi Appulo). Rivolta di Crotone, settembre 1993. Le conseguenze dei tanti errori politici ed economici del passato sono diventate l’emergenza del presente (Mario Cervi).

«BASTA COL SANGUE E CON LE LACRIME». Quando lunedì 14 settembre, alle ore 17.44 italiane, i rappresentanti dello Stato di Israele e dell’Olp hanno sottoscritto un accordo che potrà finalmente aprire a due popoli che hanno tanto sofferto, un’era di pace, grazie alla televisione il mondo intero è stato testimone di quell’evento. Le ragioni che hanno indotto Israele e l’Olp al grande passo sono tante, dalla fine dell’Urss che aveva ogni interesse a scatenare il mondo arabo contro l’Occidente, alla rottura clamorosa del fronte arabo durante la guerra del Golfo, al netto rifiuto di prestiti da parte degli Stati Uniti di Bush al governo Shamir se non fosse cessata la politica di insediamento dei coloni nei territori occupati. E tuttavia abbiamo assistito a un miracolo, perché tale è effettivamente uscir fuori dai meccanismi, purtroppo sempre efficienti, della dedizione esclusiva alla propria parte e del non riconoscimento dell’altro e dei suoi diritti. Per questo, tra le concause della decisione coraggiosissima di voltar pagina il primato va riconosciuto incontestabilmente a chi ha creduto nella possibilità della pace e l’ha preparata con tenacia, in anni e anni di duro lavoro e di rischi, a quei facitori di storia, quasi invisibili eppure sempre efficacemente presenti che sono stati mossi da un’intuizione che a distanza può anche produrre grandi conseguenze politiche, ma che è di sua natura morale e religiosa, sovrapolitica. La qual cosa del resto è emersa in tutta evidenza anche nelle parole pronunciate dai due maggiori protagonisti, Yasser Arafat e Ytzhak Rabin, i combattenti decisi a dire finalmente «addio alle armi» e «basta col sangue e con le lacrime». Ebbene l’uno e l’altro non hanno esitato a richiamarsi alla comune fede nell’unico Dio clemente e misericordioso che esige dai sui figli clemenza e misericordia.

Negli anni scorsi, quando impazzava il carnevale del manicheismo ideologico e l’odio per Israele era addirittura una divisa per gli intellettuali di sinistra non meno che per le masse studentesche e quelle operaie, noi abbiamo tenacemente perseguito l’imperativo inequivocabile della coscienza: la difesa di chi era di volta in volta aggredito, il diritto di Israele all’esistenza e alla sicurezza e dei palestinesi all’autodeterminazione e all’indipendenza. Di più: abbiamo fatto in modo che questa linea fosse enunciata pubblicamente e senza equivoci in Italia, dov’era tutt’altro che popolare, da israeliani quali Edy Kaufman, l’animatore laburista del movimento «Pace oggi», Andrè Chouraqui, l’instancabile tessitore di rapporti tra i figli di Abramo sul piano religioso, e da quell’autentico uomo di Dio, padre Bruno Hussar, che ha fondato la prima vera cittadella della pace e dell’amore fraterno tra ebrei e arabi, Nevé Shalom.

L’ANGOLO DI SENECA. L’amicizia vera. L’amicizia vera, quella che né la speranza, né il timore, né il proprio tornaconto riescono a spezzare, gli uomini che la praticano se la portano con sé nella tomba e per essa sono pronti a morire. Persino la saggezza rifiuterei. Tutto desidero trasfondere in te; godo d’imparare di una cosa proprio per insegnarla e nessuna mi darà piacere, per straordinaria e salutare che sia, se la saprò solo per me. Persino la saggezza rifiuterei, se mi venisse concessa con la clausola di tenermela riservata senza poterla annunciare; non c’è bene che faccia piacere possedere da soli (Ad Luc. 6).

7 ottobre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il primo bottone. Quando si abbottona male il primo bottone della camicia, tutti gli altri vanno fuori posto (Giordano Bruno). Né consumismo, né comunismo. La scelta consumistica non è accettabile, ma nemmeno quella comunista lo è perché esclude la democrazia (Mikhail Gorbaciov). Quel che era e che poteva non essere stato. Sfogliandone i ricordi / sempre ho pensato / a quel che era e che / poteva non essere stato, / al caso in cui si lega / ogni storia (Paolo Ruffilli). Una patria, una nazione. L’esistenza di una nazione è un plebiscito di tutti i giorni (Ernst Renan). Non c’è nazione senza culto delle memorie. Ma alla memoria che suscita il senso di appartenenza a una nazione i lutti servono più dei trionfi (Levi Appulo). Che cos’è la mafia? La mafia è la mafia più qualcos’altro: è un corpo mostruoso unitario, ma con tante teste, proprio come un’idra. Di quelle teste una è la cupola mafiosa vera e propria, una è la massoneria nera, una i pezzi di Stato deviati (i Servizi o i politici corrotti), e un’altra ancora il capitale finanziario in Svizzera (Sebastiano Bongiorno). L’etica del mercato. L’etica del mercato non si risolve affatto nella massima «arricchitevi» a qualunque costo e senza alcun freno. Il mercato non è una giungla dove ogni appetito può essere saziato senza regole. È invece una costruzione delicata e complessa che si regge sopra una morale collettiva condivisa e che richiede una collaborazione virtuosa tra politica ed economia (Roberto Chiarini).

NO E POI NO, ONOREVOLE BOSSI. Lei non può dire: «Siamo veloci di mano e di pallottole che da noi costano 300 lire, e se un magistrato vuole coinvolgere la Lega nelle tangenti, sappia che la sua vita vale 300 lire». Né può giustificarsi sostenendo che si tratta di una «battuta ironica». Non può dirlo per molte buone ragioni: perché i magistrati fanno il loro dovere, perché in questo Paese molti magistrati sono già stati assassinati per aver fatto rispettare la legge, perché minacciare il ricorso alla violenza equivale a mettere in discussione i fondamenti stessi dello Stato di diritto, e perché rispondere in termini di pallottole ad un’accusa, per di più mai formulata, è un atto di bestialità che ci porta alle caverne o ai periodi più neri della storia. In passato dichiarazioni assai poco rassicuranti sulle sue intenzioni e sulla natura del suo movimento sono state di volta in volta considerate intemperanze verbali, atti di nervosismo, manifestazioni di tracotanza. In questo caso, non si può ricorrere alle stesse spiegazioni. Onorevole Bossi, ora lei deve chiedere scusa. Lo deve ai magistrati, ai suoi lettori, a questo Paese, che di tutto ha bisogno fuorché della terapia aberrante che è contenuta nelle sue parole (Marcello Pera, La Stampa, 24 settembre 1993).

MONTANELLI, DE GASPERI E L’UOMO VENUTO DAL FREDDO. Andreotti quand’era molto giovane divenne collaboratore di De Gasperi, ma in nessun tempo fu veramente suo discepolo. Nonostante la frequentazione quasi quotidiana di De Gasperi, il romano era e rimase diverso e distante dal trentino. Tanto era aspro e buono De Gasperi, un passionale che sapeva sempre in che direzione camminare, tanto il suo delfino era duttile, accorto e freddo. De Gasperi, malgrado tutto, rimaneva un «esterno» al Vaticano; il suo giovane collaboratore ne conosceva, invece, tutti gli ambulacri e si adoperava, spesso con successo, a sopire diffidenze e malumori verso lo statista cristiano.

Un solo episodio, ma illuminante sulla diversità radicale delle due personalità. Durante la campagna elettorale del 1948, il giornalista Jader Jacobelli era al seguito del presidente De Gasperi, che teneva un comizio ad Avellino. Al ritorno De Gasperi lo invitò nella sua carrozza riservata. In quell’incontro parlò di sé e di Andreotti. Montanelli aveva scritto in quei giorni che «De Gasperi e Andreotti andavano insieme a Messa e tutti credevano che facessero la stessa cosa, ma non era così. In chiesa De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete». De Gasperi citò quella frase: «C’è un giornalista che va dicendo che credo più in Dio che nei preti. È giusto che sia così». Ma la frase di Montanelli esprimeva un giudizio anche su Andreotti; il presidente De Gasperi lo condivideva? La risposta fu: «Andreotti ha tante virtù, ma ha il difetto di essere prudente come un vecchio. In politica, invece, qualche volta bisogna scottarsi…».

14 ottobre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il lavoro e la sua dignità. Per un uomo vedere il bene in ogni suo lavoro è un dono di Dio (Libro del Qohelet). È il rispetto della legge il fondamento della democrazia. Viviamo in un Paese nel quale è sviluppatissima la retorica democraticistica, ma che non ha mai visto affermarsi come dominante l’orientamento secondo cui le regole, intese nel senso più ampio, della convivenza democratica sono un bene in sé ed hanno un valore moralmente costrittivo che s’impone ai governati come ai governanti (Angelo Panebianco). Solo la legge può garantire anche i più deboli. Per chi aspira ad una maggior sicurezza, e non ha i mezzi per garantirsela, l’unica speranza è costituita dalla legge, dal sostanziale vigore della legge (Gabriele Calvi). Ripristinare lo Stato di diritto. Le relazioni sociali, se sfuggono alle regole certe del diritto, scadono al livello del clan e della inevitabile dipendenza servile dall’uno o dall’altro boss. In una società del genere la democrazia diventa allora un alibi ed un sistema di scelte tutte in vario modo illusorie (Levi Appulo). L’albero della vita. La sapienza è un albero di vita (Libro dei Proverbi).

Perché amo Charles Péguy. Péguy è dentro e fuori la Chiesa, è Chiesa in partibus infidelium, e dunque là dove essa dev’essere. Il ritorno ai Padri della Chiesa. La Patristica significa per noi: Cristianesimo che ancora pensa, Cristianesimo rivolto agli spazi illimitati delle genti e che nutre la speranza della salvezza del mondo. (Urs von Balthasar)

ALL’ORIGINE DEL CRISTIANESIMO C’È CRISTO. BERGSON E IL CRISTO DEI VANGELI. Bisogna che ci sia stato un inizio e all’inizio del cristianesimo c’è Cristo. Dal punto di vista nel quale noi ci poniamo, tendente a far risaltare la possibile divinizzazione di tutti gli uomini, importa poco che Cristo sia detto o non sia detto uomo. Non importa nemmeno che sia chiamato Cristo. Coloro che sono giunti a negare l’esistenza di Gesù, non potranno, però, impedire al Discorso della montagna di figurare nel Vangelo con altre parole divine. All’autore si potrà dare il nome che si vorrà, ma non si potrà fare in modo che non vi sia stato un autore. Non dobbiamo porci quindi problemi simili. Diciamo semplicemente che i grandi mistici sono gli imitatori e i continuatori originali, ma incompleti, di ciò che fu in modo completo il Cristo dei Vangeli. Cristo stesso può essere considerato come il continuatore dei profeti di Israele. Non c’è dubbio che il cristianesimo sia stato una trasformazione profonda del giudaismo. Ad una religione che era ancora essenzialmente nazionale si sostituì una religione capace di divenire universale. A un Dio che sovrastava tutti gli altri per la sua giustizia e per la sua potenza, successe un Dio d’amore che amava l’intera umanità. E tuttavia noi esitiamo a classificare i profeti ebrei fra i mistici dell’antichità. Jahveh era un giudice troppo severo e tra Israele e il suo Dio non c’era sufficiente intimità perché il giudaismo fosse il misticismo come noi l’abbiamo definito; eppure nessuna corrente di pensiero o di sentimento ha contribuito quanto il profetismo ebraico a suscitare il misticismo che chiamiamo completo, quello dei mistici cristiani. La ragione di questo è che se altre correnti hanno portato alcune anime al misticismo, meritando perciò di essere considerate mistiche, esse non hanno oltrepassato la contemplazione pura. Per superare l’intervallo fra pensiero e azione ci voleva uno slancio che non ci fu. Ebbene, questo slancio lo troviamo nei profeti: essi ebbero la passione della giustizia e la reclamarono in nome del Dio di Israele. Il cristianesimo, che continuò l’ebraismo, dovette in gran parte ai profeti ebrei il merito di avere un misticismo attivo, capace di marciare alla conquista del mondo (H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, in Oeuvres, P.U.F., Parigi 1970).

TROPPO FURBI PER ESSERE ONESTI? «Due anni fa, a Lucca, capitai a una cena dove c’era anche Kissinger. Cominciammo a parlare dell’Italia. Gli chiesi una definizione del nostro Paese. Lui ci pensò e mi regalò una frase che non dimenticherò mai: “Gli italiani sono un popolo molto intelligente, l’unico grande limite è la loro furbizia”. Ecco la chiave della nostra psicologia di massa. L’attitudine a considerare la furbizia come una qualità». È un passo dell’intervista rilasciata da Renzo Arbore al Corriere della Sera il 17 agosto 1993.

Se è così, appare meno assurdo che alcuni superfurbi siano stati accreditati nel nostro Paese per «grandi politici» e addirittura per «statisti», benché totalmente sprovvisti di senso dello Stato. Diventa allora più facile capire anche perché quei signori, dopo tutto quello che si è venuto a sapere sul loro conto, trovino ancora gente disposta ad ascoltarli e ad applaudirli entusiasticamente. Gl’ingenui e i disinformati ci sono ovunque, anche a Roma e a Rimini, ma evidentemente quelli che hanno portato l’Italia a una Caporetto morale, politica e finanziaria senza precedenti costituiscono per coloro che li osannano un modello e comunque lo specchio delle loro brame, incarnano cioè al meglio le loro vere aspirazioni consce ed inconsce. Dunque, almeno entro certi limiti, vi è una specie di corrispondenza biunivoca tra i falsi grandi della politica e chi li elegge. Ed è cosa che rattrista terribilmente.

21 ottobre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il momento stesso della morte. Forse il momento stesso della morte / ci farà andare incontro a spazi nuovi. / Della vita il richiamo non ha fine… / Su, cuore mio, congedati e guarisci! (Hermann Hesse). La libertà di fronte al denaro. Eccesso di beni, eccesso di tormenti (Rabbi Hillel). Chi ama il danaro mai si sazia di danaro e chi ama la ricchezza non ne trae profitto (Libro dell’Ecclesiaste). Non lasciarti suggestionare se vedi un uomo arricchirsi, / se aumenta la gloria della sua casa. / Quando muore non prende con sé nulla, / né scende con lui la sua gloria. / Nella sua vita si benediceva da se stesso, dicendo: / «Ti loderanno perché hai avuto felicità». / E invece tu te ne andrai con la generazione dei padri / che non vedranno la luce. / L’uomo nella ricchezza non capisce, / muore come gli animali (Libro dei Salmi). Il divino silenzio. Silenzio, silenzio, silenzio! Prendimi sotto le tue ali, divino silenzio (Incisione del papiro di Mitra, un testo del VI e V secolo a.C.). Il silenzio fa parte della relazione con Dio (Arnaldo Pangrazzi).

La più alta emozione. La più alta emozione che si possa provare è quella mistica. Chi non l’ha provata, ignora uno dei lati più belli della vita. Fede e scienza. Non riesco a concepire un vero scienziato senza una fede profonda. La situazione può esprimersi con un’immagine: la scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca. (Albert Einstein)

PER FAVORE, STARE AI FATTI E RAGIONARE SUI FATTI. Il realismo è una forma mentis ed è un metodo di indagine. Ad esso devo la mia impermeabilità alla falsa assolutezza delle ideologie di volta in volta dominanti, come ai giochi di una dialettica degenerata in meccanismi inesorabili, nonché alle fantasticherie pseudo-metafisiche di sistemi lussureggianti di formule ma ben poveri di verità. Stare ai fatti e ragionare sui fatti mi è parsa sempre la regola d’oro di chi voglia riflettere e capire, fin dove è possibile, le cose onestamente, senza arbitri di sorta, con lo sguardo aperto alla molteplicità e all’incomparabile ricchezza del reale. Tommaso d’Aquino incastona in un sermone, quello per la seconda domenica d’Avvento, uno degli elogi più convinti del realismo metodologico: «Aristotele, a chi gli domandava dove avesse imparato tanto, rispondeva: Nelle cose, perché non possono mentire».

QUANDO SI DECIDE NELLO SPIRITO DEL VANGELO. In settembre Meir Lau, rabbino capo di Israele, era a Milano per il meeting Uomini e religioni e ha raccontato quella che egli chiama «una storia bellissima». C’era una famiglia di Cracovia, in Polonia, che fu portata in campo di concentramento. I genitori, prima di essere presi, riuscirono ad affidare ad una coppia di cristiani il loro figlioletto più piccolo. Fu il loro ultimo viaggio. I coniugi cristiani amavano quel bambino e, avendo saputo della morte dei suoi genitori, volevano adottarlo. La signora Jacowic, questo era il suo nome, andò dal suo prete e gli disse di voler educare nella fede cristiana il fanciullo rimasto orfano. Il giovane prete pose una domanda: «Quali erano le volontà dei genitori?». La signora Jacowic rispose: «La mamma mi ha chiesto di ricordare al figlio che lui era ebreo e che doveva fare ogni sforzo per andare a vivere nella terra di Israele». Il prete allora disse: «In questo caso è il desiderio della mamma che conta e io lo rispetterò». Ebbene, conclude Meir Lau, quel bambino sono io e quel prete è Karol Wojtyla.

È una storia vera ed è una parabola esemplare. Quando si decide secondo lo spirito del Vangelo, ciò che si fa è giusto ed è bello. Allora la poesia si mescola alla profezia, la religione dinamica prevale sulla religione statica e ciò che è aperto su tutto ciò che chiude.

L’ANGOLO DI SENECA. Artefice di amicizie. Il saggio non desidera essere senza amici, ma ne sopporta con serenità la perdita. Artefice di amicizie qual è, egli non rimarrà mai senza amici (Ad Luc. 9, 5). I vecchi e i nuovi amici. Non solo praticare una vecchia e sicura amicizia fa molto piacere, anche iniziarne e coltivarne di nuove (Ad Luc. 9, 6). Se vuoi essere amato, ama. Dice Ecatone: Ti indicherò un filtro amoroso senza veleni, senza erbe, senza incantesimi di fattucchiera: se vuoi essere amato, ama (Ad Luc. 9, 6). Le amicizie opportunistiche. Chi ha di mira se stesso e a questo scopo si procura amicizie, sbaglia proprio tutto. Questi rapporti finiscono per le stesse ragioni per le quali erano incominciati. Sono le cosiddette amicizie opportunistiche: sorte in vista dell’utilità, saranno gradite solo finché il nostro tornaconto le giudichi utili. Amici di questo genere sono pronti ad assediarti, in gran numero, nella buona fortuna e a mollarti nell’avversa. Chi è nella sventura è solo, perché gli pseudo amici fuggono dal luogo della prova (Ad Luc. 9, 8-9).

28 ottobre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Salire e scendere. Sii gentile con le persone che incontri salendo, perché sono le stesse che incontrerai scendendo (Jimmy Durante). Quando siamo bambini. L’unico momento della nostra vita in cui ci fa piacere che gli anni aumentino è quando siamo bambini (Larry Miller). Dall’altro lato dei fatti. Non lo chiamerei un bugiardo. Preferirei definirlo uno che vive dall’altro lato dei fatti (Robert Orben). Eco è superstizioso? La superstizione porta sfortuna (Umberto Eco). Per non impazzire. In questo mondo devi essere matto. Se no impazzisci (Leopold Fetchmer). Se non studio… Se non studio un giorno, me ne accorgo io. Se non studio due giorni, se ne accorge il pubblico (Niccolò Paganini). Fama e noia. La cosa bella dell’essere famosi è che, quando annoi le persone, queste pensano che sia colpa loro (Henry Kissinger). Le streghe e i roghi. Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo cessato di bruciarle (Voltaire). Dimmi con chi vai. Dimmi con chi vai e ti dirò se vengo anch’io (Marcello Marchesi). Il migliore dei mondi possibili. L’ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili. Il pessimista sa che è vero (J. Robert Oppenheimer). Piangere di… nostalgia. Un manager col telefonino entrò in una cabina telefonica e pianse di nostalgia (Federico Bini). Il principio, la fine, nel mezzo. Si nasce e si muore soli. Certo che in mezzo c’è un bel traffico (Paolo Conte).

LA DOPPIA MORALE IMPERANTE. Le inserzioni «Massaggiatrice offresi», che apparivano sulle pagine dei quotidiani di Vienna già all’inizio del nostro secolo, suscitavano sempre sarcastiche considerazioni da parte di Karl Kraus (1874-1936), uno degli spiriti più anticonvenzionali e acuti del Novecento, che fondò e scrisse quasi da solo per 37 anni la battagliera rivista Die Fackel (La Fiaccola). Dietro quella formula, usata anche oggi, era fin troppo noto ciò che si nascondeva. Ma ciò che provocava lo sdegno dello scrittore non erano le giovani «massaggiatrici», bensì la palese contraddizione esistente, in uno stesso giornale, fra parte redazionale e parte pubblicitaria. Infatti nella prima si salutava con enfasi «lo snidamento ad opera della polizia di un covo di vizi» (quasi fosse una vittoria militare di cui in Austria si sentiva la mancanza, osservava Kraus con sarcasmo); nella seconda, però, si pubblicavano dietro compenso, inserzioni che invitavano quello stesso pubblico di lettori ad andare nei «covi del vizio».

Questo è solo un esempio delle numerose contraddizioni esistenti in quelli che noi oggi chiamiamo mass media, Karl Kraus lo colse tempestivamente e lo fece assurgere a simbolo della doppia morale imperante.

DUE LUOGHI COMUNI RIVISITATI DA LÉON BLOY. 1. Gli assenti han sempre torto. Questo significa, e lo sanno tutti, che gli assenti devono essere invariabilmente fregati, truffati, raggirati, ingannati, depredati, svaligiati, derubati, rovinati, saccheggiati, spogliati, defraudati, venduti, traditi e calunniati in tutte le maniere possibili. 2. Gli amici dei miei amici sono miei amici. Il cavalier Brean d’Enhaut aveva salvato la vita a un avvocatucolo del Parlamento di Normandia. Quando venne il Terrore, quest’avvocato pieno di gratitudine lo raccomandò a un falegname, che lo raccomandò a un ciabattino, che lo raccomandò a un vuotacessi, che lo raccomandò a un benedettino spretato, che lo raccomandò a Chaterine Théot la profetessa, che lo raccomandò a Robespierre il quale gli fece tagliare la testa… (Léon Bloy, Esegési dei luoghi comuni, Genova 1993).

L’ANGOLO DI SENECA. Un bene desiderabile per sé. A che scopo ti procuri un amico? Con quale disposizione d’animo? Come a qualcosa che sia desiderabile per se stessa e sublime, non attratto dal calcolo di eventuali vantaggi, né spaventato dalla mutabilità della sorte. Chi fa amicizia solo in vista di felici opportunità, la priva del suo aspetto più sacro (Ad Luc. 9, 12). Desiderosi di amicizia come di altre cose. Siamo avversi all’isolamento e propensi alla convivenza, la natura avvicina l’uomo all’uomo. È innato in noi un impulso che ci rende desiderosi di amicizia, come di altre cose (Ad Luc. 9, 17). Reciprocità. Non puoi pretendere che ti siano amici coloro ai quali tu amico non sei (Ad Luc. 9, 11).

4 novembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Snobismo. Gli snob sono il contrario della verità (definizione di una giovane lettrice). Due tragedie. Ci sono due tragedie nella vita: non riuscire a soddisfare un desiderio e soddisfarlo (Oscar Wilde). Il fanatismo. Il fanatismo consiste nel raddoppiare gli sforzi quando si è dimenticato lo scopo (George Santillana). Sono solo dieci. Dite quello che volete dei dieci comandamenti, alla fin fine si deve sempre gradevolmente constatare che sono soltanto dieci (Henry Louis Mencken). Lettori e scrittori. I lettori sono personaggi immaginari creati dalla fantasia degli scrittori (Achille Campanile). Pur di darsi un alibi. Tu dici: I ladri sono ladri. Ed ecco che ti senti rispondere: Non si può criminalizzare un’intera categoria! (Altan).

È inutile illudersi. Le cose storte non si raddrizzano da sé. Il carattere è un’altra cosa. Chi ha la testa dura è sempre disposto a scambiare la testardaggine con la forza di carattere. L’idealismo dei giovani e l’annebbiamento dei cervelli. È relativamente facile allevare idealisti batteriologicamente puri. Lei può convincere con la massima facilità una masnada di ragazzini che è un onore morire per la libertà; che cosa significa morire lo sanno tutti, ma che cosa si intende per libertà non lo sa nessuno. Ed è qui che comincia l’annebbiamento dei cervelli. Quando la colpa è diffusa e generalizzata. La colpa è come una nube di polvere; insudicia anche quelli che non l’hanno sollevata. (Hans Hellmut Kirst)

ESSERE ITALIANI, UN PLEBISCITO DI TUTTI I GIORNI. Per gl’italiani che amano veramente la loro patria, che è un altro nome del bene comune, e per essa sono pronti a sacrificare egoismi individuali e corporativi e appartenenze separate, questa è l’ora dell’impegno appassionato, ad ogni livello, per ripristinare ovunque lo Stato di diritto e il rispetto rigoroso della legge, per rinnovare la democrazia nei suoi istituti e nelle regole, per restituire a tutti il senso di appartenenza a una stessa nazione. La mobilitazione contro il degrado sociale e politico, però, sarà via alla salus rei pubblicae solo se nasce, ed è di continuo sorretta da quelle forze alte e maestose che, divenute sotterranee ed invisibili per lungo volgere di anni, erompono nei momenti più difficili della storia di un popolo: forze che si chiamano coscienza morale, coscienza civile, dignità nazionale.

Le cose che concorrono a far vivere una nazione sono tante; ma una nazione è essenzialmente un principio spirituale, una memoria storica, un appello ai valori più alti e ai sentimenti più generosi che hanno nobilitato il suo cammino. Lo aveva compreso molto bene Ernst Renan quando nel 1882, centoundici anni fa, in una conferenza tenuta alla Sorbona su Che cos’è una nazione? (Roma 1993), ebbe a scrivere: «La nazione presuppone un passato; essa tuttavia si ricapitola nel presente per un fatto tangibile: l’assenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare la vita comune. L’esistenza di una nazione è, mi si perdoni la metafora, un plebiscito di tutti i giorni, un’affermazione perpetua di vita».

Ma se c’è un fondamento di volontà e di libera scelta nella decisione di appartenere a una storia comune e a un destino comune che noi chiamiamo «nazione», dunque è necessario riscoprirci ogni giorno italiani, cioè rinnovare ogni giorno quel plebiscito di adesione testimoniato dal nostro sentire e dal nostro concreto agire sempre nel superiore interesse della collettività. Ben vengano le altre forme di solidarietà, ma la prima è quella per cui ci si riscopre fratelli con chi ci è prossimo. Prossimo, è bene ricordarlo, è il superlativo assoluto di vicino. E per noi «il più vicino» è proprio chi insieme a noi abita in quest’angolo del mondo, in questa nostra Italia.

L’ANGOLO DI SENECA. Schiettezza. Non si ama veramente una persona se si teme di offenderla (Ad Luc. 25, l). Conta l’impegno sincero. Non so se riuscirò a giovare in qualche modo all’amico; preferisco, tuttavia, che venga meno il successo piuttosto che l’impegno sincero (Ad Luc. 25, 1). Io tuo simile. Tu dici: perché mi dai dei consigli? E incalzi: li hai già dati prima a te stesso? E con quale risultato? Non sono così disonesto da pretendere di curare gli altri mentre sono malato io stesso: ma, come fossi degente dello stesso ospedale, parlo con te della malattia che abbiamo in comune e ti passo la mia medicina. Perciò tu ascolta quello che ti dico come se io lo stessi dicendo a me stesso. Io ti apro senza riserve il mio cuore e, dopo averti fatto entrare, mi interrogo (Ad Luc. 27, l). Lontananza e presenza. Ci dà gioia il pensiero di quelli che amiamo, anche se sono lontani; ma è una gioia lieve che presto sparisce. Invece il loro aspetto, la loro presenza, il loro conversare recano con sé un vivo godimento; soprattutto se vedi che la persona che volevi avere con te è anche quale tu la volevi. Perciò fammi un grande dono: affrettati a venire da me (Ad Luc. 35, 3-4).

11 novembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il dominio di sé. Vinca tua guardia i movimenti umani (Dante Alighieri, Paradiso 33, 37). La volontà del Sommo Bene. La prima volontà, ch’è da sé buona, / da sé, ch’è Sommo Ben, mai non si mosse. / Cotanto è giusto quanto a lei consuona: / nullo creato bene a sé la tira, / ma essa, radiando, lui cagiona (Paradiso 19, 86-90). Chi ha la vista corta non abbia la pretesa di veder lontano. Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna? (Paradiso 19, 79-81). Con il pentimento e con il perdono. Sì che, pentendo e perdonando, fòra / di vita uscimmo a Dio pacificati (Purgatorio 5, 55-56). La sete di Dio è il tormento e il dono più grande che da lui ci viene. Dio del disio di sé veder n’accora (Purgatorio 5, 57). Pietà per la patria, rigorosa giustizia per chi l’ha depredata. Per non perder pietà si fé spietato (Paradiso 4, 105).

Cogliere l’occasione. Quando un’occasione passa cantando davanti alla tua porta, aprile se vuoi, ma non sperare che torni. La coscienza profonda. Posso perdermi in tutte le regioni dell’anima, ma trovo la pace solo nella coscienza profonda. Dalla prodigalità alla saggezza. Moltiplicare le mie attitudini, questa è la mia passione, il mio istinto e il mio sforzo. Fortificare la più importante, fare fruttare il mio talento essenziale, questo sarebbe passare dalla prodigalità alla saggezza e dalla gioventù alla maturità. La soddisfazione della coscienza prima che quella del cuore. Rendi testimonianza della verità che hai ricevuto, aiuta gli altri a vivere e a vivere bene, non rattristare cuori e anime, sii serio più spesso, sii vero, semplice, affettuoso, sii meno circospetto, più bonario, più aperto e avrai più spesso occasione di fare del bene. È la soddisfazione più dolce che si possa provare. Essere compreso, apprezzato, amato viene dopo; poiché la soddisfazione della coscienza è ancora più profonda di quella del cuore. (Henri-Frédéric Amiel)

NELL’ORA DEL PERICOLO. «È vano bendarsi gli occhi per non vedere che la libertà è di nuovo in pericolo. Lo è per le mene dei nemici della democrazia. Lo è, egualmente, per la riluttanza dei partiti democratici a collaborare per il rafforzamento dello Stato repubblicano, anziché litigare sul come indebolirlo ulteriormente. Lo è per la corruttela dilagante, che ha inquinato i partiti che hanno disposto a lungo dei poteri di Governo. Lo è per il ritardo nell’adozione di provvedimenti severi e durevoli nei confronti di ogni forma di delinquenza. Lo è per la scarsezza di mezzi che, nel mentre si sono sperperate altrove somme immense, sono stati lasciati a disposizione della giustizia, dell’ordine pubblico, della difesa nazionale e della scuola. Lo è per l’eccesso di particolarismi corporativi. Lo è per la paralisi progressiva della pubblica amministrazione, sempre più lontana dalle quotidiane necessità di vita dei cittadini. Lo è, adesso, anche per l’incubo della disoccupazione che anni di dissipazione inflazionistica dei risultati del lavoro, del risparmio, dell’intraprendenza hanno preparato. Lo è, infine, per le pressioni eversive che salgono» (Leo Valiani, Corriere della Sera, 5 novembre 1993).

Come uscire dal tunnel? Riscoprendo finalmente la nostra appartenenza a una Patria, cioè a una storia comune e a un destino comune, come avvenne nel 1918, dopo il disastro di Caporetto, e nel 1945, dopo la tragedia dell’8 settembre e di una guerra civile. Usciremo dal tunnel con un rinnovato atto di adesione a questa nostra Italia, se avremo la ferma volontà di costruire insieme la città futura, che dev’essere pulita, tale cioè che la legge sia rispettata in ogni ambito e il risanamento morale sia posto alla base di una democrazia compiuta.

18 novembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il linguaggio muto del cuore… quella favella / ch’è una in tutti (Dante Alighieri, Paradiso 14, 88-89). La prassi del mal governo. Calcando i buoni e sollevando i pravi (Inferno 19, 105). Ai cristiani. Non siate come penna ad ogne vento, / e non crediate ch’ogne acqua vi lavi… / Uomini siate, e non pecore matte (Paradiso 5, 74-75, 80). L’innato desiderio di Dio. La sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia, / mi travagliava…. (Purgatorio 21, l-4). L’aspirazione suprema. Puro e disposto a salire a le stelle (Purgatorio 33, 145). Guardarsi bene dallo stare con certa gente. Gente vien con la quale essere non deggio (Inferno 15, 118). Signore, venga il tuo regno. Vegna ver noi la pace del tuo regno (Purgatorio 11, 7). Il gaudio della Verità. Questo sicuro e gaudioso regno /… viso e amore avea tutto ad un segno (Paradiso 31, 25 e 27).

LA STORIA COME APPRENDISTATO. La storia universale è l’apprendistato della vita divina. Lo scopo della creazione è dunque la gioia, perché Dio è amore. Fatti coraggio. Leggi e rileggi questa parola divina: fatti coraggio! / Soffri e conserva la tua fede; / guarda il cielo, è tetro; / ma il cielo resta blu ed il sole d’oro. Il dolore rende indovini. Ovunque ci siano dolore, speranza, commedia, tragedia lì si possono ritrovare, lì si ripresentano le inquietudini e le torture della gioventù. Questo pensiero è la bacchetta magica degli Andersen e dei Balzac, dei poeti e dei predicatori. Esso fa aprire gli occhi e fa vedere chiaro nella vita umana; dispone all’ascolto di melodie sconosciute e fa capire i mille linguaggi della natura. L’amore afflitto rende poliglotti; il dolore rende indovini. (Henri-Frédéric Amiel, Diario intimo, Roma 1992)

LA SOLIDARIETÀ NON BASTA. «Come la rana di Fedro, scrive un amico, gl’imperi industriali e burocratici dello Stato si sono gonfiati a dismisura ed ora scoppiano, come scoppiano le grandi imprese private vissute di protezionismo e connivenze politiche». Vanno in aria, però, anche la vita tranquilla e la sicurezza di migliaia di lavoratori. Se questi si arrabbiano, ministri e sindacati propinano dosi massicce di quel valium che chiamiamo «ammortizzatori sociali». È comprensibile. Chi sta al potere si preoccupa dell’ordine pubblico e teme massimamente i disordini e le sommosse; ma l’incredibile fantasia con la quale s’inventano a spese dei contribuenti sempre nuovi ammortizzatori è la prova evidente che questi servono prima a chi sta al potere che ai lavoratori. La retorica che copre il parassitismo clientelare di decenni col nome di «solidarietà» aggiunge ai guasti una specie di predica beffarda. Così, mentre si fa ricorso in modo truffaldino a un’alta esigenza morale, in realtà si usa cinicamente il termine «solidarietà» per dire solo: «produrre è facoltativo, riscuotere uno stipendio è un obbligo, tanto è lo Stato che paga».

Manca a questo nostro Paese la cultura della responsabilità personale di fronte alla collettività che rende capaci di scelte e di assunzione di rischi. È questo un deficit culturale, aggravatosi nel clima degli scorsi decenni, che ci rende molto difficile capovolgere il problema dei posti di lavoro. La prova è data appunto dal gran clamore delle voci che invocano quale rimedio di tutti i mali la «solidarietà», intesa sempre come delega ad organi pubblici. Troppi ritengono ingenuamente che l’etica del bilancio dello Stato o di un’azienda abbia le stesse regole di quella che detta alla singola persona o ad un’associazione benefica un gesto di carità verso gli svantaggiati. Pochi, veramente troppo pochi, si chiedono quali sono le condizioni politiche, economiche e sociali che consentirebbero al Paese di produrre nuova ricchezza, nuovi posti di lavoro e, di conseguenza, il finanziamento di una più ampia solidarietà sociale che non aggravi ulteriormente il debito pubblico.

Un acuto studioso del cambiamento socio-culturale, Gabriele Calvi, dopo aver ricordato che dal 1970 in poi la società italiana ha consentito l’esplosione delle aspettative di tutti e le ha sacralizzate come diritti, si chiede: «Non è forse per questa deriva culturale che la gente si è convinta che ciò che spetta per diritto sia gratuito e non richieda contropartite? Il clima economico favorevole e l’astuzia dei politici hanno alimentato questa tremenda sciocchezza, ma fino a quando durerà l’inganno.

Rimane una speranza: «Ora le cose riprenderanno le giuste proporzioni, poiché la realtà tollera a lungo le mistificazioni ma, infine, presenta sempre il conto. Dunque possiamo vedere, almeno adesso, che le coordinate, sicurezza e benessere, sulle quali era stata tracciata l’utopia del welfare state, non servono più per capire dove ci troviamo. Il nostro futuro è da ridisegnare sulle coordinate incertezza e rischio». Un futuro che non si affronta senza una generale mobilitazione di tutte quelle risorse umane che riconosciamo nel senso di responsabilità, nel coraggio e nello spirito di iniziativa.

L’ANGOLO DI SENECA. Potenza evocatrice dei luoghi. Non c’è bisogno di vedere un luogo per ricordarsi di un amico. Pure accade che certi luoghi familiari ad una persona cara suscitino il desiderio, ch’era celato nell’animo nostro, della sua presenza. Un ricordo, se è del tutto cancellato, non sarà la vista dei luoghi a rinnovarlo, ma se vive in noi, in qualche modo sia pure assopito, può ben essere ridestato (Ad. Luc. 49, 1). Che cosa chiedere all’amico. Confortami nelle difficoltà, aiutami a conquistare la serenità di fronte all’inevitabile; allenta la stretta del tempo a mia disposizione, insegnandomi a viverlo bene. Dissipa ciò che mi oscura il giudizio: sarà più pronto a far miei i tuoi insegnamenti, se vi sarò preparato. Fammi capire che cos’è la giustizia, la pietà, la temperanza, il pudore che rispetta il corpo altrui e il proprio. Se non mi condurrai per vie traverse, se mi parlerai con semplicità, giungerò più facilmente alla meta a cui aspiro (Ad. Luc. 49, 10; 11; 12).

25 novembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. A proposito della parabola dei talenti. Bisogna far dono dei doni del Signore (Levi Appulo). È scritto su Avvenire del 7 aprile 1993. Quando sono in gioco le scelte di fede, chi le custodisce ha il diritto-dovere di parlare; ma quando sono in gioco scelte politiche è più saggio seguire la via di un attento e operoso silenzio (Giorgio Campanini). La direzione del pensiero che non si fa decapitare. Il pensiero che non si fa decapitare sfocia nella trascendenza (Theodor Wiesengrund Adorno). La differenza. Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non avere nulla a che fare con la religione che vi è presentata. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la Messa, sento, con una specie di certezza, che questa fede è la mia o, più precisamente, che essa sarebbe la mia senza la distanza frapposta dalla mia imperfezione (Simone Weil). Per esserci, il riso ha bisogno di un’eco. Noi non gusteremmo il comico se ci sentissimo isolati. Sembra che il riso abbia bisogno di un’eco… Il nostro riso è sempre quello di un gruppo di persone. Forse v’è accaduto di sentire, seduti in un vagone o a tavola, viaggiatori raccontarsi storie che dovevano essere comiche per loro, ma non lo erano per voi perché voi vi sentivate estranei al loro gruppo. Per esserci, il riso esige un pensiero nascosto d’intesa, direi quasi di complicità con altre persone che ridono (Henri Bergson).

LE PROBABILITÀ POSSONO SOMMARSI E PORTARCI ALLA CERTEZZA. Non c’è altra fonte di conoscenza che l’esperienza; ma poiché la considerazione intellettuale di un fatto supera necessariamente il fatto bruto, tutte le esperienze sono ben lontane dall’essere ugualmente conclusive e dall’autorizzare la stessa certezza. A questo punto diventa inevitabile chiedersi: si può andare oltre questo pur non disprezzabile grado di conoscenza?

Un maestro di realismo come Bergson ha osservato che ci sono delle «linee di fatto», cioè qualcosa dell’esperienza che attesta una direzione. Ogni «linea di fatto» può anche non andare abbastanza lontano, d’accordo; ma prolungando due o più di esse, fino al punto in cui si incontrano, si arriverà su quel determinato problema alla verità o a ciò che le è più vicino. È un po’ quello che fa l’agrimensore, che misura la distanza di un punto inaccessibile considerandolo alternativamente da due punti accessibili. Questo procedimento, critico ma non scettico, favorisce la collaborazione tra coloro che cercano di mettere a fuoco uno stesso problema, anche se da visuali diverse, e può far avanzare la filosofia per il graduale accrescersi dei risultati raggiunti. Se, infatti, due o più probabilità possono sommarsi, la loro somma dà un risultato che equivale praticamente alla certezza.

«E QUANDO VERRÀ L’ORA…». Mi ha dato sempre molto fastidio l’insistenza della stampa sui particolari che accompagnano la morte dell’uno e dell’altro personaggio; ancora di più, se quelle notizie riguardano «confidenze» e non verificabili «indiscrezioni» che in qualche modo ne lascino intravvedere l’ultimo atteggiamento religioso. Occorre, invece, rispettare il mistero della morte e fermarsi in silenzio là dove finisce o è ricominciato il dialogo tra l’anima e Dio. La sofferenza aiuta spesso a rientrare in sé, ma nei giudizi è bene parlare solo di ciò che precede l’aggravarsi della malattia, quando la coscienza è vigile e l’assunzione di responsabilità per quanto si dice e si fa è piena. Se voglio comprendere, ad esempio, come un Eugenio Montale muovesse incontro al grande appuntamento, ebbene è ai suoi versi che devo chiederlo e non a frasi smozzicate riferite dai suoi infermieri. Mi capiterà allora di cogliere sulle labbra del presunto agnostico una preghiera lucida e ardente come questa: «E quando verrà l’ora del timore / che chiuderà questi miei occhi umani, / aprimene, Signore, altri più grandi / per contemplare la tua immensa face, / e la morte mi sia un più grande nascere».

L’ANGOLO DI SENECA. Dire la verità. Preferirei offendere col dir la verità che piacere adulando (De clementia 1, 2, 2). La paura come mezzo di dominio. L’odio e il timore: non so quale dei due sia peggiore. Queste orrende e abominevoli parole scritte al tempo di Silla: «Odino pure, purché temano», divennero il motto di Caligola. Non può pronunciarle chi abbia grandezza d’animo, ma solo colui che sia un mostro (De ira 1, 20, 4-5).

2 dicembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La memoria. La memoria è la nostra cultura. È l’ordinata raccolta dei nostri pensieri. Non solo dei nostri propri pensieri: è anche l’ordinata raccolta dei pensieri degli altri uomini, di tutti gli uomini che ci hanno preceduti… La memoria adorna di sé gli aspetti delle forme; le dilata, per così dire, al di qua e al di là del loro stato presente. Grazie alla memoria, noi, nel mirare le immagini vediamo ciò che furono queste immagini e ciò che saranno, è la poesia dello sguardo (Alberto Savinio). L’uomo, un animale che sa ridere e che fa ridere. Non v’è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano. Un paesaggio potrà essere bello, grazioso, sublime, insignificante e brutto; non mai ridicolo. Si riderà di un animale solo se sorprenderemo in esso un’attitudine o un’espressione umana. Si riderà di un cappello; ma non del pezzo di feltro o di paglia, bensì della forma che l’uomo gli ha data, del capriccio umano di cui esso ha preso la forma. Parecchi hanno definito l’uomo «un animale che sa ridere»; avrebbero potuto definirlo un animale che «fa ridere» (Henri Bergson).

SIMONE WEIL E IL BUON LADRONE. Nel 1943, cinquant’anni fa, moriva Simone Weil, la donna a cui si riconosce un posto d’eccezione nella storia del pensiero e nella storia della religione del nostro secolo. Era nata nel 1909. Nemica dichiarata del cristianesimo abitudinario, si oppose all’irreligione dei marxisti e degli scientisti. Eroicamente povera, non cedette mai alla demagogia e alla logica perversa degli schieramenti. Ebrea, amò al di sopra di tutto il Nuovo Testamento. Non battezzata e a suo modo senza chiesa, fu una santa e una mistica come poche altre anime. Ogni suo scritto apre orizzonti imprevisti, risveglia dimensioni assopite della vita dello spirito, scuote ed eleva. In Italia, per fortuna, le sue opere sono state tradotte quasi tutte. Scelgo per i cari lettori una riflessione, come al solito paradossale, di quel grande spirito.

Per la Weil la figura evangelica prediletta, in cui si riconosce consapevolmente, è quella del buon ladrone. Si sente unita al Cristo la Weil, ma per una via inedita, che non fa capo a Pietro o a Maria o a Giovanni (chiesa pietrina e/o mariana), ma a qualcuno che, benché indegno e fuori della chiesa, è messo dalla sorte vicino al cristo crocefisso a con-patire e con-dividere la sua maledizione. «Essersi trovato al fianco di Cristo, nella sua stessa situazione, durante la crocifissione, mi sembra privilegio molto più invidiabile dell’essergli stato alla destra nella gloria». Essere vicini al Cristo della Croce è infatti il compito di quaggiù, essergli vicino nella gloria quello di lassù. Simone Weil sottolinea soprattutto che quell’uomo colpito da sventura non è attirato dai miracoli, dalla potenza visibile di un gruppo, ma dal mistero soprannaturale della condanna a morte di un innocente. Il buon ladrone dimentica perciò il suo io e manifesta sentimenti di vera pietà. Al contrario, nella logica di questo mondo, la forza approfitta sempre della debolezza. Il buon ladrone, che penetra il senso misterioso della sventura dell’innocente, dimostra che la vera compassione fa da cerniera tra l’umano e il divino, è un flusso di luce soprannaturale scesa dal cielo sul silenzio dell’io. Tanto basta perché egli possa entrare nel regno. La promessa di Gesù al buon ladrone sigilla perciò l’essenza della religione. «È falsa ogni concezione di Dio incompatibile con un movimento di carità pura. Sono vere, in gradi diversi, tutte le altre».

L’ANGOLO DI SENECA. L’amicizia fedele e affettuosa. Nulla potrà rasserenarti l’animo quanto un’amicizia fedele e affettuosa. È un conforto disporre di persone a cui puoi affidare tranquillamente ogni segreto! La loro coscienza ti incute minor soggezione della tua, la loro conversazione dà sollievo alle tue ansie, i loro pareri facilitano le tue decisioni. Quelle persone con la loro serenità dissipano la tua tristezza e ti basta vederle per provare gioia (De tranquillitate animi 7, 1). Questo tu puoi esigere da me. Questo tu puoi esigere da me: che io non mi rassegni a trascorrere la mia esistenza senz’onore; che io dia una direzione alla mia vita per non essere trascinato dagli eventi (Ad Luc. 93, 7). Come aiutarti. In nessun modo posso aiutarti di più che mostrandoti il tuo vero bene, ciò che ti distingue dai bruti, quello che ti fa compagno di Dio (Ad Luc. 124, 21).

9 dicembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se leggessimo la Bibbia ce ne accorgeremmo. La Scrittura cresce con chi legge (Gregorio Magno). Fascismo e comunismo. Il fascismo ha squalificato la destra. Ma il comunismo ha squalificato la sinistra (Saverio Vertone). Che tempo fa? Ci sono alcuni che giungono sino a tarda età e muoiono circondati di rispetto senza aver mai parlato d’altro che di pioggia e di bel tempo (Léon Bloy). Dante poeta epico. Dante è un poeta epico in quanto vede se stesso adempiere e portare a compimento un itinerario poetico che inizia con l’Eneide e che trova nella Commedia, anch’essa una lunga narrazione con ambizioni sociali, storiche e profetiche, la sua ultima e più alta forma espressiva (Teodolinda Barolini). Avarizia innata. Aveva così poche idee, che non le diceva a nessuno per paura di rimanere senza (Renzo Butazzi). Non basta usare la forchetta. È progresso se un cannibale usa la forchetta? (Stanislav J. Lec). Inutile complicazione. Se lei spiega con un esempio, non capisco più niente (Ennio Flaiano). Gli inglesi e l’ombrello. Questo film di fantascienza è inglese. Si capisce che è inglese perché tutti i marziani hanno l’ombrello (Henny Youngman). Elettori e partiti. Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori (Corrado Guzzanti). Prudenza necessaria. Le nostre idee non moriranno quasi mai. Pur di non pagare le tasse. C’è gente che pur di non pagare le tasse venderebbe l’anima al diavolo senza rilasciare lo scontrino fiscale. (Ellekappa)

ALL’EROE NON SI ADDICE LA… SEDIA. Il poeta tragico deve aver cura di evitare tutto ciò che possa richiamare la nostra attenzione sulla «materialità» dei suoi eroi. Appena il lato fisico interviene, bisogna temere un’infiltrazione comica; perciò gli eroi di tragedie non bevono, non mangiano, non si riscaldano. Allo stesso modo, per quanto è possibile, non si siedono; sedersi nel bel mezzo di una tirata sarebbe lo stesso che ricordarsi di avere un corpo. Napoleone, che era psicologo, aveva notato che si passa dalla tragedia alla commedia col sedersi… Nulla spezza meglio una scena tragica quanto l’essere seduto; si passa subito alla commedia (Henri Bergson, Il riso).

NON CADERE NELLA SEPARAZIONE E NEL SILENZIO. Il mio problema non è contestare ma capire. E poiché vivo nell’ambito di una cultura, quella italiana e, come dicevano una volta, occidentale, sento il bisogno di non rompere il filo di attenzione per ciò che il mondo cattolico fa e dice. Per questo mi è stato di «pronto soccorso» Cambiare il cuore, il libro intervista di Alain Elkann con il cardinal Martini. In quelle pagine si trova la voce limpida di un uomo-prete che senza fare alcun salto nel chiuso della teologia o nella «dimostrazione» della scienza, dipana un filo in cui la ragione scorre vicina all’atto di fede, riesce a farla vedere, a farla capire. Per rispetto non viene chiesto all’interlocutore di fare il salto. Ma si sente la determinazione a non interrompere il dialogo, a non buttare avanti, per prima cosa, la condanna o la «prova». È un tempo tragico. Il cardinal Martini chiede, pacatamente e fermamente, di non cadere nella separazione e nel silenzio. Dice: non ci siamo che noi, ciascuno di noi, per arginare l’eccessivo dolore del mondo. È importante tornare a quel piccolo libro per vedere, chiara, la differenza tra la passione di testimoniare una fede e i piccoli giochi di esibizionismo universitario (Furio Colombo, La Stampa, 27 novembre 1993. Il libro Cambiare il cuore, di cui parla Colombo, è edito dalla Bompiani).

QUANDO SI CANTAVA. E perché allora / che eravamo poveri / cantava? / Si cantava a sera, / e anche all’alba / il panettiere cantava / per le vie deserte. / Cantavano tra i filari / nei gloriosi giorni vendemmia: / e la gioia si spandeva / a onde, giù / sulla pianura… / Ora siamo ricchi / e muti. / Ognuno è chiuso / nel suo appartamento, / non esiste più il paese. / Estranei i familiari: / città senza amicizie, / dove nessuno si conosce. / E se conosci, spesso / più cresce la ragione / di essere diffidente (David Maria Turoldo).

L’ANGOLO DI SENECA. Scegliere gli amici. Ovunque io sia, appartengo a me stesso. Non sono in balia delle cose, ma sono io che le prendo in prestito. Quando mi concedo agli amici, non per questo divento assente a me stesso. Circostanze occasionali e doveri sociali mi mettono a contatto con la gente, ma io mi intrattengo solo con quelli che sono i migliori e che scelgo per amici (Ad Luc. 62). L’ospitalità del cuore. Nell’animo va cercato l’amico: lì bisogna accoglierlo, lì trattenerlo e dargli un posto tra i nostri sentimenti (De beneficiis VI, 34, 5). Se la disputa si fa accesa… Ogni volta che la disputa si sarà troppo lunga o accesa, fermiamoci alle prime battute, prima che acquisti forza. La contesa si alimenta da se stessa e caccia a fondo chi vi si immerge. È più facile astenersi dalla lotta che uscirne (De ira III, 8, 8). Amicizia, cioè grande capacità di donare. Non sai qual è il valore dell’amicizia, se non capisci che, essendo amico, sei chiamato a dare molto (Ben. VI, 33, 3).

16 dicembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Animalismo e tartine di paté. C’è chi rimane inorridito di fronte all’ingozzamento delle oche, tuttavia egli stesso s’ingozza tutte le volte che può di tartine di paté de fois gras (Levi Appulo). L’idea passepartout che annulla i problemi reali. L’idea di rivoluzione ci ha oscurato lo spirito. Obnubilati dalla pretesa centralità del criterio della conservazione e della contestazione dell’ordine stabilito, siamo diventati incapaci di comprendere le attività reali, gli effettivi processi sociali (Michel Crozier). A causa delle nostre buone qualità. Il male che facciamo non ci procura tanto odio ed invidia rancorosa quanto le nostre buone qualità (La Rochefoucauld). È un obbligo sociale. Scrivere chiaramente è un obbligo sociale, quasi come quello della camicia pulita (Giuseppe Prezzolini).

IN FRANCIA I CATTOLICI LA PENSANO COSÌ. «Regolarmente, in occasione delle consultazioni elettorali, si levano voci, tra i cattolici, per dolersi del fatto che in Francia non esista un partito specificatamente cristiano che difenda “i valori del Vangelo”. In realtà una simile richiesta implica tre errori: a) non dà fiducia alla maturità politica dei cristiani, considerandoli incapaci, in quanto cittadini, di decidere in libertà e con cognizione di causa; b) dimentica un dato di fatto innegabile: che due cristiani possono trovarsi d’accordo su alcuni principi comuni e separarsi poi non certo sui valori, bensì sui mezzi per raggiungerli; c) qualora avesse successo, quella richiesta, avrebbe l’effetto di mettere l’identità cristiana sullo stesso piano di quella politica. Trasformerebbe quindi. il Vangelo in programma politico, il che equivarrebbe a snaturarlo completamente. Infeudando la Chiesa ad un partito, o il partito “cattolico” alla Chiesa, questa richiederebbe di non apparire più quello che è e deve essere, una società soprannaturale e trascendente, fondata sulla realtà sacramentale, il cui compito è annunciare a tutti Gesù Cristo e il suo messaggio di salvezza. Inversamente, nella misura in cui sarà chiaro che l’identità cristiana trascende le distinzioni politiche, le quali peraltro sono legittime in un sistema democratico, sarà più facile ai cristiani rendere testimonianza alla verità della loro fede ed invitare gli altri cittadini ad affrontare nel modo più degno le questioni politiche, sia distinguendo quello che è accettabile da quello che non lo è, sia lavorando a far sì che gli stessi avversari si confrontino civilmente e si riconcilino tra loro». (Nota sulla richiesta di un partito cristiano, in Chiesa e politica di Hippolyte Simon, Brescia 1993).

NEI LIMITI DELLE NOSTRE FORZE. Da lunghi anni, nei limiti delle nostre forze, che sono puramente morali, noi abbiamo combattuto la demagogia, la compravendita di favori, l’abbiettezza del governo puramente parlamentare, la corruzione politica: e da lunghi anni proponiamo soluzioni ispirate al solo interesse nazionale. Noi ammettiamo che non basta predicare, sebbene siamo convinti che la pura seminagione di idee sia la premessa necessaria dell’azione. Chi vuole agire non può, tuttavia, fare a meno di idee: e non ha il diritto di imporre le proprie idee alla nazione senza adattarsi a vederle prima criticate e combattute liberamente sui giornali e in Parlamento. Noi non siamo degli adoratori del regime parlamentare e dei tipi di governo che escono dai parlamenti. Ma diciamo che essi sono il minore dei mali possibili perché consentono la discussione. La verità non è mai sicura di se stessa, se non in quanto permette al principio opposto di contrastarla e di cercare di dimostrarne il vizio. In quest’ora decisiva, noi ci rivolgiamo a tutti coloro i quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali, alla tradizione, alla continuità della storia nazionale, a tutti coloro i quali sentono che in politica ogni più audace novità può essere iniettata sul tronco della democrazia parlamentare e suggere dalla linfa di questa una vita vigorosa e lunga.

Queste cose Luigi Einaudi scriveva 1’8 agosto 1922 sul Corriere della Sera. Noi le sentiamo vere e illuminanti anche per l’Italia di oggi.

L’ANGOLO DI SENECA. Le decisioni non siano fulmini. Coloro che hanno acquistato un grande potere tra gli uomini stiano attenti a non scagliare sconsideratamente le loro decisioni come se fossero fulmini. Si circondino di consiglieri, ascoltino persino le opinioni di molti, sappiano introdurre temperamenti in decisioni destinate a far soffrire e, quando sia proprio necessario adottarle, si ricordino che persino Giove non si accontentava di un solo giudizio (Naturales quaestiones 11, 43, 2). Non far nulla di cui dover chiedere perdono. Attieniti a questa regola: non far nulla di cui dover chiedere perdono all’opinione pubblica, spregiudicata accusatrice (Ad Marciam 4, 3).

23 dicembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il nostro segno. Sciolta da ogni vincolo / l’esistenza conquisterà l’essenza? /…il nostro segno è l’attesa. Con Dio è così. L’appuntamento è ovunque / ma segreto. Il pensiero che concilia. Chi pensa alla morte / sa perdonare. (Renzo Ricchi)

Io ho le mie nebbie e il mio bel tempo dentro di me. Il tempo ed il mio umore hanno poca relazione tra loro, io ho le mie nebbie ed il mio bel tempo dentro di me; persino il buono o cattivo andamento dei miei affari v’influisce poco. Io mi sforzo qualche volta da me stesso di lottare contro la fortuna: la gloria di domarla fa ch’io la domi con gaiezza; ed al contrario faccio qualche volta il disgustato nella buona fortuna (Blaise Pascal).

L’ARISTOCRAZIA DEL CUORE. Fabio Moreni, Guido Puletti e Sergio Lana sono i tre italiani che il 29 maggio 1993, furono uccisi in Bosnia da una banda di irregolari. Si stavano recando nella città di Zavidovici, con la quale il Coordinamento di iniziativa per la ex-Jugoslavia aveva da tempo preso contatti per portare 61 persone del posto in varie famiglie della provincia bresciana disposte ad accoglierli. Tra le parole più semplici ed alte che hanno suscitato un’eco nel mio cuore nell’arco degli ultimi dodici mesi ci sono quelle che la madre del più giovane dei tre, Sergio, ha indirizzato a coloro che le hanno ucciso il figlio. Ecco la «lettera» di mamma Franca.

«Mi chiamo Franca, sono la mamma di Sergio Lana che assieme ai suoi amici Fabio e Guido è stato ucciso, sulla strada che da Gornji Vakuf porta a Novi Travnick, sabato 29 maggio 1993. Mio figlio aveva 21 anni ed era al suo quinto viaggio in Croazia e Bosnia, veniva come volontario per portare aiuto al vostro popolo, trasportava un carico di viveri per Novi Travnick e per Zavidovici. Sergio era un ragazzo semplice, buono e volonteroso; voleva bene a tutti. Per lui, come per me, non esiste differenza fra croati, musulmani, o serbi: lui voleva aiutare chi soffre, chi ha bisogno… Insieme abbiamo anche pregato perché la pace torni presto nel vostro Paese. Desidero rivolgermi a chi ha ucciso mio figlio: era l’unico che avevo e potete immaginare quanto bene gli volevo. Sergio ha lasciato un grande vuoto nel mio cuore, ma io credo in Dio e sono certa che il mio Sergio ed i suoi amici sono con lui in Paradiso. Vi ho scritto per dirvi che non provo rancore né odio per chi li ha uccisi, ma che io li perdono. Mi hanno riferito che nel gruppo c’era anche una donna, non so se anche lei è una mamma, ma io vorrei che il Signore toccasse il suo cuore e quello degli uomini che erano con lei perché comprendano che la vita di un uomo è sacra, va rispettata e solo volendoci bene ed amandoci tutti potremo portare la pace nel mondo e nei nostri cuori. Mamma Franca».

L’ATTESA DI DIO. Lavorando per un paio di anni al volume Preghiere dell’umanità, uscito in questi giorni presso la Queriniana di Brescia, ho avutola la gioia di esplorare una delle dimensioni fondamentali della nostra esistenza lungo un arco di cinquemila anni. È stata un’esperienza straordinaria. Tra i diversi aspetti della preghiera mi è stato particolarmente caro mettere in risalto quello dell’attesa di Dio, l’attesa della sua venuta in noi, del nostro ritorno a lui. Scelgo due testi esemplari del Novecento, uno di Kafka e l’altro di Rilke. In una pagina di diario così prega Kafka: «Prendimi nelle tue braccia, cioè nell’abisso, accoglimi nell’abisso e, se rifiuti ora, fallo più tardi». E Rilke: «Io aspetto. Dammi un segno, / siamo così vicini / Tra noi soltanto un muro / sottile ha messo il caso: / basterebbe ad abbatterlo / della tua voce e della mia un richiamo. / Cadrebbe senza suono».

L’ANGOLO DI SENECA. Ai potenti manca chi dice la verità. Qual è la povertà che affligge i potenti, che cosa manca a loro che possiedono tutto? Manca chi dice loro la verità. Sono uomini storditi dai mentitori che li circondano, portati ad ignorare la verità perché abituati ad ascoltare cose piacevoli al posto di cose esatte! Occorre dunque liberarli dalla comune congiura di coloro che li ingannano… Gli uomini si sentono tanto grandi quante volte se lo sentono dire (De beneficiis VI, 30, 3-5).

30 dicembre 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. È giunta 1’ora di sapere. Or sai nostri atti e di che fummo rei (Dante Alighieri, Purgatorio 26, 88). Non essere prigionieri del passato. Per correr miglior acque alza le vele (Purgatorio 1, 1). La parola, segno distintivo della persona. Opera naturale è ch’uom favella (Paradiso 26, 130). Per l’innamorato è così. Mi vinse il lume d’esta stella (Paradiso 9, 33). L’augurio di un futuro più degno. Con miglior corso e con migliore stella (Paradiso 1, 40). L’insegna di una vita bella. Puro e disposto a salire alle stelle (Purgatorio 33, 145). No, non deve accadere. Tutti sviati dietro al malo essemplo! (Paradiso 18, 126). Il paradiso. Colà d ove gioir s’insempra (=è per sempre) (Paradiso 10, 148).

L’avversione per la verità è inseparabile dall’amor proprio. In questa avversione per la verità vi sono diversi gradi; ma possiamo dire che essa si trovi in tutti in qualche misura, perché è inseparabile dall’amor proprio. E così succede che, non potendoci rendere un servizio di cui si sa che ci riesce sgradito, gli altri ci trattano come noi vogliamo essere trattati: noi odiamo la verità e loro ce la nascondono; vogliamo essere adulati e loro ci adulano; ci piace di essere ingannati e loro ci ingannano (Blaise Pascal). Il filosofo ai miei occhi. Il filosofo ai miei occhi è prima di tutto un uomo che è sempre pronto, quale che sia la sua età, a rifarsi studente (Henri Bergson).

UNA BAMBINA E IL PARADISO. Agosto 1993. Una bambina di nome Marta, cinque anni e mezzo, decide di «adottare» per tre settimane, il periodo delle vacanze trascorse insieme, il nonno ammalato e lo fa con preveggente delicatezza, con tanta grazia. Nelle brevi passeggiate non mi lascia un istante. Mi scrive a stampatello biglietti traboccanti di affetto. Mi tiene silenziosamente compagnia anche quando ascolto musica classica, in quei giorni di preferenza Beethoven.

«Ad un amico di papà, mi dice un pomeriggio, è venuta la tua malattia. Lui era giovane, ma è morto lo stesso. Tu, nonno, quando morirai?». «Non lo so, rispondo, ma cerco di essere pronto per il giorno della partenza». E lei, di rimando: «Quest’anno io vado in prima, aspetta che arrivi in quinta. Dài, nonno, che ce la fai!».

Dopo una pausa meditativa il discorso va diritto al post-mortem, all’altra esistenza. «Come sarà il paradiso? Il Signore lo vedrai con i tuoi occhi? A far festa con il Signore ci saranno altre persone, e se tu non le conosci? Tu chi vuoi incontrare?». «Vorrei incontrare le persone a cui ho voluto più bene». «Allora ad aspettarti ci sarà di sicuro Beethoven. E in paradiso la sua musica la suonano gli angeli!».

L’ATTESA DI DIO. Aspetto / ciò che non ha origine in me. / Aspetto te, / genio e più che genio, / Dio e più ancora, / Dio e uomo, / Cristo Gesù (Max Jacob, 1876-1944). Sono solo un uomo, / ho quindi bisogno di segni visibili, / il costruire scale di astrazioni mi stanca presto… / Capisco però che i segni possono essere soltanto umani. / Desta un uomo, in un posto qualsiasi della terra, / e permetti che, guardandolo, / io possa ammirare te (Czeslav Milosz). Così aspettano Dio un poeta francese e un poeta polacco.

L’ANGOLO DI SENECA. Dire a quelli che comandano ciò che non vogliono sentirsi dire. A coloro che sono fortunati e sono posti in cima alla scala sociale tu devi dire non ciò che vogliono ascoltare, ma ciò che vorrebbero avere sempre ascoltato. Nelle loro orecchie piene di discorsi degli adulatori entrino, talvolta, parole sincere, un consiglio utile. «Che posso fare per un uomo potente?» mi domandi. Fa’ in modo che non confidi nella fortuna, che sappia che ci vogliono molte e fedeli mani per trattenerla. Non gli darai poco se gli farai deporre la sciocca fiducia che la sua potenza durerà sempre, se gli insegnerai che le cose che sono venute in nostro possesso si perdono più rapidamente di quanto si acquistino. Non si indietreggia gradualmente come si è proceduto per arrivare alla somma potenza, ma il più delle volte tra la più alta e la più bassa fortuna vi è solo un passo (De beneficiis VI, 33, l-2).

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.