Detti e Contraddetti 2000 – 2° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 2000 –SECONDO SEMESTRE

6 luglio 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ho tanto amore in me. Ho tanto amore in me stessa per tedeschi e olandesi, ebrei e non ebrei, per tutta l’umanità e dovrebbe pur essere lecito cederne una parte. Ciò che conta. Non sono i «fatti» che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa. Non è necessario parlare sempre. Non è necessario parlare sempre. Anche tacendo si può stabilire un contatto e dialogare. Là dove ci sono uomini. Là dove ci sono uomini, c’è anche vita e questa vita si presenta nelle sue mille sfumature – «con un sorriso e con una lacrima» – per dirla con un’espressione popolare. Cose viste. Nel campo di Westerbork ho visto bambini che non volevano mangiare un panino finché i genitori non ne avessero ricevuto uno anche loro. Non ad ogni costo. Non si tratta di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva. Il coraggio. Ogni momento della propria vita in cui si è privi di coraggio è un momento perduto. Il vertice di ogni anima mistica. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal dolore per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità. Se solo facessimo in modo che, malgrado tutto, Dio fosse al sicuro nelle nostre mani. (Etty Hillesum)

CI VUOLE LA LOGICA E LA LOGICA È CHIAREZZA MORALE. La democrazia è una creazione dell’Occidente. Altre civiltà di altri continenti hanno dato al mondo grandi religioni, capolavori d’arte e di poesia, saggezza di vita, ma la democrazia è frutto della civiltà occidentale, anche se il suo valore non si limita a quest’ultima. Essa implica, forse in primo luogo, la logica, la capacità di ragionare indispensabile per costruire le regole necessarie alla convivenza civile, all’esercizio e al controllo del potere. Da Aristotele a San Tommaso ai loro discendenti moderni, la logica – con i suoi principi fondamentali, come quello di non contraddizione – insegna a pensare e dunque a vivere e ad amare in senso forte. La logica è pure chiarezza morale, giustizia, qualcosa di essenziale per non confondere le carte e per non scambiare truffaldinamente i ruoli tra vittime e colpevoli, per mandare in prigione il ladro e non il derubato, come accade invece a Pinocchio. Democrazia e logica sono spesso disprezzate dai retori in nome del sentimento. Ma quei valori sono necessari per stabilire quelle regole e quelle garanzie di tutela del cittadino senza le quali gli individui non sarebbero liberi e non potrebbero vivere a fondo la calda vita, come la chiamava Umberto Saba (Claudio Magris sul Corriere della Sera del 25 maggio 2000).

SUL NOSTRO MODO DI RAPPORTARCI A DIO. 1. Gesù Cristo dice che la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell’avere Dio in sé. La domanda su Dio non è dunque tanto quella se Dio esista, quanto quella se io voglio che Dio sia in me, che esista nella mia vita. È questa la domanda decisiva, poiché l’amore sta appunto nel dire ad una persona: voglio che tu esista! Che tu esista nella mia vita, che la mia vita esista davanti a te, in te! Ancora una volta è dall’amore che nasce la vera fede. 2. Prima di dirci che cosa noi dobbiamo fare per Dio, il Vangelo ci dice che cosa Dio ha fatto per noi. Prima di essere una lezione di morale, il Vangelo è l’annuncio di una speranza. Si può essere buoni, in un certo senso, anche senza il Vangelo; senza il Vangelo, però, non si può sperare che la morte sia vinta. Senza il Vangelo, inoltre, rimaniamo senza pentimento e ciò che il cristiano ha di più, rispetto al non credente, è il pentimento dei peccati.

Questi due brani, profondi ed estremamente chiari, sono tratti dal volume La tenda e i paletti di P. Giulio Cittadini, edito recentemente dalla Morcelliana. Si tratta di un libro nato da un lungo cammino di riflessione di una coscienza intenzionalmente aperta all’ascolto della parola di Dio e al bisogno di farla conoscere agli uomini del nostro tempo.

13 luglio 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Obbedienza al vero e fedeltà alla giustizia. Una libertà che non vuole obbedire è sempre flagellata dalla sventura (William Shakespeare). La vita esteriore come simbolo. Ho sempre considerato la mia vita esteriore come un simbolo, un segno visibile di quello che accade in me (Johann W. Goethe). La moralità informatrice degli atti quotidiani. Fino a tanto che non si farà andare di pari passo l’arte della vita quotidiana con la tecnica che mette a nostra disposizione nuovi mezzi per dominare la natura ed anche nuovi godimenti, tutti i prodigi del genio non contribuiranno affatto al raggiungimento del fine vero della vita (Maine de Biran).

COSTRUIRE LA «NUOVA CITTADINANZA». Quali sono i nuovi termini in cui si pone il tema della cittadinanza oggi? Non si può parlare di cittadinanza oggi, infatti, nello stesso modo in cui si poteva fare cinquanta o cento anni fa. Se la cittadinanza tradizionale si definisce come un rapporto con lo Stato e con la comunità nazionale, la nuova cittadinanza nasce come un insieme di poteri e responsabilità dei cittadini da esercitare nella vita quotidiana, nei diversi campi dell’azione pubblica: poteri e responsabilità dei cittadini in quelle questioni d’interesse pubblico che investono direttamente, ogni giorno, la vita delle singole persone, delle famiglie, dei gruppi sociali. L’idea di un ruolo finalmente attivo dei cittadini nell’animare quotidianamente il governo della cosa pubblica in situazioni concrete è assolutamente inedita rispetto al ruolo tradizionale che ha il suo momento di massima espressione nell’esercizio del diritto di voto.

CHE COS’È LA «CITTADINANZA ATTIVA?». La cittadinanza attiva può definirsi come quella capacità che i cittadini hanno di organizzarsi in modo multiforme, di mobilitare risorse e di esercitare poteri per la tutela di diritti, con lo scopo di contribuire alla difesa e allo sviluppo di tutto ciò che riguarda il bene comune. In questa prospettiva la sussidiarietà non va intesa tanto come un metodo per definire le competenze tra i diversi livelli dell’amministrazione, ma per affermare che i cittadini possono e devono esercitare realmente funzioni pubbliche. Insomma, la cittadinanza attiva esiste nella dimensione quotidiana della vita democratica e si occupa dell’effettiva tutela dei diritti, riconosciuti in astratto e di continuo calpestati. Forme specifiche ed elettive di cittadinanza attiva possono essere – a rappresentanza delle esigenze dei cittadini e nella costruzione dei servizi richiesti per un riconoscimento effettivo dei loro diritti – il volontariato, l’associazionismo, le cooperative e le altre imprese sociali. Questa direzione di marcia unisce in Italia milioni e milioni di persone, ed è importante cogliere l’alto significato, la portata innovatrice ed il carattere planetario del fenomeno.

Queste riflessioni sono tratte da un denso articolo apparso sulla rivista bimestrale Coscienza – Fatti idee dialoghi, n. 2 del 2000. L’autore è Giovanni Moro, epistemologo delle scienze sociali. Sono idee che aiutano a capire meglio fermenti positivi di grande portata che riscattano il nostro Paese dalla meschinità e dalla miopia di tanta parte della sua classe politica.

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. La tortora e l’uragano. Il mio piccolo germe di grandezza / vorrei urlasse come / questo fuoco nel cielo divampante / come le nubi. / Come il gigante platano che s’incendia nel tramonto… // Amante come sono della bufera vorrei vedere il mondo / avvolgersi di fuoco, / e ogni uomo urlare d’ebrezza… / Questo vorrei. / Ma nel mio fondo non sono che una pavida tortora / che fa cru-crù e fugge / a un lieve battito di mani (Umberto Bellintani, E tu che m’ascolti, Milano 1963).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. E non Ti vedo. Sei penetrato in me / senza fartene accorgere, come da una porta socchiusa / il delicato amante che rimane alle spalle / per non turbare il sogno che lo sogna / ma sei vivo, più vivo / dell’assente invocato. / Ti presagisco nella / perplessità d’ogni amore, / nell’ascolto che supera la voce, / nello sguardo che varca la veduta. / Ma dove sei? Dove cominci? / Sei il proseguo / d’ogni carezza, il cuore più accorato / della gioia e del dolore. / E non Ti vedo, / come non vedo l’aria che respiro / e la luce profonda che colora (Renzo Barsacchi, Marinaio di Dio, Firenze 1985).

20 luglio 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando il potere si trasforma in prepotenza. Il potere va / e viene; / logora chi non ce l’ha, / e corrompe chi lo tiene (Luigi Compagnone). Allora c’è bellezza e forza. Tanto più le linee sono semplici, tanto più c’è bellezza e forza (Jean-Auguste-Dominique Ingres). Al termine dell’attesa. Credo, Signore, / che al termine dell’attesa / non c’è ancora attesa, / ma l’incontro. / Credo, Signore / che dopo la morte / non c’è ancora morte, / ma la vita (Questi versi sono apparsi in un necrologio sul Giornale di Brescia il 4 maggio 2000). Io credo in un universo invisibile. Vi è in me, vi è sempre stato e vive in me con ogni respiro, la fede in un’attività a cui siamo stati chiamati. Io credo in un universo invisibile nel quale inscriviamo ciò che abbiamo inconsapevolmente compiuto (da una lettera della poetessa ebrea tedesca Nelly Sachs a Paul Celan).

IN CASO DI VIOLENZA SESSUALE. Durante il conflitto in Kosovo nel kit sanitario fornito dalle Nazioni Unite ai profughi c’era anche la cosiddetta «pillola del giorno dopo» da usare in caso di violenza sessuale. La domanda che sorge spontanea è: la pillola del giorno dopo non è anch’essa una tecnica abortiva? In data 13 aprile 1999 leggo due giudizi diversi, il primo è di Battista Mondin, apparso su Il Tempo; il secondo è di Elio Sgreccia su Avvenire. Mondin è un noto teologo, Sgreggia è il direttore dell’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica. Il punto di vista di padre Mondin può essere così riassunto, con le sue stesse parole: «Nei casi di stupro etnici, ma anche nei casi di violenza tra le mura domestiche, è lecito l’uso della cosiddetta pillola del giorno dopo. Infatti una generazione umana presuppone un atto di amore che non può essere surrogato dalla violenza. Dalla prima decisione di Giovanni XXIII dopo gli stupri delle suore in Congo a quella di Giovanni Paolo II sulle violenze usate in Bosnia, la Chiesa non può non ammettere nella sua misericordia – ad mala maiora vitanda – l’uso della cosiddetta pillola del giorno dopo, a patto naturalmente che l’embrione non si sia già formato». Sulla questione lo stesso giorno si registra l’intervento del segretario del Pontificio Consiglio per la Vita, il quale si esprime in questi termini. «La pillola del giorno dopo è una vera e propria tecnica abortiva e non ha nulla a che vedere con la pillola estroprogetinica contraccettiva, quella cioè che impedisce l’ovulazione o comunque la fecondazione». Mons. Sgreggia precisa il suo pensiero con una puntualizzazione sul caso delle religiose in Congo. «In relazione al caso di alcune religiose a rischio di essere violentate in Congo, venne allora considerata la legittimità morale dell’assunzione preventiva, per legittima difesa, di pillole che impedissero l’ovulazione e la fecondazione».

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Mia madre. Le dicevo buonanotte al telefono. / Rispondeva un sussurro, buonanotte. / La sua voce staccata dal suo volto. / E a tradimento io la registravo. // Sapeva, la gentile, a che cosa pensavo? / Che un certo aprile era già all’agguato, / che presto l’aspettava un chissà dove, / oltre la terra e il tempo. // Un aprile? In che anno? Avevo letto / che aprile è il più crudele dei mesi. / E venne la sua voce, un buonanotte / ultimo il giorno cinque. // Mi resta quella voce registrata. / Viene da altre ere, altri pianeti. / Pura essenza in cui lei si trasfigura (Maria Luisa Spaziani, I fasti dell’ortica, Milano 1996).

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Oltre il cieco sfrenarsi del mio cuore. Oltre il cieco sfrenarsi del mio cuore, / ha cercato lo Spirito Santo il mio spirito. I tuoi passi, i tuoi sguardi. Sento / sospirare i tuoi passi. / Mi fioriscono dolci nell’anima i tuoi sguardi / e tutta mi prendono / quando i miei occhi migrano nel sonno. Sgela il ghiaccio dell’arroganza. Solo la conoscenza è in potestà dell’uomo; / ma coltivarla fino all’ultima chiarezza, si può, / se sgela il ghiaccio acuto d’ogni arroganza. Alla persona amata. Non sapevo che fosse malattia, / e io di voi son malata. Io dormo ma il mio cuore vigila. Su un salmo a notte riposa il mio cuore. (Else Lasker – Schüler, Ballate ebraiche e altre poesie, Firenze 1995)

27 luglio 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Troppo facile. Ciascuno pregia le cose conformi alla propria inclinazione. I simulatori. Sotto onesti sembianti fanno inganni. A chi comanda. 1. Chi comanda deve dare esempio. 2. La soverchia clemenza fomenta i delitti. 3. Chi dell’altrui pompeggia si rimane schernito. 4. Aiuti potenti nuocciono più che non giovano. (Emanuele Tesauro, 1646)

Alternativa secca. La vita o è stile o è errore (Giovanni Arpino). Il sottile meccanismo psicologico. Là dove noi non siamo, si sta bene. Nel passato noi non ci siamo più, ed esso ci appare bellissimo (Anton Checov). Ogni tempo, invece, ha il suo bello. Ammiri solo gli antichi, Vacerra. / E lodi i poeti solo se sono già morti. / Scusami, Vacerra, ma non vale la pena / che io, per piacerti, muoia (Marziale).

«QUANDO UNO ABBANDONA IL PESO PLUMBEO DEL PROPRIO ESSERE…». Una scrittrice italiana, Natalia Ginzburg, molto attenta a cogliere i moti interiori dell’animo umano, in un suo libro descrive la condizione dell’uomo completamente accecato dall’ira e che, tuttavia, avverte di colpo l’insensatezza del suo comportamento.

«Tutt’a un tratto gli viene da ridere, e trova comico anche se stesso e la sua furia, e la sua collera d’improvviso crolla e cade in cenere ai suoi piedi; allora lui rimane stupefatto e trasecolato e in qualche modo anche deluso, ma sente una stranissima sensazione di leggerezza, di freschezza e di liberazione, come se il cielo plumbeo del suo stesso essere fosse caduto dalle sue membra; e gli sembra che lì, nella cenere della sua collera e nella sua leggerezza, lì forse sta Dio… Se Dio esiste, si trova sempre negli istanti e nei luoghi dove uno abbandona il peso plumbeo del proprio essere, guarda se stesso come se fosse un altro, guarda il suo prossimo come il suo prossimo; e guarda Dio come Dio» (Mai devi domandarmi, Torino 1991, p. 195).

Questo brano ci introduce con finezza a capire la grazia dell’auto-ironia, la forza liberante dello humour.

IL PARADISO RITROVATO. Il Vangelo è annunzio di vittoria della gioia. La malattia è fugata, la lebbra è mondata, i demoni sono scacciati, i malfattori sono invitati al banchetto, la peccatrice è perdonata, il brigante è assolto. Tutti sono beati o saranno beati, anche quelli che piangono, anche quelli che gemono, anche quelli che il mondo disprezza. A tutti è promesso il regno dei cieli, che non è lontano nel tempo ma in ciascuno di noi. Brevità della vita. Un uomo di 70 anni possiede 36.792.000 minuti. Anche se la metà è consacrata al sonno e alla necessità del corpo, gli restano 18.000.000 di minuti per vedere, godere, contemplare, conoscere. In un minuto può balenare un’idea, apparire una bellezza: un cielo, una donna, un fiore, uno sguardo. Povero? Ogni uomo è un Dio in esilio che non si ricorda della sua patria, è un Creso smemorato che non sa più contare le sue ricchezze; è un padrone che non conosce i confini del suo dominio. Ogni uomo è un lettore che non sa più sillabare il poema dell’universo, un erede che non sa chinarsi per raccogliere la sua sterminata eredità, un re il quale non sa che il martello, la zappa, la penna non sono che scettri. Gemme. Che bisogno hai di possedere gemme? Alza gli occhi al cielo e le costellazioni scintillano per te, più fulgenti degli zaffiri. Vai in un prato alla primalba e ogni foglia brilla come un diamante più puro di quelli delle corone imperiali. Cogli una rosa di macchia e guardala contro il sole e vedrai un rosso più ardente di quello dei rubini. (Da Pagine di diario e di appunti – Scritti postumi di Giovanni Papini, Milano 1966)

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Questa l’eclisse. Questa l’eclisse che abbiam vista insieme, / l’altra ci attende ad uno ad uno: / non sarà divulgata dai giornali / o trasmessa dalla televisione. // Non vi saranno scienziati in subbuglio / né telescopi puntati a spiarla, / e nemmeno il commento degli uccelli, / la loro gioia dopo l’ansia. // Prevederla è impossibile. / Una creatura, sola, / avanzerà sull’orlo della tenebra / e fisserà l’orrore / d’un sole che si spegne. // E su lei sola poi verrà la piena / della luce stupenda, in un ritorno / mille volte più intenso. / Ma non più in questo mondo (Margherita Guidacci).

3 agosto 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Far ricorso alla passione contraria. Lo sdegno e la speranza tolgono il timore, l’allegrezza leva la malinconia. Una passione d’animo, infatti, non viene superata dai medicamenti, ma dalla sua passione contraria (Santorio di Capodistria, 1582-1636). Preghiera specialissima. Signore, fa’ che i cattivi diventino buoni e che i buoni diventino simpatici (Homo Quidam). Niente blabla. Passare del tempo in silenzio ringiovanisce uomini e popoli (Cesare Pavese). La poesia e il poeta. La poesia non è solo espressione della personalità del poeta, ma anche fuga dai suoi limiti così dolorosamente avvertiti (Levi Appulo). Per realizzare un sogno. Il modo migliore per realizzare un sogno è quello di svegliarsi (Paul Valéry). «Badate fanciulle…». Se vedete il pericolo, correte! / Spesso sbagliate solo per difetto / di scaltrezza. / Badate fanciulle, / ai seduttori con l’amo. / Vi faran sanguinare e sarà troppo tardi (Christian Schubart).

IL PARADISO RITROVATO. Beni essenziali. Bisogna rispondere. Non farsi vincere. A dispetto di tutto affermare la vita e la gioia della vita. A dispetto del buio cercare la luce. Il fumo si dissiperà. Occhio. Tutto dipende dall’occhio e dall’animo. Se guardi il mondo con l’occhio dell’innamorato ogni cosa ti sembrerà un dono generoso, da te meritato nel momento che l’accogli. Guarda il mondo con l’animo del fanciullo e ogni cosa ti apparirà nella sua vera essenza, cioè capolavoro dimenticato, fonte di stupore, promessa di felicità.

Ricchezze. Siamo ricchi: c’è il mare e Platone, i fiori e san Francesco, le stelle e Shakespeare. Tutti i morti son vivi, tutti i vivi possono diventare immortali (Da Pagine di diario e di appuntiScritti postumi di Giovanni Papini, Milano 1966).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Nella Seconda Guerra Mondiale. Nella Seconda Guerra Mondiale / non si affrontarono le sole armi, / prima arrivarono ai ferri corti / le idee avverse dei belligeranti. / L’oscuramento di ogni luce / si estese anche alle anime / e sui singoli mondi interiori / calarono fitte tenebre; / a queste si alternavano / le illuminazioni dei bengala. / A indicare un sentiero alla verità / restò appena una canzone: / «Vieni c’è una strada nel bosco… / il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu?» (Valentino Zeichen, Gibilterra, Milano 1991).

10 agosto 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando il secondo premio vale più del primo. In una gara letteraria cerca di avere il secondo premio, perché il primo si dà sempre a chi gode prestigio sociale, mentre il secondo non si ottiene che per giusto merito (Miguel de Cervantes). Colui che agisce senza meditare è sempre senza coscienza; ha più coscienza chi più si ferma a contemplare (Johann W. Goethe).

Ascendere insieme. La vita solo allora è bella davvero quando è ascensione. Perché la coscienza possa parlarci. Chi voglia udire la propria coscienza bisogna che sappia far silenzio intorno a sé e dentro di sé. Il sì comporta il no. Per imparare certe cose bisogna disimpararne certe altre. (Arturo Graf)

PASOLINI NON CANCELLA IL SUO DRAMMA: LA LETTERA-CONFESSIONE A DON GIOVANNI ROSSI. La ringrazio tanto per le sue parole della notte di Natale: sono state il segno di una vera e profonda amicizia, non c’è nulla di più generoso che il reale interesse per un’anima altrui. Io non ho nulla da darle per ricompensarla: non ci si può sdebitare di un dono che per sua natura non richiede di essere ricambiato. Ma io ricorderò sempre il cuore di quella notte. Quanto ai miei peccati, il più grande è quello di pensare in fondo soltanto alle mie opere, il che mi rende un po’ mostruoso; e non posso farci nulla, è un egoismo che ha trovato un alibi di ferro in una promessa con me stesso e gli altri da cui non mi posso sciogliere. Lei non avrebbe mai potuto assolvermi da questo peccato, perché io non avrei mai potuto prometterle realmente di avere intenzione di non commetterlo più.

Gli altri due peccati che lei ha intuito sono i miei peccati pubblici: ma quanto alla bestemmio, glielo assicuro, non è vero. Ho detto delle parole aspre contro una data Chiesa e un dato Papa: ma quanti credenti, ora, non sono d’accordo con me? L’altro peccato l’ho ormai tante volte confessato nelle mie poesie, e con tanta chiarezza e con tanto terrore, che ha finito con l’abitare in me come un fantasma familiare, a cui mi sono abituato, e di cui non riesco più a vedere la reale, oggettiva entità. Sono bloccato, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi, guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori). Sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, cosicché la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre.

La lettera è di Pier Paolo Pasolini, che la scrisse il 27 dicembre 1964, l’anno in cui realizzò il film Il Vangelo secondo Matteo. È indirizzata a don Giovanni Rossi, il fondatore della «Pro Civitate Christiana» di Assisi. Don Giovanni Rossi risponde a stretto giro di posta: «Quello che interessa per la tua grande anima non è il passato, ma l’avvenire». Il brano riportato si può leggere nel secondo volume delle Lettere 1955-1975 di P. P. Pasolini, nelle edizioni Einaudi (Torino 1986).

PER NON VEDERE E PER VEDERE MEGLIO. Quante volte chiudiamo gli occhi per non vedere e quante invece per vedere meglio? Me lo domando perché credo che riflettere sulla differenza fra l’una e l’altra cosa possa aiutarci a capire qual è la vita che preferiamo

Non vedere quello che ci dispiace, ci addolora, ci spaventa o ci fa arrabbiare, oppure cercare semplicemente di non vedere nulla è molto meno utile che chiudere gli occhi e riempirli delle nostre più intime, arbitrarie e liberatorie fantasie. In quest’epoca di perdite e sofferenze chiudere gli occhi per distinguere con esattezza non solo quello che non vogliamo perdere, ma anche tutto ciò che abbiamo urgente bisogno di immaginare, oltre a essere un conforto, ci permette di adempiere quel dovere di provare meraviglia. Un dovere a cui non possiamo sottrarci.

Così Ángeles Mastretta, scrittrice messicana, apre uno dei primi capitoli del libro Il mondo illuminato, recentemente tradotto in italiano da Feltrinelli (Milano 2000). Non è un romanzo, ma qualcosa in cui l’autrice ci parla più direttamente di sé attraverso ricordi, episodi di vita quotidiana, aneddoti e ci rammenta come il mondo possa essere appunto illuminato.

17 agosto 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Possiamo essere mostri. Forse la nostra sopravvivenza dipende dall’ammissione che possiamo essere mostri, cosicché l’autoconsapevolezza rinforza il nostro impegno verso ciò che di più nobile abbiamo in noi (Scott Turow). Ballata alla luna. Era nella notte bruna / sul campanile ingrigito / la luna / come un puntino sulla i (Alfred de Musset). L’uomo vile. L’uomo vile muore più di una volta prima di morire (Vincenzo Monti). L’attesa. Attendo Dio con ingordigia (Arthur Rimbaud). Non arrossire mentr’io ti guardo. L’uomo è l’unico animale capace di arrossire. Ma è anche l’unico ad averne bisogno (Mark Twain). Benedetta Italia. L’Italia è un Paese di molti libri, di innumerevoli premi e di scarsi lettori (Gianfranco Ravasi). Per non usare la violenza e per non indurre gli altri a farlo. 1. Lo stile di vita che dona la fortezza richiede fermezza anche nel concedere (Dag Hammarskjöld). 2. La debolezza ha sempre rappresentato una tentazione a usare la forza (Henry Kissinger).

MAURIZIO COSTANZO SHOW. A Roma dovetti fare un’insulsaggine dietro l’altra per osservare il rituale della promozione di Male d’amore, il romanzo pubblicato da Feltrinelli nel 1996. Dovetti, per dire la cosa peggiore e risparmiarvi le briciole di tedio, partecipare ad un programma televisivo intitolato Maurizio Costanzo Show, condotto da un signore che è un incrocio implacabile fra un tassista chiacchierone e un prete di campagna, che a detta degli editori ha l’indice di ascolto più alto del paese. Cosicché non bastò che mi sorbissi due ore e mezza di trasmissione in diretta a cui partecipavano, insieme a me, un mago e una donna che, data la lentezza della giustizia italiana, doveva entrare in carcere dopo aver condotto per cinque anni quella vita utile e rispettabile che non aveva conosciuto quando commise reati contro la salute e ruberie varie, ma fui costretta anche ad assistere al pianto di quella buona donna, che scoppiava in lacrime solo a sentir menzionare il proprio nome, cosa che quel tale Costanzo faceva ogni qualvolta gli era necessario toccare i delicati sentimenti del suo tribolato pubblico. C’era anche una star che sembrava di plastica, con i capelli biondi tinti, un brillantino incastonato in una narice e tutto il rimmel che può contornare i più azzurri occhi azzurri… L’accompagnava un attore maturo, uno di quelli che hanno raggiunto una certa fama ma non quella che credono di meritare, e che forse per questo parlava con voce melliflua e aveva i mocassini così lucidi. Ovviamente, c’era un politico che faceva figuracce. Mi avevano detto che quello era un programma frequentato da politici e a lui di sicuro avranno detto che era un programma frequentato da scrittori; fatto sta che eravamo entrambi assolutamente fuori posto… C’era pure un professore che mostrava il suo libro sulla Bosnia come fosse l’ostia consacrata. Una simile accozzaglia non l’avevo mai vista neanche nel film più dissacrante di Felini. La racconto per cercare di esorcizzare la sensazione di panico che ancora oggi mi provoca il ricordo.

Questa pagina è tratta dal volume Il mondo illuminato di Ángeles Mastretta, scrittrice tra le più interessanti nella narrativa latino americana contemporanea. Ormai assuefatti e in qualche misura plagiati da spettacoli come quello descritto dalla Mastretta, forse noi italiani abbiamo bisogno di una voce che, essendo fuori dal coro, ci aiuti a capire il degrado culturale e morale del nostro paese. Un degrado di cui non bisogna farsi complici per interesse o per viltà, ma neppure per indifferenza e stupidità, subendone passivamente le forme più nefaste proprio perché apparentemente innocue ed ormai entrate a far parte della vita quotidiana.

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Ti è passato accanto il Signore. Ti è passato accanto il Signore / e non hai aperto la porta / della tua casa. // Le luci di tutti gli smeraldi, / i nitidi occhi delle stelle più pure, / l’alito della vita che spira / tra selve d’uomini e di foglie / sono povere cose nel nulla / di fronte al dono che il Signore / voleva recarti, quando, / forte di un silenzio d’amore, / ha sostato davanti alla soglia / della tua casa (Donata Doni, 1913-1972).

24 agosto 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. I francesi dicono «touché», «colpito». Perché osservi – dice Gesù – la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Vangelo di Matteo 7, 3 e 5). Lungo la via di un alto ideale. Meglio morire lungo la via di un ideale troppo alto che non partire affatto (Origene). Che cos’è lo stile? Lo stile è l’impronta di ciò che si è in ciò che si fa (René Daumal, scrittore francese, 1908-1944. La definizione ci sembra più completa e specifica di quella celeberrima di Georges Buffon «Lo stile è l’uomo»).

La coscienza, nostra regola. 1. Dopo Dio, la coscienza sia la nostra guida e la nostra regola in ogni cosa affinché, sapendo di dove soffia il vento, noi possiamo meglio spiegare le ali (Giovanni Climaco, La scala del paradiso, V-VI secolo d.C. Gli scritti di questo grande monaco del Sinai furono molto cari a Kierkegaard). 2. La coscienza non m’impedisce di commettere un peccato. Impedisce, però, di goderne in pace (Theodore Dreiser, romanziere americano, 1871-1945).

LE PAROLE. Vi sono le parole che servono. Non sono educative. Sono quelle cui ricorrono i falsi maestri che manipolano le coscienze. Sono le parole dell’indottrinamento e del conformismo. Sono, soprattutto, le parole di chi intende l’educazione non come aiuto all’educando, ma come occasione e mezzo per affermare se stesso. Le parole che servono sono parole che rendono, non però in crescita umana, in maturazione dell’atteggiamento critico, nell’abituale disposizione a scegliere e praticare il bene, ma perché riducono l’educando a strumento. L’educazione, che doveva essere «servizio» alla progressiva conquista dell’autonomia, viene allora stravolta a servizio di chi è il più forte.

Vi sono poi le parole che piacciono. Anche queste non sono educative. Sono le parole dei giovanilisti, ossia di quegli uomini e quelle donne, magari già molto oltre i fatidici «anni anta», genitori o insegnanti, che per principio danno sempre ragione ai giovani. Le parole che piacciono sono le più facili. Ottengono sicuramente successo. Ma sono quasi sempre le più sottilmente perfide perché nascondono le frustrazioni, il disimpegno, la fuga dalle responsabilità, il timore di avere noie o di provocare reazioni spiacevoli, che da alcuni anni intaccano la coscienza di troppo adulti.

Vi sono, infine, le parole che salvano. Sono le uniche educative. Le parole che rendono non sono mai parole che salvano e soltanto raramente, più per caso che per forza intrinseca, lo possono essere quelle che piacciono. Le parole che salvano vengono tutte dall’amore pensoso, ma non hanno una sola tonalità. Possono essere trepide o forti; dette nella confidenza di un colloquio o dichiarate con fermezza davanti ad un’assemblea che urla e vuol intimidire; possono esortare con fiducia, ma anche correggere con lealtà; dicono la gioia per i progressi, ma anche la pena per le debolezze ed i cedimenti. Le parole che salvano sono sempre parole di verità. Non ingannano mai, in nessun modo e per nessun motivo. Sono parole d’amore, che rispettano la coscienza e non s’arrestano di fronte a qualsiasi ostacolo. Sono parole che nascono dalla riflessione, ma anche dall’esperienza e dalla conoscenza di ciò che serve veramente ad essere uomini liberi, degni, consapevoli del senso della vita perché radicati nella verità.

Questa pagina, incisiva ed appassionata, a me sembra particolarmente bella. È uno degli editoriali che Enzo Giammancheri scriveva per la rivista Pedagogia e vita, pubblicato da La Scuola di Brescia. Il testo risale a vent’anni fa, al 1980, ma è di straordinaria attualità.

LA PREGHIERA ECUMENICA DI… LUTERO. «O Dio eterno e misericordioso, tu sei un Dio della pace, dell’amore e dell’unità, non della discordia e della divisione. Ti preghiamo e t’invochiamo perché tu, unico fondamento dell’unità, voglia radunare per mezzo del tuo Santo Spirito tutto ciò che è disperso, tutto ciò che è diviso. Concedici di cercare solo la tua unica, eterna verità, abbandonando ogni discordia e facendo sì che mente, volontà, scienza, sentimento e intelligenza trovino la loro norma solo in Cristo Gesù, nostro Signore» (dal volume X dell’edizione Weimar delle Opere di Lutero).

31 agosto 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Allora, non prima. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore (Dietrich Bonhoeffer). La logica di chi non capisce nulla. Notando che una rosa / è più profumata di un cavolo, ne deduce che deve dare / anche una minestra migliore (Henry L. Mencken). La musica dell’anima. Se commetteremo ingiustizia, Dio ci lascerà senza musica (Flavio Cassiodoro, calabrese vissuto tra il 490 e il 550 d.C.). Menandro aggiornato. L’oro apre tutto, anche le porte del carcere (Levi Appulo). Il potere anonimo. I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata (Franz Kafka). Si fa presto a diventare senza cuore. Il cuore indurisce alla svelta se non si dispone a dare (Primo Mazzolari).

Pericolosa ridicolaggine. La più pericolosa ridicolaggine delle persone vecchie che furono piacenti è di dimenticare che non lo sono più. Errore imperdonabile. L’educazione che di solito s’impartisce ai giovani è un secondo amor proprio che in essi si desta. (François de La Rochefoucauld)

L’ERASMISMO, MAGISTRATURA SPIRITUALE DELLA CRISTIANITÀ. Erasmo, coscienza critica ed anche un po’ enfant terrible della Chiesa cattolica, rimase sempre in essa, ma ebbe discepoli e amici sinceri nei due schieramenti e il termine «erasmiano» stette a significare uno spirito che cerca e costruisce la pace, rifiuta il fanatismo e non rinuncia alla grande speranza di ricomporre l’unità religiosa tra i seguaci di Cristo. Erasmiano fu detto allora anche chi lavorava alla reciproca convivenza delle confessioni cristiane all’interno di uno stesso Stato. La Confessio augustana del 1530 – quando Erasmo e More erano ancora in piena attività – e la Dieta di Ratisbona dieci anni dopo, nel 1540, quando i due amici erano entrambi morti, resero visibile all’Europa e alle due Chiese la larghezza di vedute e il coraggio degli erasmiani. L’erasmismo ha costituito comunque, nell’ampio arco di quasi mezzo millennio, un punto di riferimento alto per la coscienza cristiana, una fonte d’ispirazione per l’ecumenismo, una vera e propria «magistratura spirituale», come ha scritto felicemente Roland Bainton. L’irrefrenabile avversione che Lutero nutrì fino alla sua morte nei confronti del grande olandese non può farci dimenticare che Erasmo aveva visto giusto nel cogliere le esigenze profonde da cui era nata la protesta e l’anima di verità che si celava nelle stesse «iperboli teologiche» del riformatore di Wittenberg. Agli occhi di Erasmo, Lutero, malgrado il suo linguaggio aggressivo ed estremo, ha avuto un grande merito: ha voluto porre la Scrittura nelle mani del popolo cristiano e ha proclamato la gratuità della salvezza, facendo riscoprire a tutti i cristiani che la grazia di Dio, lungi dall’essere meritata, è essa stessa la sola sorgente possibile di un merito che non sia illusorio. Dopo il Concilio Vaticano II questi giudizi sono largamente condivisi nella Chiesa cattolica e nelle Chiese evangeliche. Ben pochi, però, sanno ancora oggi che a formularli alcuni secoli prima fu Erasmo.

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Bisogno di fraternità. Un tempo triste è il mio cuore – ticchetta / senza suono… pure, tendo alle vostre la mia mano, / perché il mio amore / è un bambino che vuole giocare. / Io voglio assomigliarvi, / perché dell’uomo ho nostalgia. Signore, ascolta. Per la mia tristezza / manca ogni peso sulla tua bilancia, / ma per l’eterno tuo respiro / troppo fui desta. (Else Lasker-Shüler, 1869 – 1945. Da Ballate ebraiche e altre poesie, Firenze 1995)

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Dimmi che non sarà la morte. Sarà come incontrarTi / per le strade di Galilea / e sentire il battito di luce / delle Tue pupille divine. // Sarà la Tua mano / a prendere la mia / con un gesto d’amore. // Dimmi che non sarà la morte, / ma soltanto un ritrovarsi / di amici separati. // Dimmi che non saranno / paludi d’ombra / a sommergermi. // Solo il Tuo volto, / solo il Tuo incontro, Signore (Donata Doni).

7 settembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Fedele alla meraviglia. Sono sempre rimasta fedele / alla mia meraviglia: / mi meraviglio / di un peccato impunito / e della grazia inattesa (Alda Merini). Un gradino dello spirito. Non conoscere molte cose, ma mettere molte cose in rapporto tra loro; questo è uno dei primi gradini dello spirito creativo (Hugo von Hofmannsthal).

«ORMAI», UNA PAROLA EQUIVOCA. L’avverbio «ormai» è un termine equivoco. Vi si ricorre per esprimere giudizi e sentimenti che quasi sempre dovremmo ritenere inaccettabili. Sono giudizi corrosivi, che intaccano la sostanza dell’educazione, ossia di un rapporto che, per quanto difficile e drammatico, resta pur sempre uno dei più decisivi nell’esperienza umana. «Ormai non servo più»: lo dice l’educatore che pensa essere giunto il momento di mettersi da parte. Dopo aver dato ai giovani quanto era possibile perché camminino da soli nelle non facili vie della vita, si potrebbe essere convinti di aver compiuto il proprio dovere e di non essere più responsabili nei loro confronti. Certo, col passare degli anni il rapporto educativo cambia fisionomia, si trasforma, ma non scompare del tutto. Viene per tutti il tempo di lasciare la casa d’origine e di impiantarne un’altra. L’educatore lo sa. Non soltanto non impedirà che i figli, gli alunni, partano per il loro viaggio, ma fino all’ultimo si spenderà perché il viaggio sia preparato nel migliore dei modi. Dovrebbe, però, ricordare che nemmeno in quel momento egli può dire: adesso arrangiatevi. «Ormai non c’è più niente da fare»: lo dice l’educatore sfiduciato di fronte agli ostacoli e agli insuccessi. È l’ormai più penoso, ma anche il più grave. Quanti genitori, insegnanti, sacerdoti sono oggi tentati di pronunciarlo constatando che i loro figli e alunni sono andati per strade diverse da quelle da loro seguite, hanno ascoltato altre voci, subìto il fascino di proposte da loro ritenute false e pericolose. Ma l’educazione può superare qualsiasi prova, tranne quella della sfiducia di coloro che hanno il compito di educare. Bisogna saper sperare contro ogni speranza se si vuol educare. Le risorse nascoste di un uomo sono imprevedibili: un giovane che sembrava perduto può, talvolta improvvisamente, entrare in una crisi salutare se un qualsiasi motivo riesce a raggiungerle e a metterle in moto.

L’educatore si affida necessariamente ai tempi lunghi, e pur riconoscendo le influenze che vengono dalla società, dal mutamento di mentalità e dalle trasformazioni del costume, non dubita che alla fine la testimonianza di onestà e coerenza da lui offerta non resterà senza frutti. Se poi l’educatore è un cristiano… (Enzo Giammancheri in Pedagogia e vita, 1982, n. 2).

TEMPO GUADAGNATO: QUELLO CHE ABBIAMO REGALATO. Forse è per questo che manteniamo amicizie di lunga data e che ci sono cari gli amici che abbiamo conosciuto da giovani, con i quali abbiamo convissuto quando il nostro tempo era l’unica cosa che avevamo da regalare. Di quegli amici conserviamo sempre un dono che ormai non si usa più: pomeriggi interi a bisbigliarci segreti che non importavano a nessuno se non a noi stessi, ore e ore al telefono. Forse perché questo ha il valore che ha, i nostri veri amici sono quelli con cui in qualsiasi epoca, ma soprattutto in questa, non giudichiamo il passato come qualcosa di deprecabile, ma sempre come qualcosa da evocare. (Ángeles Mastretta, Puerto libre, Zanzibar 1995, pp. 34-35).

14 settembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il tutto nel frammento. Vedere il mondo / in un granello di sabbia, / il firmamento in un fiore di campo, / l’infinito nel cavo della mano / e l’eternità in un’ora (William Blake). La prima vera conoscenza del morire. Aver pensato alla morte non serve a niente finché non si viene a sapere della morte di qualcuno che si ama (Maurice Merleau-Ponty). Quando parlare non è pensare. C’è gente che ama parlare di niente. È l’unico argomento di cui sa tutto (Oscar Wilde). Se non c’è umorismo. Dove non c’è umorismo, non c’è umanità. Dove non c’è umorismo, c’è il campo di concentramento (Eugéne Ionesco). A due a due e tutti insieme. Non verremo alla meta ad uno ad uno, / ma a due a due. / Se ci conosceremo a due a due, / noi ci conosceremo tutti, / noi ci ameremo tutti e i figli / un giorno rideranno / della leggenda nera dove un uomo / piange in solitudine (Paul Eluard).

DUE CELEBRI PREGHIERE… APOCRIFE DI SAN FRANCESCO E DI THOMAS MORE. La preghiera di san Francesco d’Assisi, che si apre con la celebre invocazione Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace, è conosciuta e recitata in tutto il mondo, riportata in cento lingue su poster e su innumerevoli libri. È un testo di straordinaria bellezza che esprime in modo semplice e intenso lo spirito del grande santo d’Assisi. È giusto, però, che si sappia la verità: quella preghiera apparve per la prima volta in una rivista francese nel 1917, durante la prima guerra mondiale. È, dunque, un testo apocrifo.

Fu in quello stesso anno che un Tommy (così erano chiamati allora i soldati britannici), Thomas H. B. Webb, compose una preghiera diffusa in primo luogo nella sua città, a Chester, e ciò in omaggio alla sua memoria, poiché egli era morto al fronte francese, alla Somme, a meno di vent’anni, il 1° dicembre 1917. L’identità del giovane autore ben presto sparì, ma la sua preghiera apparve su riviste, immagini e antologie e fu attribuita al più umano dei martiri cristiani, a Thomas More. Addirittura divenne per molti «la preghiera di Thomas More», il santo patrono dell’humour. Il testo di Webb, inciso nel metallo su un muro della cattedrale anglicana di Chester, comincia con queste parole: Give me a good degestion, Lord / and also something to digest (Dammi, Signore, una buona digestione / e anche qualche cosa da digerire) e chiude, in perfetto stile moreano, con la seguente strofa: Grant me a sense of humour, Lord, / the saving grace to see a joke, / to win some happiness in life, / and pass it on other folk (Signore, dammi il senso del ridicolo, / concedimi la grazia di comprendere uno scherzo / affinché conosca nella vita un po’ di gioia / e possa farne parte anche agli altri).

Thomas Webb era anglicano e, nella stesura della sua preghiera, non pensava certo a Thomas More, ma l’involontaria appropriazione indebita da parte del martire cattolico si è verificata e sarà del tutto inutile, ne sono convinto, ricordare ostinatamente che si tratta di una preghiera non sua. Amo pensare che i due Thomas, incontrandosi, si siano fatti una bella risata e che siano felicemente insieme. Merry together!

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Al capezzale di un infermo. Ancorché sappia / che non sente, / la freschezza fragrante / della tua carezza / continui a stringere / fra le tue la sua mano. // Così si ama Dio / o dovrebbe amarsi / con tutto il cuore / sempre / e perfino, o più ancora, / se non lo sapesse (Giuseppe Centore).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Prendimi per mano. Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita. Cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno; saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora e cercherò di non aver paura (Etty Hillesum, Diario 1941 – 1943, Milano 1990, p. 74).

21 settembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Lo dico anch’io ai miei lettori. Ci siamo spesso sbagliati come tutti. Ma non abbiamo mai negato la nostra testimonianza a nessuno, amico o nemico (Georges Bernanos). Essere insieme bambini e uomini maturi. Non comportatevi da bambini nei giudizi. Siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quando giudicate (San Paolo). Invocazione di una mistica. Signore, liberami dalle sciocche devozioni dei santi dalla faccia triste (Santa Teresa d’Avila). Il bulbo della speranza. Il bulbo della speranza, / ora occultato sotto il suolo, / ingombro di macerie, non muoia, / in attesa di fiorire alla prima primavera (Mario Luzi). Si vede con il cuore. Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi (Antoine de Saint Exupéry). Che cos’è morire? (Questo verso fissa l’ultimo approdo della poetessa americana Emily Dickinson, 1830 -1886).

RICORDIAMO IL 20 SETTEMBRE CON ARTURO CARLO JEMOLO. «Ti ergi chiara dinanzi ai miei occhi, cupola di san Pietro…». Sul fresco di giugno, appena lavato dalla pioggia, ti ergi chiara dinanzi ai miei occhi, cupola di San Pietro. Non c’è linea che più riesca a giungermi al cuore di quella che ti circoscrive, e che pare realizzare l’antica aspirazione dell’uomo, il punte gettato tra lui e il cielo. E sei a un tempo il gesto di offerta dell’uomo proteso verso Dio e il simbolo del riparo, dell’ovile, che non ha limiti nella sua capacità di accogliere, che nessuno respingerà, e che tutti potrà riparare dalla collera di Dio e dalle tentazioni del maligno. Solo ancora vivente tra i grandi monumenti romani, solo ancora intatto, solo ch’esplichi oggi lo stesso compito assegnatoti nel giorno in cui sorgesti ed ospiti i medesimi riti ed ascolti i medesimi inni, partecipi però con tutti i monumenti millenari di questa città al compito ammonitore: ricordare agli uomini quale piccola cosa siano i loro contrasti, quale breve vicenda sia ogni vicenda che abbia come metro generazioni umane.

Con queste parole chiudeva l’opera sua più alta, Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, apparsa nel 1948 presso Einaudi, Arturo Carlo Jemolo, uno dei grandi maestri dell’Italia repubblicana. Cattolico di profonda vita interiore, Jemolo ci insegnò a non confondere fede e clericalismo, difesa di un diritto e pretesa di un privilegio. Egli educò più generazioni a far propri con sereno ardimento i valori della democrazia e a collocare ogni giudizio nell’eterna storia del rapporto tra umano e divino. Questa nostra citazione diventa ancora più preziosa perché nelle edizioni successive di Stato e Chiesa in Italia la pagina finale fu omessa.

IL «TUTTAVIA» DELLO HUMOUR. L’humour presuppone la sospensione dolorosa di ogni valutazione, la privazione di ogni schermo e tutela. La forza di ridere – ciononostante è probabilmente la sua unica definizione persuasiva. Alla sua luce, ogni realtà appare, sì, polare, scissa, ferita, eppure riusciamo a coglierne anche l’altro versante, la sua faccia esilarante. L’umorismo, infatti, si gioca tutto sul ribaltamento, le inversioni e le metamorfosi, i piccoli colpi di scena tra promessa e delusione, delusione e compimento inatteso, attrito e ricomposizione, apparenza e realtà, necessità e impossibilità. Tutto è diverso da quanto appare, ma ogni apparenza tradisce qualcosa che doveva rimanere nascosto; l’umorismo coglie i contrasti, si innesta negli interstizi della paradossalità dei fenomeni, facendo sì che le cose si configurino, «nonostante tutto». Il «tuttavia» è, dunque, l’esito di tutte le vie che l’uomo deve e può percorrere (Elmar Salmann).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Per coloro che scrivono. Ti supplico, Dio onnipotente, per tutti noi che vogliamo scrivere. Accordaci la grazia di scrivere bene, o almeno di volerlo fare con le migliori intenzioni. Fa che anche gli scrittori imparino, come tutti i comuni mortali, a correggersi delle loro colpe e a vivere una vita buona. Aiutaci a pregare gli uni per gli altri affinché tu, Signore Dio, ci dia la grazia quaggiù e la gloria lassù. Amen. (Thomas More, Apology of Sir Thomas More, 1533, Complete Works 9/9, Yale, p. 172).

28 settembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ricordati della tua fine. In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai nel peccato (Libro di Siracide). Non la pena di morte. Forse che io – dice il Signore – ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che egli desista dalla sua condotta e viva? Io non godo della morte di chi muore (Libro di Ezechiele). Cerca di essere un portinaio vigile. Cerca di essere il portinaio del tuo cuore, non lasciare entrare nessun pensiero senza interrogarlo (Evagrio Pontico, 345 circa – 399 d.C., scrittore mistico). L’affetto che trasfigura. Non è la bellezza che rende il volto piacevole, ma l’affetto di chi lo guarda (Giovanni Crisostomo). In amore è così. In amore i silenzi sono più eloquenti delle parole (Blaise Pascal).

L’UMORISMO SUPERIORE DI GESÙ. Si è detto che il sorriso non sfiorò mai l’imperiosa bocca del Redentore, ma con quale altra sfumatura all’angolo delle labbra e tra i sopraccigli si sarebbe potuto lasciar cadere certe parole? Certi apostrofi, certi interrogativi ai nemici, agli amici? – «Anche voi ve ne volete andare?», «Ciò vi scandalizza?», «Per quale delle mie opere mi lapidate?»; e il terribile: «Amico, a che sei venuto?». E quel remoto, astrale scrivere in terra, quel sollevarsi repentino di uno sguardo tutto clemente ironia: «Dove sono, donna i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata?». E più sottilmente, più intimamente: «Marta, Marta, di tante cose ti dai pensiero e ti turbi…» o: «Ma se uno vuol prenderti la tunica, e tu lasciagli anche il mantello; e se uno ti angaria per un miglio, tu vai con lui per due…». La consegna spirituale più tipica (che nulla traspaia) è in un ammonimento estetico: «Per apparire agli uomini digiunanti si sterminano la faccia. Ma tu, quando digiuni, ungiti i capelli e lavati la faccia, così che tu non appaia agli uomini digiunante, ma il Padre tuo che è nel segreto…». Non è forse qui tutto l’immenso, l’incessante invito nell’intima liberazione… spogliazione da ciò che inceppa e inganna lo spirito per acquistare il piede leggero, il ritmo felice, dispensatore di felicità dei santi? (Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano 1997, p. 110).

IL DISCERNIMENTO E LA FRANCHEZZA. 1. Dialogo significa reciprocità. Il miglior partner nel dialogo è colui che sa meglio ascoltare per poi rispondere a ragion veduta all’interlocutore e a quanto ha udito. Ascoltando e rispondendo con amore ci facciamo reciprocamente dono di noi stessi. Ascoltando l’altro, io non ascolto solo il suono delle sue parole, il loro significato astratto, ma ascolto lui. La capacità di dialogo è il più prezioso elisir di lunga vita. In caso contrario, vale la terribile verità: chi non ascolta non è neppure ascoltato. Vorrei che nelle ordinazioni dei sacerdoti e dei vescovi si ungessero in primo luogo e soprattutto gli orecchi e si chiedesse a Dio la grazia che l’ordinato sia uno che ascolta la parola di Dio e ascolta gli uomini. Con grande amore.

2. Chi è veramente tollerante scopre sempre negli altri e in se stesso anzitutto il bene. Chi guarda in primo luogo e soprattutto nel negativo finisce col non sopportare se stesso e gli altri. L’intollerante riveste sempre i panni dell’infallibilità, si trincera dietro convinzioni che in realtà sono solo pregiudizi e si rende incapace di prendere in considerazione le ragioni degli altri.

3. Prima dell’obbedienza vengono il dono del discernimento e la franchezza. L’obbedienza è contraddistinta dal reciproco ascolto e dalla comune ricerca delle soluzioni di volta in volta migliori. Le richieste inopportune e anacronistiche di obbedienza, e per di più un’obbedienza acritica, portano o alla ribellione o a una falsa soggezione. Bisogna lasciar spazio alle domande e alla critica, in modo tale che si possa arrivare sia a una critica matura che a un’obbedienza matura. Il fatto di non poter obbedire dovrebbe sempre esser sentito come doloroso, così come l’obbedienza, là dove si può e si deve chiaramente obbedire, dovrebbe essere prestata con gioia. L’ultima parola di fronte agli uomini non è l’obbedienza, ma la corresponsabilità dettata dall’amore.

(Da Le virtù del cristiano maturo di Bernhard Häring, Brescia 1996).

12 ottobre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il tempo si vendica. Il tempo si vendica di ciò che è stato fatto senza di lui (Giuseppe Scarpat). Tutto nasce dalla calma. Tutto quello che è frenetico / sarà presto passato, / perché solo la calma ci inizia a ciò che dura. / Dalla calma tutto nasce: / oscurità e chiarore, / forma e fiore (Rainer M. Rilke). Quello che sai veramente amare. Quello che sai veramente amare rimane, / il resto è scoria. / Quello che sai davvero amare / non ti sarà rubato. / Quello che sai davvero amare / è la tua eredità (Ezra Pound).

L’ARRIVO A BIRKENAU-AUSCHWITZ. Credo che il nostro convoglio, partito da Salonicco il 29 aprile 1943, in una bella giornata di primavera, sia arrivato a Birkenau-Auschwitz, in Alta Slesia, verso le quattro o le cinque del mattino dell’8 maggio. Le porte dei vagoni si erano aperte bruscamente e noi, smontando dal treno, vedemmo scagliarsi contro di noi, un esercito di ragazzi in uniforme, armati di bastoni, che gridavano come selvaggi: Alle raus, schnell, raus. La luce accecante dei riflettori, le manganellate e gli urli delle SS ebbero l’effetto desiderato. Obbedivamo senza comprendere esattamente cosa si volesse da noi. Scendemmo in fretta senza prendere niente dei nostri effetti personali. Mio fratello Guillaume aiutò i nostri genitori e le nostre sorelle Julie e Bella a scendere dal vagone. Io tenevo con una mano mia moglie Nora e con l’altra il mio violino. Alcuni colpi violenti mi fecero abbandonare l’una e l’altro. Corsi verso mio padre per aiutarlo e proteggerlo. Ma di quale aiuto e protezione potevo essere capace? I giovani furono separati dai vecchi e così abbracciai mio padre senza immaginare che fosse l’ultima volta. Nel momento in cui una SS stava per separarci, ebbi il tempo di dargli un bacio sulla mano destra, quasi a cercare la sua benedizione. Non lo avrei più rivisto.

Questa pagina, scarna e terribile, fissa il momento crudele della separazione, brutalmente immediata e definitiva, di un uomo da ciò che egli ha di più caro: la sua giovane sposa, il padre e la madre, le due sorelle, il fratello. Chi potrà mai misurare l’abisso di dolore in cui milioni e milioni di persone sono state gettate, vittime di un’ideologia criminale assurta a compito storico di un popolo? La vicenda di uno dei pochi sopravvissuti all’inferno del lager è narrata dal protagonista Jacques Stroumsa, oggi ottantasettenne, nel volumetto Violinista ad Auschwitz, pubblicato in questi giorni dalla Morcelliana di Brescia.

FACILE FARE GLI ATEI QUANDO SI È FIGLI DI UNA CULTURA RELIGIOSA… Il segreto appena concluso uno storico l’ha definito «breve», ma esso, all’opposto, è stato incalcolabilmente lungo per le atrocità che si sono accumulate e consumate in esso. Quanta sofferenza, quanto sangue, quanta morte l’hanno devastato con una accelerazione diabolica. Quanto dolore innocente è stato consumato spesso senza un brivido della coscienza. Quanti crolli l’hanno squassato: crollo di sistemi politici che proclamavano d’essere definitivi poiché ritenuti interpreti autentici del senso della storia; crollo di sistemi ideologici, come quello fondato sull’utopia di un progresso sempre e comunque buono, crollo di una sapienza costruita con l’esperienza di generazioni che come onde del mare si sono succedute l’una sospingendo l’altra. Nessuno come Giovanni Paolo II l’ha detto con drammatica acutezza, visitando a Gerusalemme Yad Vashem: «Come poté l’uomo provare un tale disprezzo per l’uomo? Perché – fu la risposta – era arrivato a disprezzare Dio». E Dio non lo si toglie di mezzo impunemente. Uno dei protagonisti dell’ateismo contemporaneo ha scritto a mo’ di aforisma: «Quanto è facile fare i vegetariani quando si discende da generazioni di carnivori!». Quanto è facile, cioè, fare gli atei quando si è figli di una cultura religiosa. Ma quando questa viene distrutta, allora ci coglie la vertigine che può portare alla follia. Una casa costruita sulla sabbia è destinata presto o tardi a crollare se le forze della natura si scatenano. Quella fondata sulla roccia resiste. E la roccia è Dio (Enzo Giammancheri).

19 ottobre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non c’è modo di saperlo. Nessuno, mentre è felice, può conoscere se è amato. Quando le leggi soffocano la giustizia. Dove son molte leggi, vi sono molte ingiustizie. Un endecasillabo per una verità. Corrotto gusto ogni bellezza aborre. Come si bestemmia Dio. Dove non si esercita la giustizia, è mal servita la maestà di Dio. Ciò che resta. Il mondo vola col passaggio dei venti e solo resta il male o il bene dell’anima. (Salvator Rosa, 1641)

Anche adesso è così? Ormai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori, giacché gran parte degli scrittori non legge o legge men che non scrive (Giacomo Leopardi). Il realismo profondo del poeta. Dormivo e sognavo / che la vita era gioia. / Mi svegliai e vidi / che la vita era servizio. / Volli servire e vidi / che servire era gioia (Rabindranath Tagore). Il riso e il pianto. Il riso e il pianto sono caratteri distintivi dell’homo sapiens (Heinrich Böll).

UNA LETTERA SERVE ANCHE A METTERSI IN CHIARO CON SE STESSI. C’è una brutta notizia: nello scrivere lettere in Europa noi italiani siamo i penultimi in classifica. Ci battono soltanto i greci. Lo scrivere è comunque attitudine e pratica in forte regresso dappertutto. Ce n’è meno bisogno: telefono, telefonini, e-mail hanno sostituito la lettera, genere difficoltoso perché occorrono, per metterne insieme una decente, varietà e ricchezza di vocaboli, capacità stilistiche e spesso di argomentazione. Non è come in ufficio, dove per la circolare o la lettera d’affari è sufficiente il gergo impersonale e standardizzato. La scuola ha fatto sempre di meno negli ultimi decenni per favorire l’istruzione scritta. Eppure basterebbe cominciare dalle pratiche di scrittura più semplici: una pagina di diario.

IL LOGO DEL GIUBILEO. «Volevo creare omini abbracciati: un girotondo festoso fra tutti gli uomini dei cinque continenti. Prova e riprova, l’uomo si è trasformato in colomba; invece delle braccia ho intrecciato le colombe, simboli di pace e rappresentazione dello Spirito Santo che dona la vita e la pace e che vivifica la terra. I colori sono quelli dei continenti. Inoltre volevo esprimere l’uguaglianza tra i popoli e l’unione tra l’uomo e Dio, così ho pensato di aggiungere al tutto la croce, le cui linee riprendono i colori del mondo, per dire che Dio non ha preferenze, ma salva tutti. Poi croce e colombe le ho immerse nell’azzurro per indicare non solo la terra ma l’intero universo. Tutto qui» (Emanuela Rocchi).

26 ottobre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La preghiera di un ragazzo di Terezin. Molta gente ho incontrato / poche volte l’uomo. / Per questo attendo / che il senso della mia vita si colmi / e arrivi Tu. / C’è ansia nel profondo della mia anima / se devo essere io a cercarti eternamente. / No, io devo credere, non disperare (Dal volume I ragazzi di Terezin, Milano 1996. Terezin era un lager a nord di Praga; furono trovate alcune poesie scritte dai ragazzi ebrei che vi avevano soggiornato). Autoironia. Il mio concetto di persona piacevole è quello di una persona che è d’accordo con… me (Benjamin Disraeli).

È LÌ CHE IL PITTORE SI PONE. Vi è nel Trattato di pittura di Leonardo da Vinci una pagina in cui si dice che l’essere vivente si caratterizza per la linea ondulata o a serpentina, che ogni essere ha la sua maniera propria di snodarsi, e che oggetto dell’arte è di rendere questa ondulazione individuale. «Il segreto dell’arte di disegnare è di scoprire in ogni oggetto la maniera particolare in cui esso si atteggia attraverso tutta la sua estensione… Quella certa linea fluttuante è come il suo asse generatore». Quella linea non può del resto essere alcuna delle linee visibili della figura. Essa non è più qui che là, ma costituisce la chiave di tutto. È più pensata dallo spirito che percepita dall’occhio. «La pittura – diceva Leonardo – è cosa mentale». E aggiungeva che è l’anima a fare il corpo con la sua immagine. L’opera intera del maestro può servire da commento a questa affermazione. Fermiamoci davanti al ritratto di Monna Lisa o davanti a quello di Lucrezia Crivelli: non sembra che le linee visibili della figura risalgano verso un centro virtuale, in cui si scoprirebbe tutto in una volta, raccolto in una sola parola, il segreto che non avremmo mai finito di leggere, frase per frase, nell’enigmatica fisionomia? È lì che il pittore si pone. Ed è nello sviluppare una visione mentale semplice, concentrata in quel punto, che ritrova, tratto dopo tratto, il modello che aveva sotto gli occhi, riproducente a suo modo lo sforzo generatore della natura. L’arte della pittura non consiste dunque, per Leonardo da Vinci, nel prendere minuziosamente ognuno dei tratti del modello per riportarlo sulla tela e riprodurre così, pezzo per pezzo, la materialità. Non consiste neanche nel figurarsi un qualsiasi tipo impersonale e astratto, in cui il modello che si vede e si tocca andrebbe a dissolversi in una vaga idealità. L’arte vera mira a rendere l’individualità del modello, e perciò va a cercare dietro le linee che si vedono il movimento che l’occhio non vede, dietro il movimento stesso qualcosa di più segreto ancora: l’intenzione originale, l’aspirazione fondamentale della persona, quel pensiero semplice a cui mette capo e da cui nasce la ricchezza indefinita delle forme e dei colori.

Queste dense riflessioni sulla pittura si leggono nel volume di Henry Bergson Pensiero e movimento, in cui il grande filosofo aveva raccolto in forma di libro i saggi più importanti pubblicati tra il 1903 e il 1930.

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, Signore. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. Ma quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tocca a noi difendere fino all’ultimo la tua casa in noi…

Questa «preghiera della domenica mattina» Etty Hillesum la scrisse il 12 luglio 1942. Si può leggerla nel Diario 1941-1943, Milano 1990. È un testo che ci aiuta ad accostarci a una delle domande-sfide più terribili della nostra coscienza religiosa: come si può invocare Dio in attesa dell’olocausto?

2 novembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Dal treno che va. Come per veduta che scorra veloce / dal treno che va, / con lo sguardo inseguo / le mie stagioni. Il primigenio colore. La tersità seguita / al fresco lavacro della pioggia / alla luce ha dato la forza del primigenio colore. (Ernesto Bonera)

Ho fatto qualcosa di brutto? Lodato da alcune persone che sapeva cattive e piene di vizi, il filosofo greco Antistene disse: «Ho paura d’aver fatto qualche brutta azione» (Diogene Laerzio).

LA NOVITÀ: THOMAS MORE «PATRONO DEI POLITICI». Vi sono cento e una ragione per designare Thomas More – umanista, pensatore politico e vero statista – come «patrono dei politici». Giovanni Paolo II ne proporrà la figura ai politici che converranno a Roma in questi giorni, il 4 e il 5 novembre, per il loro giubileo. Pochi, purtroppo, molto pochi sono stati i cristiani impegnati in politica che hanno avuto il senso dello Stato che caratterizzò tanto nobilmente la presenza attiva di More nella società inglese e nel governo, in cui giunse a ricoprire nel momento più difficile l’ufficio di Lord Cancelliere. Uomo di appassionata dedizione al bene comune, egli fu intimamente distaccato dal potere. Divenne popolare nel suo Paese per la sua incorruttibilità, per la straordinaria capacità di lavoro di cui dette prova, ma anche per lo humor con cui sapeva giudicare le cose di questo mondo. Profondamente religioso, e proprio per questo, rifiutò sempre le pretese invadenti e la logica mondana del potere clericale; ma quando la gerarchia ecclesiastica britannica, con l’eccezione del vescovo John Fisher, si piegò al volere di Enrico VIII, autoproclamatosi Capo Supremo della Chiesa d’Inghilterra, More si dimise immediatamente. Ai suoi occhi quell’atto attestava quanto si fosse spinto avanti il processo di perversione assolutistica dello Stato in una nazione che pure si diceva cristiana. I vescovi della Chiesa d’Inghilterra non ebbero la lucidità del laico Thomas More. Il 6 luglio 1535 More sale al patibolo alle ore 9 del mattino dopo aver dichiarato: «Muoio da suddito fedele del re e innanzi tutto di Dio». Quando lo seppe, Erasmo confidò a Pietro Tomicki, vescovo di Cracovia: «Con la scomparsa di More sento anch’io di aver smesso di vivere, perché noi due eravamo un’anima sola».

9 novembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il seme gettato in noi. Nella natura di ogni uomo è stato gettato il seme della capacità di amare. Dobbiamo accogliere questo seme, coltivarlo con diligenza, nutrirlo con cura e favorirne lo sviluppo (San Basilio, uno dei massimi Padri greci, nacque intorno al 330 d.C. e morì all’inizio del 379). Il «caso» Andreotti. Tipicamente rivelativa del personaggio è la risposta data da Andreotti a chi gli chiedeva il segreto dei suoi continui successi. «Forse – rispose – sarebbe meglio chiedere qual è il successo dei miei segreti». Battute del genere suscitano ammirazione e compiacimento in legioni di uditori, soprattutto se utenti televisivi; io sono tra quelli che provano pena (Levi Appulo). Apologo tibetano. Un giorno, camminando in montagna, ho visto da lontano una bestia. Avvicinandomi, mi sono accorto che era un uomo. Giungendo di fronte a lui ho visto che era mio fratello.

IL SEGRETO DI THOMAS MORE. Thomas More è un universo ancor tutto da esplorare. Egli è eminentemente il santo della coscienza, il laico impegnato a fare la sua parte nel mondo come avvocato, diplomatico, uomo di governo. Se ci chiediamo qual è il segreto di una vita così multiforme e insieme ricondotta con estrema semplicità al suo fondamento, la risposta più appropriata e comprensiva è la sua vita interiore. Sin dall’adolescenza egli volle soddisfare il bisogno di pensare in profondità la fede per fare di essa la sorgente ispiratrice della sua vita e a quel risultato egli pervenne mediante la cultura patristica, la meditazione della Scrittura, la pietà sincera e l’ascesi rigorosa anche se mascherata da un umorismo giocoso e penetrante. L’ambiente che meglio favorì il formarsi di quel tipo di religiosità fu la Certosa di Londra, di cui More fu ospite durante gli studi universitari; ma contarono molto per lui anche la direzione spirituale di John Colet, il teologo di Oxford passato poi a Londra dove fondò la Saint-Paul’s School, e l’influenza di Erasmo, vero apostolo della spiritualità dei laici e del riconoscimento del loro posto in una rinnovata ecclesiologia. Noi abbiamo due testimoni di prima mano sulla religiosità intensa, nutrita di Bibbia, concreta e non superstiziosa di Thomas More: quella di Erasmo, che frequentò la casa di More dal 1499 al 1517, e quella di William Roper, il marito di Margaret, la figlia primogenita di Thomas, che visse sotto lo stesso tetto col suocero ben sedici anni, tra il 1521 e il 1534, l’anno in cui l’ex Cancelliere fu arrestato. Ebbene Roper ci dice nella sua insuperabile Vita di sir Thomas More che il suocero fece costruire a Chelsea, a poca distanza dall’alloggio della famiglia, un edificio chiamato la «Casa nuova», in cui c’era una cappella, una biblioteca e un balcone-galleria. Lì More si rifugiava quando riusciva a ritagliarsi un po’ di tempo nella giornata, ma «il venerdì vi si chiudeva per dedicarsi tutto il giorno alla preghiera o alla meditazione». Fosse ministro del re o Lord Cancelliere, More fece sempre in modo da serbare quel giorno totalmente a Dio. Mi risulta che quattro secoli dopo un altro laico fece la stessa scelta. Il Mahatma Gandhi si riservava il lunedì per isolarsi e starsene tutto il giorno con Dio.

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Due liriche di Else Lasker-Schüler. Lo so (Ich Weiss). Lo so, devo presto morire – / ogni albero risplende / dopo il bacio di luglio tanto a lungo bramato. / Sbiadiscono i miei sogni, / mai più cupo congedo / composero le rime dei miei libri. / E tu mi cogli, a salutarmi, un fiore / che amavo già in germoglio. / Però lo so, devo presto morire. / Il mio respiro fluttua sul fiume divino / e pongo lieve il piede sul sentiero / della dimora eterna. Il mio pianoforte azzurro. Ho a casa un pianoforte azzurro, / ma non so più le note. / Da quando s’è abbruttito il mondo, / sta giù in cantina al buio. / Suonavano le stelle a quattro mani / – la dama luna cantava in barca – / ora allo strimpellìo ballano i ratti. / Spezzata è la tastiera… / Aprite a me, cari angeli, / – il pane amaro mangiai- / a me da viva la porta del cielo.

Else Lasker-Schüler fu la poetessa lirica tedesca più stimata e amata da critici acutissimi e severi come Karl Kraus e Gottfried Benn. La sua forte personalità e l’intuizione di alcune idee direttrici necessarie a costruire un futuro di pace tra cristiani ed ebrei, ma anche tra ebrei e arabi, le procurò inevitabilmente incomprensioni e ostilità. Quando la poetessa ebraica aveva toccato il punto più alto, Hitler s’impossessò della Germania e per la Lasker cominciò l’indigenza e l’esilio. La morte giunse liberatrice il 22 gennaio 1945.

16 novembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La verità della bellezza. Chi sarà sorpreso della bellezza non darà vita solo a immagini di bellezza, ma alla verità della bellezza (Platone). Questo mondo ha bisogno di bellezza. Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non precipitare nella disperazione (Paolo VI). A ognuno la sua faccia. Dopo una certa età, ogni uomo è responsabile della sua faccia (Albert Camus).

Ciò che l’onore conferisce all’esistenza. Il talento e il coraggio rivelano quanto sia fantasticamente grande ciò che l’onore conferisce alla dimensione drammatica dell’esistenza. Il difetto che non si può mascherare. L’incapacità di trovare e di dire la verità è un difetto che non si può mascherare con nessuna abilità. Perché Shakespeare? Shakespeare sarà sempre l’autore preferito delle generazioni storicamente mature e che hanno molto vissuto. Le innumerevoli prove insegnano ad apprezzare la voce dei fatti, la conoscenza reale, l’arte ricca di contenuto e seria del realismo. (Boris Pasternak)

IL CALVARIO DI ANNA ACHMATOVA. Anna Achmatova è oggi celebrata come una delle voci più alte della poesia russa. Per lei la vita era iniziata vittoriosamente a Pietroburgo com’era prima della guerra 1914-18. Il tratto principale del suo carattere era la grandezza, che si rivelava anche nell’andatura e in quel sentimento di rispetto per se stessa che emanava da ogni suo scritto. Il poeta Nikolaj Gumilëv, che le aveva dato un figlio, nel 1921 fu fucilato dalla polizia segreta di Lenin, la Ceka, e per l’Achmatova cominciò l’esilio in patria. La via crucis della poetessa divenne ancora più insopportabilmente angosciosa negli anni dello stalinismo. Il figlio Lev fu arrestato nel 1935, poi nel ‘38 e ancora nel ‘49. Dopo l’ultimo arresto, Lev passò quasi sette anni nei campi di lavoro, dal ‘49 al ‘56, e fu tra gli ultimi a tornare ed è inutile dire che per la poetessa quelli furono anni di atroce sofferenza. Si giunse persino nel settembre del 1946 a condannarla praticamente alla fame, privandola delle tessere annonarie. «Alcuni amici organizzarono un fondo segreto di aiuti all’Achmatova. Data l’epoca, si trattava di vero e proprio eroismo. Anna Achmatova me lo raccontò parecchi anni dopo, aggiungendo tristemente: – Mi compravano arance e cioccolato, ma io avevo fame nel vero senso della parola» – lo testimonia Natal’ja Roskina.

La domanda che sorge spontanea è qual significato potessero mai avere i continui arresti del figlio dell’Achmatova dal momento che egli non si occupava affatto di politica e nemmeno di letteratura, storico e orientalista, etnologo, specialista di antiche civiltà, quale minaccia poteva rappresentare? La risposta fu data da un dirigente dell’Unione degli scrittori sovietici, Aleksej Surkov, quando replicò a Nadezda Mandel’stam che aveva appena interceduto presso di lui per il figlio dell’Achmatova, nell’estate 1956: «Si tratta di una questione complicata: deve senza dubbio pagare per suo padre». La storia è nota: gli organi di repressione non potevano perdonare a Lev Gumilëv il fatto di avergli ucciso il padre che, con ogni probabilità, doveva essere innocente. Neppure con l’Achmatova potevano dimenticare il crimine: restava pur sempre per loro la vedova di un poeta che avevano giustiziato. Inoltre, Lev Gumilëv rappresentava un ostaggio per il potere: per Stalin era divenuta una diabolica consuetudine arrestare i parenti di coloro che voleva dominare, e anche dei suoi più stretti collaboratori, in modo da tenerli meglio sotto controllo.

Della poetessa russa si possono leggere in italiano La corsa del tempo – Liriche e poemi e il bellissimo Poema senza eroi, ambedue pubblicati da Einaudi. Notevoli le pagine dedicate alla poetessa nel terzo volume della Storia della letteratura russa – Il Novecento, Torino 1991.

23 novembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Come un fanciullo che giocava sulla riva del mare. Non so come possa apparire agli occhi del mondo, ma a me sembra di essere stato soltanto come un fanciullo che giocava sulla riva del mare e si divertiva a trovare, di tanto in tanto, un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella, mentre il grande oceano della verità si stendeva sconosciuto davanti a me (Isaac Newton, 1642 – 1727). Il rispetto di Cristo per la libertà dell’uomo. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui e ceneremo insieme (Libro dell’Apocalisse). Difficile sfuggire a Cristo. Creduli o increduli, nessuno sa sottrarsi all’incanto di quella figura, nessun dolore ha rinunciato sinceramente al fascino della sua promessa (Alfredo Oriani). L’ultimo appello di Albert Einstein. Noi rivolgiamo un appello come esseri umani ad essere uomini: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto (Dal Messaggio all’umanità scritto nel gennaio 1955, alle soglie della morte). La legge della calunnia. Più una calunnia è inverosimile, meglio la ricordano gli sciocchi (Casimir Delavigne, drammaturgo francese).

DALL’EMPIETÀ COSMICA ALLA PIETÀ FRANCESCANA. L’atteggiamento delle persone nei confronti della natura dipende da quello che le persone pensano di sé in rapporto alle cose che le circondano. L’ecologia umana è profondamente condizionata dalle convinzioni relative alla natura e al destino dell’uomo, e dunque in primo luogo dalla religione. Chi abbia una visione manichea del creato, secondo il quale il mondo è materia bruta e male, disprezzerà il mondo e farà sua inconsciamente la tesi del dominio assoluto tecnico scientifico dell’uomo sulla natura. L’ultima ontologia atea che ha avuto molto successo è quella di Sartre, ma la sua filosofia è tutto il contrario di una filosofia della natura: è nient’altro che un seguito di affermazioni tanto categoriche e decisive quanto infondate. È ben lui a scrivere, parlando del mondo: «Questa enorme presenza era lì tutta molle, tutta appiccicosa, tutta densa. Io non posso che odiare quella ignobile marmellata. Purtroppo, pur non avendo senso, il mondo era ovunque presente, davanti e dietro. Quella larva colante non era possibile che non esistesse. Che porcheria, che porcheria!». Dove possa condurre una concezione del genere è facile immaginarlo.

Perché possa esserci un’ecologia umana noi dobbiamo liberarci da un pensiero così aberrante e dogmatico per riscoprire finalmente, riaffermare in modo critico e tradurre in comportamenti pratici la consapevolezza che il mondo attesta una realtà che non è affatto cattiva e nemmeno neutrale. Il mondo è la creazione delicata di Dio, in ragione della quale tutti gli esseri hanno una loro bontà. Questa consapevolezza, se pienamente ritrovata e sentita in profondità, condurrebbe a un modo diverso di guardare la natura e di rapportarci ad essa. Capiremmo allora che il mondo è una foresta di simboli e la natura una madre e non un nemico. L’empietà cosmica cederebbe allora il posto alla pietà cosmica. Questa è la «rivoluzione francescana» di cui abbiamo bisogno per rendere abitabile il mondo. Un nuovo ascetismo, un nuovo senso del dono e della bellezza della natura, un’animazione etica della tecnologia (un fardello che non si può deporre solo perché cominciamo a sentirlo pesante): ecco tre prospettive, tre direttrici possibili e doverose perché l’umanità abbia un futuro su questa terra.

IL RISO E LE LACRIME. L’Essere che volle moltiplicare la propria immagine non ha dato alla bocca dell’uomo i denti del leone: l’uomo morde con il riso. Né ha dato ai suoi occhi tutta l’astuzia fascinatrice del serpente: l’uomo, infatti, seduce con le lacrime. E si noti che anche con le lacrime l’uomo lava le sofferenze dell’uomo, che col riso addolcisce talvolta il suo cuore e lo affascina; ché i fenomeni prodotti dalla caduta diverranno i modi del riscatto (Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, Torino 1981, p. 142).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Fammi vivere di un unico, grande sentimento. Signore, fammi vivere di un unico, grande sentimento. Fa’ che io compia amorevolmente le mille piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni a un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore. Allora quel che farò, o il luogo in cui mi troverò, non avrà più molta importanza (Etty Hillesum, Diario 1941 – 1943, Milano 1990, p. 82).

7 dicembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il benefico sconcerto nelle parole di Gesù. Quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto perché la gente non veda che tu digiuni (Vangelo di Matteo). Sia dunque in eterno benedetto. Lento cola dagli aceri il rame / delle foglie… / Sia dunque in eterno benedetto / ciò che viene a fiorire e a morire (Sergéj Aleksándrovič Esénin). Leggono molto bene il tuo pensiero. Gli adulatori sono abili lettori del pensiero. Ti dicono proprio quello che tu pensi (Thomas B. Maculay, 1800 – 1859, storico inglese).

L’inferno. L’inferno è non amare più (Georges Bernanos). L’inferno di cui parla la teologia non è peggiore di quello che noi creiamo a noi stessi in questo mondo (William James).

IL «BRUTTO» COME FINE DELL’ARTE? L’ANIMA DI VERITÀ DI UNA TESI FALSA. L’esperienza del bello è universale e ogni uomo prima o poi è sorpreso da questo meraviglioso incanto, nell’una o nell’altra forma. Se poi il discorso si porta sull’arte, di arte si può parlare solo e sempre in quanto creazione di opere belle, né ci può essere arte che non scaturisca dal sentimento del bello e non ne sia espressione. È, dunque, fuorviante la tesi formulata da Giuseppe Rensi, e dopo tante volte acriticamente riproposta, secondo la quale il fine, il valore proprio dell’arte sarebbe il brutto, anzi il repellente. La tesi ci sembra insostenibile, ma anche l’errore ci obbliga a cercare la ragione per cui ci appare credibile. La perfezione viva e vibrante della rappresentazione estetica, l’affiato spirituale dei sentimenti che vi sono trasfusi, l’efficacia evocativa di cose, persone e stati d’animo costituiscono il fascino singolare di cui anche il brutto si riveste nell’arte, e questo fascino è esso stesso senza dubbio bellezza. Insomma, in arte noi non abbiamo il brutto in quanto tale, né il brutto al posto del bello, ma semplicemente, per dirla con Kant, la rappresentazione bella del brutto attraverso l’espressione di sentimenti e immagini che esso ha suscitato nell’animo dell’artista. E che le cose stiano così, basta ricordare l’Inferno di Dante, i maggiori drammi di Shakespeare, alcune commedie di Molière, la poesia di Baudelaire e i romanzi di Dostoevskij, la pittura – o cicli pittorici – di Van Gogh e di Picasso. Aggiungerei una sottolineatura: tante opere artistiche del nostro tempo vanno lette in questa luce se di esse vogliamo cogliere l’intrinseca bellezza, la profonda spiritualità, il valore rivelativo.

«IL VARCO È QUI?». MONTALE E LA RICERCA DELL’ALTRO. «Non oserei parlare di mito della mia poesia, ma c’è in essa il desiderio di interrogare la vita. Agli inizi ero scettico, influenzato da Schopenhauer, ma nei miei versi della maturità ho tentato di sperare, di battere al muro, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno che attende una risposta». Queste cose Montale diceva di sé in un’intervista a Madaleine Graff-Santschi, pubblicata nel 1965. E in Diario postumo (1991 – 1996) si scorge a un certo punto un varco verso il mistero: «Una parola nuova che ci possa salvare / e che ci tenga in bilico / sul confine ideale della realtà / e fantasia potrà, anche / se per poco, cangiare l’esistenza». In realtà nella ricerca di Montale accanto a Schopenhauer e a Rensi, il maggiore tra i filosofi scettici del ‘900, ci sono altri autori come Boutroux e Lachelier, Bergson, Šestov e soprattutto Pascal. Ma è lo stoicismo, con la sua etica del distacco e con l’incertezza sul traguardo finale dell’esistenza che più ha contribuito alla formazione del poeta genovese e ne ha influenzato la precomprensione religiosa.

Il libro che meglio ripercorre l’itinerario esistenziale di un poeta sempre al confine tra la parole e l’indicibile è stato pubblicato recentemente nelle edizioni Messaggero di Padova: Montale. La ricerca dell’Altro (Padova 2000). L’autore è Angelo Marchese, studioso di grande valore, scomparso lo scorso gennaio senza aver potuto vedere quest’ultima sua meritoria fatica. Apprendo, proprio mentre scrivo queste note, una notizia fino ad oggi da me ignorata e a riferircela è Carlo Bo. Il decano dei critici letterari italiani assicura che Montale, laico per tutta la vita, è morto recitando il rosario. Forse la religione, insegnatagli dalla madre, aveva lasciato in lui un segno difficilmente cancellabile.

14 dicembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La giusta via. Non si tratta di mettere in ristrettezze voi per sollevare gli altri. Essendo voi in questo momento nell’abbondanza, impegnatevi a supplire all’indigenza degli altri con la vostra generosità. In tal modo farete uguaglianza (San Paolo). Anche lo scherzo. Tutte le gioie vengono dal paradiso, anche lo scherzo se è fatto con vera gioia (Questa sentenza si legge ne I racconti dei Chassidin di Martin Buber). L’arte e la barbarie. Non è barbara la terra che non ha conosciuto l’arte, ma quella che, coperta di capolavori, non sa né amarli né conservarli (Libro bianco del Touring Club Italiano sui Beni culturali ecclesiastici, Milano 1996). «Infine», una parola piccola eppure… C’è una parola piccola e insignificante, eppure così ricca di contenuti; serena, eppure così ricca di nostalgia… È la parola «infine». Che l’anima nostra nell’ultima sua ora venga come rapita via dal mondo sulle ali di questa parola e trasportata là dove ne afferreremo il significato pieno: la mano di Dio ci ha condotti attraverso il mondo, ma «infine» Dio lo ritrae e ci apre le sue braccia per accogliervi l’anima anelante (Søren Kierkegaard).

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Paesaggio. Nei prati pascolano / gli animali mansueti; / gli aironi veleggiano / sopra laghi lucenti, / i tarabusi stanno / presso uno stagno cupo; / e nelle golene / galoppano i cavalli / con le code al vento / sull’erba ondeggiante. L’autore di questa poesia in lingua nederlandese è Hendrik Marsman, 1899 – 1940. Marsman è considerato il principale esponente dell’espressionismo olandese. Perì tragicamente il 21 giugno 1940 perché fu affondata la nave con la quale cercava di raggiungere l’Inghilterra dopo l’occupazione nazista.

L’ANGOLO DELLA POESIA. Prendi, Signore, la mia libertà. Prendi, Signore, e ricevi intera la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà. Tu mi donasti quanto possiedo; io te lo restituisco. Tutto è per te; disponilo tu secondo il tuo piacere santo. Dammi soltanto il tuo amore e la tua grazia. Io non ti domando null’altro (Preghiera attribuita a Ignazio di Antiochia, vescovo martire all’inizio del II secolo).

21 dicembre 2000.

IL PRESEPIO DI GRECCIO. Si avvicina il Natale del 1223 e san Francesco, che aveva visitato Betlemme, trovandosi nell’eremo di Fonte Colombo, disse a Giovanni Vellita, un gentiluomo suo amico ed ammiratore: «Messer Giovanni, se tu vuoi aiutarmi noi possiamo celebrare quest’anno il più bel Natale che si sia mai veduto. Nel tuo bosco intorno all’eremo di Greccio c’è una grotta simile a quella di Betlemme. Vorrei raffigurare la scena del Natale e vedere con gli occhi del corpo la povertà in cui Gesù Bambino venne al mondo, adagiato in una greppia. Io ho licenza del Padre Santo per fare questa memoria della natività di Cristo». La notte di Natale tutte le campane della valle reatina suonano a festa e gli abitanti, avvisati della nuovissima celebrazione, accorrono dai villaggi, dai castelli, dai casolari più lontani, sotto lo scintillìo delle stelle, recando offerte come i pastori della Giudea. E quando entrano nella grotta, rimangono incantati. C’è la greppia con la paglia e sopra una pietra per celebrare la Messa. Ci sono il bue e l’asinello e Francesco, vestito solennemente da diacono, canta il Vangelo della Natività e poi parla di Gesù Bambino con tale fervore che la folla rapita rivive la Notte Santa di tredici secoli addietro. Poi, dopo l’elevazione, Gesù Bambino ritorna visibile sulla terra.

IL PADRE NOSTRO DI SAN FRANCESCO. Questo è il titolo del libro in cui un eminente studioso dell’antichità classica e della letteratura biblica, Giuseppe Scarpat, ci presenta uno degli scritti più alti di Francesco d’Assisi, l’Expositio in Pater noster, ossia «Parafrasi del Pater noster». Ci viene così offerta la possibilità di avere tra le mani e meditare un documento di grande valore letterario e teologico, una testimonianza diretta e autentica della spiritualità del santo e del suo concreto modo di rapportarsi a Dio. L’Expositio di san Francesco è breve, ma la lettura approfondita a cui ci invita Scarpat con le sue note ci mette in grado di scoprire la singolare ricchezza del suo contenuto. L’autore di questo agile volumetto afferma di aver svolto un lavoro di tipo strettamente filologico, ma le sue note tradiscono di continuo un commosso, e commovente, atto di amore per il santo che all’umanità è apparso sempre come la più fedele e originale a un tempo icona di Cristo. Il Padrenostro di san Francesco è stato pubblicato in questi giorni a Brescia dalla Paideia Editrice.

LA TRADUZIONE DELLA PARAFRASI FRANCESCANA. Sapendo di far cosa gradita ai lettori, riporto il testo della «Parafrasi francescana del Pater noster», nella traduzione che ne dà Giuseppe Scarpat.

«O santissimo Padre Nostro, creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro. Che sei nei cieli: fra gli angeli e i santi; tu che li illumini quanto alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce; tu che li infiammi quanto all’amore, perché tu, Signore, sei amore; tu che poni in loro la tua dimora e li porti a pienezza, quanto alla beatitudine, perché, tu, Signore, sei bene sommo, eterno dal quale viene ogni bene e senza il quale nessun bene esiste. Sia santificato il tuo nome: si illumini in noi la tua conoscenza, affinché possiamo conoscere l’ampiezza dei tuoi benefici, la durata e la quantità delle tue promesse, l’altezza della tua maestà e la profondità dei tuoi giudizi. Venga il tuo regno: affinché tu abbia a regnare in noi per mezzo della grazia e ci faccia venire al tuo regno, dove c’è di te una visione chiara, di te un amore perfetto, con te una comunanza beata, di te una fruizione sempiterna. Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra: affinché amiamo te con tutto il cuore, di te solamente preoccupandoci, con tutta l’anima te sempre desiderando, con tutta la mente tutte le nostre intenzioni a te indirizzando, il tuo onore in tutto cercando, e con tutte le nostre forze, in obbedienza al tuo amore tutte le nostre forze e i sensi dell’anima e del corpo impiegando e non in altro; e affinché amiamo i nostri prossimi come noi stessi attirando al tuo amore secondo le nostre forze, dei beni altrui godendo come fossero nostri, nei mali soffrendo insieme e senza portare offesa alcuna a nessuno. Il pane nostro quotidiano dacci oggi: il diletto Figlio tuo, il Signore nostro Gesù Cristo, dacci oggi in memoria e comprensione e venerazione dell’amore che ebbe per noi, e di tutte quelle cose che per noi disse, fece e sopportò. E rimetti a noi i nostri debiti: per la tua ineffabile misericordia, per la potenza della passione del diletto Figlio tuo e per i meriti e l’intercessione della beatissima Vergine e di tutti i tuoi eletti. Come noi li rimettiamo ai nostri debitori: e ciò che noi non rimettiamo pienamente, fa’, o Signore, che noi lo rimettiamo pienamente, perché amiamo i nostri nemici a causa tua veramente e per intercedere per loro devotamente presso di te, a nessuno rendendo male per male, e perché cerchiamo sempre di giovare col tuo aiuto. E non c’indurre in tentazione: occulta o manifesta, improvvisa o persistente. Ma liberaci dal male: passato, presente e futuro».

28 dicembre 2000.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Qualcosa per cui essere disposti a morire. Se un uomo non ha scoperto qualcosa per cui è disposto a morire, non è degno di vivere (Martin Luther King). Una dedica esemplare. A se stesso, agli amici, ai probabili lettori futuri e, con umiltà, a Dio (Marcello Camillucci ha scelto questa dedica in latino per un suo libro). È ancor più bello. Pensare liberamente è bello, ma pensare giustamente è ancor più bello (Motto inciso in latino su un’epigrafe dell’Università di Uppsala in Svezia). Il coraggio che più commuove. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitto, prima ancora di cominciare, e cominciare lo stesso, arrivando fino in fondo (Harper Lee).

ANCHE OSCAR WILDE SI INCHINA DINANZI A GESÙ. Cento anni fa si spegneva Oscar Wilde, uno degli ingegni più brillanti e disordinati, l’esteta che si era creduto il portatore di una sorta di buona novella neopagana. Malgrado la sua maschera tragica e il suo dandysmo, il bisogno di sincerità finì col prevalere in lui e nella più significativa delle sue opere, il De Profundis, anch’egli scioglie un inno alla grandezza incomparabile di Cristo.

Scelgo tre passi. Ecco il primo. «Per l’artista, l’espressione è l’unico modo di concepire la vita. Per lui tutto ciò che è muto, è morto. Ma non era così per Cristo. Con una prodigiosa larghezza d’immaginazione che quasi ci riempie di sacro timore, si scelse per regno tutto il mondo dell’inespresso, il mondo senza voce del dolore, e gli prestò in eterno la propria voce». Il secondo brano è il seguente. «Né in Eschilo né in Dante, severi maestri di dolcezza, né in Shakespeare, il più puramente umano di tutti gli artisti, né in tutta la mitologia e le leggende celtiche – dove la bellezza del mondo viene mostrata attraverso un velo di lacrime e la vita dell’uomo non è nulla di più della vita di un fiore – c’è qualcosa che in pura, semplice commistione e fusione di pathos e sublime effetto tragico si possa dire che eguagli, o soltanto si avvicini, all’ultimo atto della passione di Cristo». Ed ecco il terzo. «Non soltanto possiamo percepire in Cristo la più stretta unione della personalità con la perfezione, ma possiamo anche discernere che la vera base della sua natura era la stessa dell’artista: un’intensa, ardente immaginazione. Egli mise in atto nella sfera dei rapporti umani quella comprensione immaginativa che nella sfera dell’arte è l’unico segreto della creazione. Egli comprese le piaghe del lebbroso, l’oscurità del cieco, il violento supplizio di quelli che vivono per il piacere, la singolare povertà del ricco… A conti fatti, è proprio questo il fascino di Cristo: è lui stesso un’opera d’arte».

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Paese ritrovato. Il cuore meno discorde con tutto quanto amava / non mi nega più questo paese diletto. Sono andato al di là del furore ho scoperto / il passato accogliente. Oggi io posso, oso. // M’abbandono alla strada senza timori, compito / la salita le curve. Un sogno si dischiude. / Mi ritrovo nel murmure che non finisce mai, / il vento e solo il vento mi porta dove io voglio. // Parole sconosciute mi suonano familiari. / Sguardi amichevoli mi seguono fra gli alberi. / Qui mi riconosco dichiaro mia questa terra / e ogni contrada per cui appaiano borghi / in cui i galli si ergano in cima al campanile / la verbena sia nell’orto i cespugli far i muri. // I filari di viti stanno sopra i versanti / e le nubi si muovono lente entro l’azzurro / scavando d’ombra la piana ove il grano ingiallisce. / Tutto è bello quello che s’apre oggi al mio passo. / Oh, mi ricorderò del pane degli uomini / gusterò i grappoli che seccano / appesi sotto la volta.

L’autore di questi versi è André Frénaud, 1907 – 1993; La traduzione è di Attilio Bertolucci. Frénaud divenne noto al gran pubblico quando due suoi poemi furono inclusi nel fascicolo Poésie 42, pubblicato durante la resistenza francese.

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Insegnami ad essere generoso. Verbo di Dio amatissimo, insegnami ed essere generoso, a servirti come tu meriti, a dare senza contare, a combattere senza temere le ferite, a lavorare senza cercare riposo, a darmi senza aspettare altra ricompensa che il sapere di aver compiuto la tua santa volontà. Così sia (Ignazio di Loyola, 1492 – 1556).

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.