Detti e Contraddetti 2001 – 1° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 2001 – PRIMO SEMESTRE

4  gennaio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le maniere semplici. È curioso vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto hanno le maniere semplici, e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore (Giacomo Leopardi). La ragione profonda della nostra tragedia oggi. Quando la vita non dimora più in un tutto originario e concluso non ha più un centro di valori. È solo un orlo sbrecciato che circoscrive il vuoto (Robert Musil). Gli «onori» e l’onore. Come non marcare il contrasto esilarante fra gli onori che i sedicenti grandi uomini richiedono per sé e l’onore che spetta solo a Dio? Occorre ridersela dell’incombere pesante e goffo dei primattori, o presunti tali, e non solo nel teatro della politica. Provate a fare il loro elenco, a cominciare da quelli della vostra parte, come fa ogni persona per bene. Ma non senza una punta di pietà per così grandi disgraziati (Levi Appulo).

ITALIANI ANALFABETI. Tullio De Mauro ha di recente comunicato che nell’Italia d’oggi l’analfabetismo ha registrato un aumento spaventoso: nel nostro Paese un italiano su tre sarebbe analfabeta. Si tratta soprattutto di analfabetismo di ritorno, proprio di chi negli anni di scuola non è stato messo in grado di leggere un libro per proprio conto e di informarsi direttamente almeno su quei problemi che riguardano i suoi interessi ed il lavoro. E c’è una differenza, in peggio, rispetto al passato: gli analfabeti di oggi non si vergognano affatto di esserlo, soprattutto se hanno trovato il modo di far comunque soldi. Questa è, infatti, l’Italia in cui imperversa l’ossessione del telefonino e che riserva un successo strepitoso a quelli del «Grande Fratello», una trasmissione tra le più immonde e squallide che mai ci siano state. A tal proposito una notizia di cronaca, letta il 3 dicembre 2000, merita forse di essere ricordata: l’invio di una cesta di libri da parte del ministro Giovanna Melandri a quelli della casa del «Grande Fratello».

DI TANTO IN TANTO SORGE UN’ANIMA CHE SEMBRA TRIONFARE SULLA COMPLICAZIONE. La storia della filosofia ci fa soprattutto assistere allo sforzo senza sosta rinnovato di una riflessione che lavora per attenuare le difficoltà, risolvere le contraddizioni, misurare con un’approssimazione crescente una realtà incommensurabile col nostro pensiero. Ma di tanto in tanto sorge un’anima che sembra trionfare sulla complicazione a forza di semplicità, anima di artista o di poeta, che non ha tradito la sua origine e che proprio per questo è in grado di riconciliare, in un’armonia sensibile al cuore, termini forse inconciliabili per l’intelligenza. La lingua che quell’anima parla, quando imposta la voce della filosofia, non è tuttavia compresa da tutti. Gli uni la giudicano vaga, laddove essa è ciò che esprime. Altri la sentono precisa, perché sperimentano ciò che essa suggerisce. Per molti non è che l’eco di un passato scomparso; ma altri vi intendono già, come in un sogno, il canto gioioso dell’avvenire (Henri Bergson, Pensiero e movimento, Milano 2000, p. 241).

LA DIFFERENZA FRA L’UOMO COLTO E COLUI CHE VUOL SEMPRE IMPARTIRE LEZIONI. Se ti capita di cenare con un uomo che ha passato la vita a farsi una cultura – tipo raro di questi tempi, lo ammetto, ma ogni tanto qualcuno se ne trova – ti alzerai da tavola arricchito e consapevole del fatto che per un istante un alto ideale ha sfiorato e santificato le tue giornate. Ma sedere accanto a qualcuno che ha passato la vita avendo solo la pretesa di istruire gli altri è un’esperienza ben diversa. Com’è spaventosa, infatti, l’ignoranza inevitabilmente prodotta in lui dalla fatale consuetudine d’impartire sempre lezioni agli altri e come si dimostra limitata ed angusta la sua mente! Una persona del genere non può che annoiarci e dovrebbe pure annoiarsi con le sue infinite ripetizioni, non essendovi in lei alcun elemento di crescita intellettuale (Oscar Wilde).

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. La voce. Era una voce che faceva male / ma insegnava. / Scopriva / a stento il suo timbro si udiva / nel silenzio che ascoltava. / Paradisi, non c’erano. / Purgatori, non mostrava. / Limbi, sì, diceva / che li sentiva / pesanti di viltà / lì nella terra dove abitava. / E abitava in questo mondo / quella voce. / Abitava proprio nel fondo / del pozzo ch’è dentro di noi (Miguel Torga, poeta portoghese, 1907-1995).

11 gennaio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La fede, se non è pensata, è nulla. Chiunque crede pensa e credendo pensa, e pensando crede… La fede, se non è pensata, è nulla (Agostino).

Woody Allen si è scelto questa parte. Nell’era dell’angoscia egli vuol rappresentare l’eroe perdente. Avrà, perciò, sempre il rimpianto di non essere qualcun altro; e in tal modo incarna una disposizione d’animo quanto mai diffusa. È il segreto del suo successo. Perché certi farabutti fanno carriera. Le ragioni sono tante, ovviamente. Le principali, però, mi sembrano tre: la viltà di chi li ha giudicati per quel che sono, ma non ne ha contrastato l’ascesa, com’era suo dovere; la credulità imbecille di chi non chiede di meglio che di essere imbonito e di servire; infine la miopia di chi pensava di utilizzare il loro arrogante cinismo per opporli ai propri avversari. (Levi Appulo)

GRAZIA E BELLEZZA. Se consideriamo le cose della natura, ciò che vi troviamo di più sorprendente è la loro bellezza, bellezza che va del resto accentuandosi nella misura in cui la natura si eleva dall’inorganico all’organico, dalla pianta all’animale, dall’animale all’uomo. Dunque, più il lavoro della natura è intenso, più l’opera prodotta è bella. È come dire che, se la bellezza ci rivelasse il suo segreto, noi penetreremmo per suo tramite nell’intimità del lavoro della natura. Ma quel segreto la natura lo libererà per noi? Forse sì, se consideriamo che essa è, in quanto tale, un effetto, e ne risaliamo la causa. La bellezza appartiene alle forme e ogni forma ha origine in un movimento che la traccia: la forma non è altro che un movimento registrato. Ora, se ci chiediamo quali sono i movimenti che descrivono forme belle, troviamo che sono i movimenti graziosi: la bellezza è la grazia fissata, diceva Leonardo da Vinci. La questione allora è di sapere in che consiste la grazia. Ma questo problema è più difficile da risolvere perché in tutto ciò che è grazioso noi vediamo, sentiamo, indoviniamo una specie di abbandono, quasi un accondiscendere. Per colui che contempla l’universo con occhi d’artista, è la grazia che si legge attraverso la bellezza ed è la bontà che traspare attraverso la grazia. Ogni cosa manifesta, nel movimento che la sua forma registra, la generosità infinita di un principio che si offre. Non a torto si chiama con lo stesso nome il fascino che si vede nel movimento e l’atto di liberalità che è proprio della bontà divina: i due sensi della parola grazia fanno tutt’uno (Henri Bergson, Pensiero e movimento, Milano 2000, pp. 232-233).

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Gli occhi. Il più vasto mare sono gli occhi umani: / tutto il mondo sostengono / tutto il mondo, in mille navi, naviga sul loro specchio: / stelle, fiori, uccelli, città, fabbriche, genti / tutto quello che fu, tutto quello che è, / tutto quel che sarà. // Vidi cose felici e leggiadre, / che per loro tenuità non affondano mai. / Vidi stelle e fiori, vidi uccelli / nell’inverno volare ai paesi del sud, / navi con lieve carico, agile fianco, collo di cigno / che sempre liete entravano nello specchio degli occhi e liete ne uscivano…. // Conosco anche le cose pesanti, le più pesanti / che vanamente s’avviarono lungo la strada dei cieli; / conosco ospedali e sobborghi, gente senza speranza, / navi di piombo che fanno naufragio. / Conosco nocchieri che non sorridono, / prigioni e galere / che per il peso del carico si squarciano in due / e negli occhi entrano solo per affondare. / Il più profondo mare sono gli occhi umani / e il loro fondo tocca nell’intimo il cuore (Jiri Wolker, poeta ceco, 1900-1924).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Perché anch’io sono caduta. Poi che anch’io sono caduta, Signore, / dinnanzi a una soglia – / come il pellegrino / che ha finito il suo pane, la sua acqua, i suoi sandali / e gli occhi si oscurano / e il respiro gli strugge / l’estrema vita / e la strada lo vuole / lì disteso / lì morto / prima che abbia toccato la pietra del Sepolcro – / poi che anch’io sono caduta Signore, / e sto qui infitta / sulla mia strada / come sulla croce, / oh, concedimi Tu / questa sera / dal fondo della Tua / immensità notturna, – / come al cadavere del pellegrino, – / la pietra delle stelle (Antonia Pozzi, poetessa milanese 1912-1938).

18 gennaio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un grande guadagno. La parsimonia, il non amare gli acquisti, è un grande guadagno (Cicerone). Non aspettare il viale del tramonto. Regola dell’uomo avveduto è abbandonare le cose che lo abbandonano (Baltasar Graciàn). Un uomo e il suo abito. Coloro che fanno del vestito una parte principale di sé finiscono, quasi sempre, per non valere più dei loro abiti (William Hazlitt). Le donne mezze nude. Ma questo va a vantaggio der peccato / perché er lavoro de la fantasia / se riduce a uno spazio limitato (Trilussa). Dunque esisto. Cartesio colse il valore decisivo dell’autocoscienza e ce ne dette l’espressione più folgorante: cogito ergo sum, «penso dunque sono». Il teologo Karl Barth ce ne ha dato il completamento, scrivendo: a Deo cogitor, ergo sum, «sono pensato da Dio, dunque sono» (Levi Appulo). Direttamente proporzionale. Più si dona il proprio cuore, meno ci si impoverisce (Vladimir Ghika).

ELOGIO DELLO SMEMORATO. Certe cose nessuno le rammenta meglio di chi ha fama di smemorato. E questo, come dicono tutti quelli che conoscono i trucchi per memorizzare, succede perché gli smemorati di solito fissano intensamente la loro attenzione su quelle cose che sfuggono di più. Noi smemorati ci concentriamo sull’odore, sui colori dei vestiti, su un suono, sul moto improvviso di antipatia o attrazione che una cosa provoca in noi; o siamo turbati profondamente da qualcosa di cruciale che molti trovano insignificante. Dimenticare è un’arte, una delle arti più utili e peggio praticate che si conoscano Nel bene e nel male, tutti dimentichiamo, ma ciascuno a modo suo. Siamo capaci di dimenticare la morte, il dolore e quelli che ce l’hanno provocato. Perdoniamo non per generosità, ma per smemoratezza, senza rendercene conto. Per questo dobbiamo benedire la dimenticanza come si benedice il pane quotidiano. Grazie al nostro dimenticare noi torniamo a inciampare sullo stesso sasso, i nostri genitori sono riusciti a vivere insieme, i nostri fratelli ci vogliono bene e quelli a cui abbiamo fatto un favore ci scansano. Grazie alla dimenticanza continuiamo ad accumulare libri, come se avessimo dinanzi a noi molte vite per leggerli. Un giorno, pensiamo, arriverò a sfogliarli uno per uno, e ci dimentichiamo che un giorno mi verrà l’epatite, o un’altra di quelle lunghe malattie durante le quali tutto si può fare tranne che leggere (Ángeles Mastretta).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Tendere verso quella bella armonia. Mio Dio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, di quella vastità che poi non è nient’altro che il mio essere ricolma di te. Ti prometto che tutta la mia vita sarà un tendere verso quella bella armonia, e anche verso quell’umiltà e vero amore di cui, nei momento migliori, mi sento capace (Etty Hillesum, Diario 1942 – 1943, Milano 1990, p. 87).

25 gennaio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La Pentecoste al contrario. Stiamo vivendo una sorta di rovesciamento della Pentecoste, una specie di Pentecoste infernale. Lo spirito non discende più su di noi per regalarci la portentosa capacità di parlare altre lingue, ma per costringerci a un unico idioma incomprensibile, la lingua della confusione in cui viviamo (Aldo Grasso). I verbi poveri di Gesù. Ciò che Gesù dice è illuminato da verbi poveri: prendete, ascoltate, venite, partite, ricevete, date, andate. Egli ignora quelle parole mezzo velate, la cui oscurità permette ai potenti di consolidare la loro prepotenza (Christian Bobin). La volgarità nel nostro tempo. Quello che caratterizza la nostra epoca è la volgarità, non solo nelle maniere e nel linguaggio, ma anche nel modo con cui essa intende offrire agli altri la sua immagine. Oggi la volgarità non si nasconde ed è anzi ben felice di esibirsi (Julien Green, scrittore francese, morto alla soglia dei novantasette anni nell’agosto 1998).

L’INCOMPETENZA PROFESSIONALE. L’incompetenza professionale oggi viene compensata – almeno secondo quelli che la incarnano – dalla simpatia, dalla gentilezza, dalla sincerità. «Lei si chiama Francesco Pontiggia, vero?», mi dice prima dell’intervista il giovane della televisione locale. «No, Giuseppe. C’è sulla copertina». «Sì, mi scusi», mi rassicura premuroso. Aggiunge: «Può dirmi qualcosa sul contenuto del libro? Glielo confesso, non ho fatto in tempo a leggerlo». Rispondo: «Non importa. Può basarsi sul risvolto di copertina». «Mi scusi, ma io non l’ho letto». Mi fissa con fermo smarrimento. Gli dico: «Può leggerlo ora». «Non faccio in tempo. La trasmissione comincia fra trenta secondi». «Mi faccia qualche domanda precisa», rispondo inquieto. «Quando ho scritto il libro, perché ho scelto questo titolo. Si basi sulle mie risposte per andare avanti». «La ringrazio tanto», mi risponde. «Lei è molto gentile». Nell’intervista ho avuto più volte l’impressione che io parlassi di un libro e lui di un altro e che io rispondessi a domande che lui faceva a un altro. «Ottimo, non le pare?», mi ha detto alla fine dell’intervista. «Ha notato che improvvisando riesce meglio? Io credo all’ispirazione». «Anch’io», ho detto. «Mi mette una dedica sul libro? Me l’ha regalato la libraia». Me lo porge aperto sul frontespizio. «Qual è il suo nome?», ho chiesto «No, scriva Miriam», ha risposto. «È il nome della mia ragazza. Io intervisto gli autori, ma è lei che ha la passione di leggere» (Giuseppe Pontiggia, Il Sole 24 ore del 3.12.2000).

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. La finestra e, nel mezzo, un cipresso. Di fronte sta la finestra; in fondo / il cielo, tutto cielo, e null’altro; / e nel mezzo, fisso sul firmamento, / slanciato un cipresso; e null’altro. // E sia sereno il cielo o abbuiato, / nella gioia dell’azzurro, nel tumulto della bufera, / sempre uguale oscilla il cipresso lentamente, / tranquillo, bello (Kostìs Palamàs, poeta greco, 1859 – 1943).

1 febbraio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Senza affanno. A ogni giorno basta la sua pena (Vangelo di Matteo). La raccomandazione di Noè. Noè diceva spesso a sua moglie, quando si sedeva a tavola: «Non m’importa dove va l’acqua, purché non vada nel vino» (Gilbert K. Chesterton). Quelli che son dolci per interesse. Non vi sono persone più acide di quelle che sono dolci per interesse (Luc de Vauvernagues).

La maschera e il volto. Spesso una maschera ci dice più cose dello stesso volto. Solo le persone superficiali non giudicano le apparenze. Passione e oblio. Il fiore scarlatto della passione sembra crescere nello stesso prato dei papaveri dell’oblio. La sincerità non basta. Il valore di un’idea non ha nulla a che fare con la sincerità dell’uomo che la esprime. Che cos’è l’esperienza? Esperienza è il nome che si dà ai propri errori. (Oscar Wilde)

A VENT’ANNI DALLA STAGIONE DELLE STRAGI E DEL TERRORISMO. Sono passati vent’anni dalla conclusione dell’era delle stragi e del terrorismo in Italia e il nostro Paese si trova a vivere una situazione che è difficile dire se è più assurda o tragica: il mancato raggiungimento di una verità accettabile su quei fatti. Più il tempo passa, anzi, più la verità sembra allontanarsi. La vicenda del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro ne è l’esempio più clamoroso, ma non certo unico. Rivelazioni a puntate e ad hoc, ostinati silenzi di fronte all’evidente inconsistenza delle ricostruzioni ufficiali e delle prove che le fondano, colpevoli inerzie e omissioni di fronte ad atti dovuti, inspiegabili reticenze dei protagonisti: ecco gli ingredienti principali della situazione, del resto ampiamente documentati dal lavoro della Commissione parlamentare sulle stragi presieduta dal senatore Pellegrino. Il nostro Paese, così, si trova a dover costruire il suo futuro senza aver chiuso davvero i conti con il suo passato. E il passato continua a tornare come un fantasma avvelenando la vita pubblica. In Sudafrica, una nazione che siamo abituati a considerare meno civile e meno matura della nostra, all’indomani della fine dell’apartheid e del dominio dei bianchi è stata attivata una Commissione per la riconciliazione nazionale allo scopo di fare verità sul passato. Tutti i responsabili di atti illegali, compresi i fatti di sangue, compiuti dalle due parti che li riferivano alla Commissione, assumendosene la responsabilità, non erano più penalmente perseguibili. L’effetto del lavoro della Commissione è stato positivo. Oggi il Sudafrica si trova a misurarsi con i terribili problemi del suo presente e del suo futuro, ma non più con quelli del suo passato. È inutile negarlo, la logica della Commissione sudafricana era cinica anche se saggia: rinunciare alla giustizia facendone materia di scambio con la verità. Pur conoscendo bene il dolore delle vittime di quei reati, mi domando se il nostro Paese non dovrebbe fare un’operazione analoga ottenendo finalmente una verità credibile e condivisa sulla stagione del terrorismo e delle stragi per poter costruire più serenamente il proprio futuro. Altre volte ci siamo occupati di questo problema e abbiamo avanzato la stessa proposta in questa nostra rubrica. Il brano riportato acquista, però, un particolare significato perché scritto da Giovanni Moro, il figlio dello statista pugliese ucciso dalle Brigate rosse. Apparve su La Stampa del 28 ottobre 2000.

CI VOGLIONO NOVE MESI. «Per fare il pane ci vogliono nove mesi», disse il padre. «A novembre il grano è seminato, a luglio mietuto e trebbiato». Il vecchio contò i mesi: «Novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio. Fanno giusto nove mesi. Per maturare l’uva ci vogliono anche nove mesi, da marzo a novembre». «Nove mesi?», domandò la madre. Non ci aveva mai pensato. Ci vuole lo stesso tempo par fare un uomo (Ignazio Silone, Vino e pane, Zurigo 1936).

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. L’unica parola senza travestimento. Mi hanno dato il silenzio come una parola impossibile, / nuda e chiara come il fulgore di una lama invincibile, / perché custodissi dentro di me / l’unica parola senza travestimento: / la Parola che mai si proferisce (Adolfo Casais Monteiro, poeta portoghese, 1908 – 1972).

8 febbraio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le cose da ammirare. Negli uomini le cose da ammirare sono più di quelle da apprezzare (Albert Camus). Nel nemico l’amico da scoprire. Se è vero che in ogni amico v’è un amico che sonnecchia, non potrebbe darsi che in ogni nemico vi sia un amico che aspetta l’ora sua? (Giovanni Papini). Allora ci sentiamo colpiti al cuore. Ci vogliono il tuo nemico e il tuo amico insieme per colpirti al cuore: il primo per calunniarti, il secondo per venirtelo a dire (Mark Twain). Un po’ meno e un po’ più. Si hanno un po’ meno amici di quanto si suppone, ma un po’ più di quanti ne conosciamo (Hugo von Hofmannsthal). Non possiamo farne a meno. Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se avesse tutti gli altri beni (Aristotele). Insieme, nella stessa direzione. Amare non è guardarsi l’un l’altro, è guardare insieme nella stessa direzione (Antoine de Saint-Exupèry).

IL GIUSTO CONVERSARE. Io vengo da un tempo molto umano, e sempre più remoto, in cui il conversare era considerato un dono, un privilegio, l’usanza più lodevole. Non ci sono formalità da sbrigare, non servono credenziali o registri per essere buoni conversatori. L’unico segno distintivo è la facilità con cui essi accorciano le distanze e scoprono le proprie emozioni, i propri dubbi crucci e progetti, come se sgranassero un rosario. Per un conversatore nessuno è più spregevole di un pettegolo, anche se per sua sfortuna nessuno più di lui cammina vicino all’orlo di quel baratro. Piuttosto che nuotare, mangiare, dormire o darsi ad analoghi piaceri, i conversatori preferiscono scambiarsi parole. Soltanto i baci e ciò che ne consegue sono per loro piacevoli quanto le parole. Forse perché i baci sono imparentati con le parole e l’amore può essere una conversazione perfetta.

COME GLI ALBERI, COSÌ ANCHE GLI UOMINI. Il grande albero, giunto dalla Carinzia e montato in piazza San Pietro per il Natale dell’anno 2000, era alto più di trentacinque metri. Giovanni Paolo lo ha accolto con queste parole: «Già nella mia patria, quand’ero fanciullo, imparai ad amare gli alberi. Quando li si guarda, gli alberi cominciano a parlare. Il loro è un messaggio profondo: non predicano dottrine, ma annunciano la legge fondamentale della vita… Come gli alberi, così anche gli uomini hanno bisogno di radici ancorate nel profondo. Soltanto chi è radicato in terra fertile è fermo, è forte. Può spingersi in alto ad accogliere la luce del sole e del pari resistere al vento intorno a lui».

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Mandaci, o Dio, i folli di cui abbiamo bisogno. Mandaci, o Dio, dei folli: quelli che s’impegnano a fondo, che sanno obliarsi, che amano sinceramente e non solo a parole, che veramente sanno sacrificarsi fino alla fine. Abbiamo bisogno di entusiasti, di creature capaci di salti nell’incerto, nell’ignoto sempre più vasto della povertà: che accettino, gli uni di perdersi tra la massa anonima senza alcun desiderio di farsene un trampolino di lancio, gli altri di servirsi della superiorità acquisita unicamente al servizio di essa. Non sempre però questo salto consiste nel rompere i ponti col proprio ambiente e col proprio sistema di vita, ma è piuttosto una rottura fors’anche più profonda con quell’intimo egocentrismo del proprio io, che fino a questo momento ha dominato incontrastato. Abbiamo bisogno di folli del nostro tempo, amanti di una vita semplice, difensori delle classi più umili, alieni da ogni compromesso, decisi a non mai tradire, sprezzanti della loro stessa vita, pronti ad una abnegazione totale, capaci di accettare qualsiasi compito, di partire per obbedienza verso qualsiasi destinazione, liberi e sottomessi al tempo stesso, spontanei e tenaci, dolci e forti (fr. Louis Joseph Lebret).

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Crepuscolo. Soffia la brezza con impeto lieve / e fa agitare lentamente i fiori; / nei cuori e in tutto il creato regna / il vespero rosato, ora piena di profumi. Dorato momento del giorno che suscita memori sogni, / in cui l’animo è presago del sereno, dell’eterno riposo e contempla / come per l’ultima volta ogni / indimenticabile esperienza: / bionde dal collo di giglio, amori, occhi / azzurri, teneri, ormai spenti e baci e fremiti / e lacrime: vani doni invidiati / della vita che lentamente si spegne e finisce / come il viola cupo di questo tramonto che si tinge sempre di più (Lorenzo Mavilis, poeta greco, 1860 – 1912).

15 febbraio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La frenesia degli instancabili. C’è stato un dittatore che vegliava su di noi. Forse era meglio che dormisse. A tutti gli instancabili della penisola vorremmo estendere questo appello: riposatevi. Non siete insostituibili, soprattutto se divenite instancabili. La gente, a quel punto, è già stanca di voi. Voi non potete neanche immaginare come il riposo sia favorevole al pensiero (Giuseppe Pontiggia).

A chi vuol essere troppo moderno. Non c’è niente di più pericoloso che essere troppo moderni: si corre il rischio di passare di moda da un giorno all’altro. Il culto del superfluo. Nella vita moderna il superfluo è tutto. Nella mappa del mondo il paese di Utopia. Una mappa del mondo che non includesse il paese di Utopia non meriterebbe neppure uno sguardo, perché escluderebbe il paese al quale l’umanità è sempre approdata: e quando vi approda, subito si guarda intorno e di nuovo parte per un paese migliore. Il progresso non è altro che la realizzazione di Utopia. (Oscar Wilde)

GRANDEZZA STORICA O GRANDEZZA DIABOLICA? Alla domanda che di tanto in tanto torna circa la grandezza storica di Hitler, uno dei dominatori della scena del mondo nel secolo XX, che cosa si può rispondere? Le considerazioni più oneste e rigorose sull’argomento mi sembrano quelle svolte da uno storico tedesco, Karl Dierich Erdmann.

«Si può attribuire una grandezza ad un uomo che considerava la coscienza una invenzione degli ebrei? Hegel era convinto che la personalità storica mondiale non potesse essere valutata con i criteri normali, e Burckhardt stabilì per la grande personalità storica una dispensa dalla legge etica comune. Ma entrambi non contemplavano certo la possibilità del crimine puro che Hitler esercitò nei confronti degli ebrei, nei confronti degli altri popoli e, non ultimo, nei confronti dello stesso popolo tedesco. Questa affermazione naturalmente non deve impedirci di vedere che quel primo attributo con il quale Burckhardt definisce la grandezza storica, l’attributo cioè del movimento mondiale concentrato in singoli individui, in Hitler non c’è. La grandezza di Hitler, che disorientò le menti per poi mettere il mondo a ferro e fuoco pochi anni dopo l’ascesa vertiginosa al potere, trascinando il suo popolo nella rovina più totale, è solo diabolica».

BISOGNA PURIFICARE IN NOI IL DESIDERIO DI GRANDEZZA. Simone Weil, spentasi nell’agosto del 1943, quando la Seconda Guerra mondiale era in pieno svolgimento, aveva affrontato lo stesso problema, prefigurandosi col solito acume la suggestione che avrebbe potuto esercitare fra venti, cinquanta, cento o duecento anni su un adolescente sognatore e solitario, tedesco o no, la raffigurazione di Hitler come un essere che ha avuto un destino grandioso. E se quell’adolescente arriva a desiderare con tutta l’anima un uguale destino, c’è da temere molto. Scrive Simone Weil: «La sola punizione capace di ridurre Hitler a quello che realmente è, e di distogliere dal suo esempio gli adolescenti affamati di grandezza che vivranno nei secoli a venire, è una così completa trasformazione del senso della grandezza, che necessariamente lo esclude… E per contribuire a quella trasformazione bisogna averla compiuta in noi stessi: In quello stesso momento ciascuno di noi può dare inizio alla punizione di Hitler nell’interno dell’anima propria, modificando profondamente il sentimento di grandezza». Finché il senso di grandezza, «il desiderio di passare alla storia» è dominante nelle aspirazioni e nelle azioni umane, non si riuscirà a mettere effettivamente al bando della coscienza umana la tirannide e l’oppressione e i grandi criminali continueranno a proporsi come modelli.

Ho ritrovato con vero piacere questo testo di Simone Weil in un’opera appassionata e profonda, illuminante come poche altre, uscita presso la Morcelliana di Brescia (2000): La politica e il male di Michele Nicoletti.

POESIA CINESE. Perché sono così contento? Di buon mattino appena alzato canto, / come uccello sull’albero; / il mio canto è così lieto, / manifesta una sola gioia senza pari… / Perché sono così contento, / canto e canto e non mi so fermare? / Non v’è che una ragione: / ho un amico che arriva da lontano (Ai Qing, 1910 – 1996. Dalla raccolta di poesie cinesi Ho un amico che arriva da lontano, Pesaro 1998).

22 febbraio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’abisso che attira Dio. L’anima umana è come un abisso che attira Dio, e Dio vi si getta (Julien Green). Amore e amor proprio. Non l’amore bisognava dipingere cieco, ma l’amor proprio (Voltaire). Amore e speranza. Una grande speranza è prova di un grande amore (Honoré de Balzac). Ci vuole immaginazione. In amore non c’è disastro più spaventoso che la morte dell’immaginazione (George Meredith). La tenerezza non ha nulla a che fare con il dolciastro. L’amore non sa di zucchero (Hugo von Hofmannsthal). Chi fa problema. Amore è tutto ciò che aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita verso tutte le altezze e tutte le profondità. L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo; problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori e la strada (Franz Kafka).

JOHAN HUIZINGA, GRANDE STORICO E GRANDE EUROPEO. Nel 1940, quando le armate hitleriane occuparono l’Olanda, Johan Huizinga aveva sessantotto anni. Lo storico, autore di libri memorabili come L’autunno del Medioevo e La crisi della civiltà, fu internato in campo di prigionia e anche lì continuò la sua lotta «contro la morte di ogni libertà». Ammalatosi nel ‘43, affrontò la prova col solito coraggio, ma si spense il 1° febbraio del ‘45, mentre guizzavano gli ultimi bagliori della guerra, con il presagio sicuro della liberazione imminente del suo Paese e con la speranza in un ritorno all’umana, civile convivenza tra i popoli. Qualche anno prima fu chiamato a tenere a Vienna una conferenza sul tema che domina tutta la sua ricerca storica. La conferenza, che aveva per titolo L’uomo e la cultura, venne fissata per il maggio del 1938, ma non fu mai tenuta perché l’Anschluss lo impedì. Quella conferenza, pubblicata in italiano nel ‘47 e poi nel ‘48, è come il testamento spirituale di Huizinga e meriterebbe di essere conosciuta anche dai giovani di oggi. Di essa mi è caro proporre qualche riflessione.

UNA FERITA NEL CORPO DELLA NOSTRA CULTURA. «È una vecchia dottrina quella dello Stato amorale: Machiavelli e Hobbes credettero di leggerla nella realtà e la maggior parte degli uomini politici operano secondo essa, anche senza riconoscervisi del tutto. Per lungo tempo l’amoralità politica trovò un contrappeso nell’idea cristiana. Quanto più forti furono i mezzi di dominio e la giurisdizione dell’attività dello Stato, tanto più pericolosa fu quella dottrina. Lo Stato che si eleva a norma di tutte le cose e nello stesso tempo proclama il carattere amorale della sua politica è il meno indicato alla guida etica di un popolo. Quando lo Stato pretende di essere al di sopra della morale dichiara l’ambito della sua azione come fonte del male e formalmente attira lo scatenarsi della malvagità umana, sempre uguale a se stessa. È mia intima convinzione che la dottrina dello Stato amorale costituisce una ferita aperta nel corpo della nostra cultura. Una ferita che fa incancrenire il corpo».

E LA VIA DEL RISANAMENTO. «Se il risanamento morale della cultura non possiamo attenderlo dallo Stato come tale, di dove potrebbe venire? Potrebbe evidentemente avere inizio dalla diffusione di una genuina, profonda fede, da una pura e viva fede. Da lì potrebbe prender le mosse la semplificazione della cultura, che ci sembra sempre più indispensabile, e il suo radicarsi consapevolmente nei fondamenti della nostra via spirituale. Per l’Occidente questa fede non potrebbe essere che quella cristiana. La nostra cultura, nonostante ogni apostasia e ogni rinnegamento, è cultura cristiana. La concezione cristiana del mondo rimane l’atmosfera di vita di tutti i popoli dell’Occidente. Coloro che, senza un’appartenenza confessionale o un’esplicita concezione filosofica del mondo e della vita, percorsero per un tratto più di una via del pensiero, trovarono, alla fine dei loro percorsi, che la più adeguata espressione del rapporto umano con la realtà sta nell’etica cristiana e nei fondamentali concetti religiosi della grazia e della redenzione. E, se anche ciò fosse per alcuni soltanto un presentimento e una speranza, ciò basterebbe a conferire alla loro vita dignità e valore».

1 marzo 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Finita la festa. Finita la festa / sai cosa resta: / qualche carta per terra / portata dal vento… / Nel cuore della gente / una grande nostalgia / per chi se ne va via (Riccardo Regosa). Un’incredibile idiozia. Secondo una certa Tradizione la Regalità si trasmette jure sanguinis: solamente chi appartiene a una Stirpe Reale può legittimamente regnare. Il fluido misterioso contenuto nel sangue reale è dato dalla grazia dello Spirito Santo insita ab origine nel sangue di ogni Dinastia Reale. (Queste affermazioni si leggono nel volume di Enrico Clerici La regalità: miti, simboli e riti, Carmagnola 1998). L’eredità del Novecento. Quella dei cent’anni appena trascorsi è stata una realtà così profondamente difforme nelle sue luci e nelle sue ombre, da annoverare il meglio e il peggio che si potesse immaginare: imprese mirabili e tragedie terribili, stupefacenti progressi e drammi epocali. E le sue propaggini, i suoi lasciti, non si prestano a prognosi univoche (Valerio Castronovo).

UNA NUOVA METAFISICA FONDATA SULLA REALTÀ DELLA LEGGE MORALE. Per Kant la legge morale è dotata di un’intrinseca certezza, non sfiorata e tanto meno incrinata dal dubbio che ci può cogliere in sede teoretica dinanzi ai più ardui problemi del pensiero speculativo. Kant, che pure conosceva molto bene le istanze scettiche di Hume e le esigenze libertarie di Rousseau, scopre che la legge morale, scaturiente dall’intimo della natura razionale dell’uomo, è il più certo documento della libertà umana e la premessa di ogni vita sociale, che riequilibri l’insocievole socievolezza dell’uomo in giusti rapporti in cui si rispetti la dignità di fine che spetta ad ogni persona. La legge morale costituisce per il filosofo di Königsberg il pungolo sempre vivo ed attuale a costruire una metafisica di tipo nuovo, che non è una pia illusione, ma poggia su una realtà che l’uomo scopre in se stesso: una metafisica che Kant non si limita a pensare e ad affermare genericamente, dando invece ad essa una consistenza ed un corpo dottrinale, una giustificazione esauriente, anche se non completa sotto tutti gli aspetti.

«DOVERE! NOME SUBLIME E GRANDE…». Ha veramente onorato l’umanità e la filosofia chi ha potuto scrivere nella Critica della Ragion pratica, e confermare con tutta una vita nobile ed austera, una pagina così insolitamente vibrante di pathos come la seguente: «Dovere! Nome sublime e grande, che non implichi nessun oggetto di amore sensibile che possa attrarre con lusinghe, ma chiedi sommessa obbedienza. Per muovere la volontà tu non minacci qualcosa che susciti nell’animo ripugnanza e timore, ma esprimi soltanto una legge, che trova spontaneo adito nell’animo umano e, anche se il volere recalcitra, si acquista rispetto ancorché non sempre sia praticata: una legge dinanzi alla quale tutte le inclinazioni tacciono, benché occultamente vi contrastino. Qual è l’origine degna di te e dove si trova la radice del tuo nobile linguaggio, che esclude ogni affinità con le tendenze istintive, e dalla quale dipende la condizione necessaria del valore che solo gli uomini possono attribuirsi? Non può essere nulla di meno di ciò che eleva l’uomo al di sopra di se stesso, come parte del mondo sensibile, e lo inserisce in un ordine di realtà che solo l’intelletto può pensare».

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Il ramoscello di follia di noi poeti. Tutti insieme ci muoviamo, in massa, / andando in cerca di una rima. / Una così nobile ambizione / è diventata lo scopo della nostra vita. // Mutiamo con suoni e sillabe / i sentimenti nei nostri cuori di carta, / pubblichiamo le nostre poesie, / per farci chiamare poeti. // Lasciamo i capelli al vento / e la cravatta. Prendiamo pose. / Giudichiamo insopportabile, prosastica / la compagnia degli uomini semplici. // Solamente per noi esistono / le creature di Dio e, certamente, tutta la natura. / Per mandare corrispondenze alla terra, / siamo saliti sulle stelle del cielo (Kostas Karyotakis, poeta greco, 1896 – 1928).

15 marzo 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Chi non ha nulla. Chi non dà nulla, non ha nulla. La disgrazia più grande non è non essere amati, ma non amare. Che cosa cambia con Cristo. Con Cristo finisce la morte, che cominciò con Adamo. (Albert Camus)

Per ascoltare il cuore. La bocca custodisce il silenzio per ascoltare il cuore che parla (Alfred de Musset). Una parola non è la stessa. Una parola non è la stessa in uno scrittore o in un altro. Uno se la strappa dalle viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito (Charles Péguy). Come in teatro, così nella vita. Non esistono parti piccole o grandi, ma piccoli o grandi attori (Konstantin Sergeevich Alekseev, regista e teorico russo dell’arte teatrale, 1863 – 1938).

LE TRE FAMOSE DOMANDE DI KANT. Kant pone al termine della Critica della ragion pura tre famose domande: «Che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è concesso sperare?». La prima domanda investe il problema della conoscenza. Il termine usato da Kant è wissen, la conoscenza rigorosa, universale e necessaria. L’oggetto reale dell’interrogazione non riguarda il contenuto della conoscenza, ma la determinazione dei suoi limiti. Va da sé che un discorso sui limiti entro i quali possiamo conoscere diventa un discorso sulla condizione umana colta in un atteggiamento fondamentale, quello dell’uomo che misura le sue possibilità di conoscere il vero.

La seconda interrogazione si riferisce all’attività pratica, all’azione che cosa debbo fare? In questa domanda il verbo usato da Kant ha un suo rilievo particolare: non müssen ma sollen, non una necessità che costringa in forma deterministica, ma il dovere liberamente seguito di far esistere ciò che la ragione comanda. E il presupposto del dovere è la libertà in cui la persona trova la sua consistenza.

La terza domanda si pone lungo l’ardua frontiera tra conoscenza e moralità da un lato e salvezza dall’altro, tra filosofia e religione. Anche in questo caso va richiamata l’attenzione sul verbo usato da Kant: dürfen, nel senso di mi è concesso, mi è permesso. Tale verbo è unito a hoffen che significa sperare, aprire un orizzonte. Entro i limiti di una conoscenza interrotta e nell’impegno di una libertà così pura da presentarsi di tanto difficile esercizio, che cosa mi è lecito sperare? La speranza è come un ponte lanciato oltre il confine del conoscere e l’efficacia dell’azione. Lanciato verso dove? Verso una ulteriorità che oltrepassa il conoscere rigoroso e la disciplina del dovere per situarsi nel contesto di un’esperienza religiosa (Armando Rigobello, Perché la filosofia, Brescia 1980, pp. 23 -25).

Una ricerca che non tenti di rispondere con rigore a ognuna di quelle tre domande non può dirsi propriamente filosofica. La filosofia è, infatti, individuata nella sua specificità proprio da quei tre interrogativi. Se così non fosse, non varrebbe una sola ora di pena.

«NON DICO PIÙ: NON M’IMPORTA PIÙ NIENTE». Ci si abbandonava smodatamente alle proprie tristezze, sino all’autodistruzione»: è diventata una frase leggendaria. Ora non succede più. Anche nei giorni di grande stanchezza e tristezza non mi lascio più cadere così in basso. La vita rimane una corrente ininterrotta, forse in certi giorni un po’ più lenta e ostacolata, ma continua tuttavia a scorrere. Non dico più: sono così infelice, non so più che fare, non m’importa più niente. Una volta, avevo ogni tanto la pretesa di essere la persona più infelice di questa terra… (Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Milano 1990, 18 maggio 1942).

L’ANGOLO DELLA POESIA. Il girasole. Ho accanto un fiore / nello studiolo antico / che sempre i petali / volge alla luce; / ho un bel girarlo come a me piace: / non mi ubbidisce il fiore; / e se lo volto ancora verso me, / lui sempre cerca i raggi del sole. / Ah, se fossi come quel fiore / in tutto il mio agire, nei timori e nelle afflizioni, / dentro casa e fuori… // Buio e tristezza sovente / m’avvolgono: mali antichi / e nuovi, ferendomi l’anima, / mi abbattono: / ma alla fine, o Dio, la mia oscurità / volgendosi a Te ritrova la luce, / i miei occhi chiusi Ti vedono, / nuovamente respiro alla chiarità del sole (Guido Gezelle, poeta fiammingo, 1830 – 1899. Di lui si possono leggere Poesie scelte, Faenza 1999).

22 marzo 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le radici, il futuro. Se dimentichi le tue radici , perdi il tuo futuro (Lino Ertani). A chi non piace il vino. A chi non piace il vino, il Signore faccia mancare anche l’acqua (da Il grande libro dei proverbi e dei detti popolari di Annalisa Strada, Casale Monferrato 2000). Il reale e il possibile. Il reale è circondato da un mare di possibilità, da cui di continuo sale una nuova realtà (Ernst Bloch).

La bellezza. 1. È meglio godere della bellezza di una rosa che studiarla al microscopio. 2. Il guardare una cosa è ben diverso dal vederla. Non si vede una cosa finché non se ne vede la bellezza. (Oscar Wilde)

In ogni epoca vi sono nuove forme di bellezza. Talora nelle nostre valutazioni ci dimentichiamo che non esistono canoni fissi del bello e la perenne novità della poesia, come di qualsiasi arte, trova in ogni epoca – e dunque anche nella nostra – nuove vie per offrire agli uomini il suo dono. Il Bello, quello naturale così come quello artistico, non è solo ciò che piace. Oltre ad essere una festa per gli occhi, esso nutre lo spirito e lo illumina, pone tutto l’uomo nella condizione di sentire il mondo come luogo di segrete corrispondenze e di irradiamento del divino (Levi Appulo).

L’EROE TRAGICO DEL NOVECENTO. Il capolavoro di Michail Bulgakov (1891 – 1940), Il Maestro e Margherita, non è affatto un romanzo su Cristo, ma su Pilato. Solo Pilato corrisponde qui all’immagine che emerge dalle scarne testimonianze del Vangelo. A Bulgakov interessava innanzi tutto un tema. «L’uomo che si lava le mani». Questo è il tema immenso e tragico di tutto il XX secolo. Anche il Maestro è, a modo suo, una sorta di Pilato. E Bulgakov, identificandosi con lui, cerca se non di giustificare il lavarsi le mani, almeno di mettere in luce la tragicità di quel gesto e i tormenti che dilaniano quanti lo compiono. Pilato e il Maestro è come se si trovassero con le spalle al muro: in questa situazione come non cercare indulgenza per loro? Bulgakov vuol leggere nel profondo dell’anima di queste persone e, nello stesso tempo, essere misericordioso nei loro confronti. Si tratta di una combinazione assai sottile di smascheramento e di comprensione. Il Maestro è completamente distrutto dalla patologia del terrore: un abito mentale tipico dei «figli degli anni terribili della Russia». Sarebbe, dunque, disumano dirgli: «Smettila di comportarti come Pilato».

Queste riflessioni su una delle più grandi opere letterarie del Novecento sono riprese da una lettera del 1971 in cui il sacerdote ortodosso Aleksandr Men’ analizza i contenuti religiosi de Il Maestro e Margherita. Il testo della lettera si può leggere integralmente nel fascicolo del marzo 2000 della rivista La Nuova Europa. Nei «Meridiani» Mondadori è apparso il corposo volume Romanzi e racconti di Bulgakov (Milano 1999), introdotto da Marietta Cudakova e annotato, con eccezionale competenza e finezza, da Adriano Dell’Asta.

«SII PURE TRISTE, MA NON COSTRUIRCI SOPRA DEI DRAMMI». Veditela con te stessa, non trattare gli altri mettendo tutto sul piano della suscettibilità. Non farti prendere da un’atmosfera, da un momento per di più di indolenza, ma tieni presente le grandi linee e le grandi direzioni. Sii pure triste, semplicemente e sinceramente triste, ma non costruirci sopra dei drammi. La persona deve essere semplice anche nella sua tristezza, altrimenti la sua è soltanto isteria. Dovresti rinchiuderti in una cella spoglia, e startene sola con te stessa, finché non ti sia posta nuovamente in chiaro con te stessa, e tutte le isterie non ti siano passate (Etty Hillesum, Diario 1941 – 1943, Milano 1990, p. 124).

«RITROVO ME STESSA E LA MIA UNITÀ». Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più «raccolta», concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande, e anche un fatto sempre più oggettivo. La concentrazione interiore costruisce alti muri fra cui ritrovo me stessa e la mia unità, lontana da tutte le distrazioni. E potrei immaginarmi un tempo in cui starò inginocchiata per giorni e giorni – sin quando non sentirò di avere intorno questi muri, che m’impediranno di sfasciarmi, perdermi e rovinarmi (Etty Hillesum, ibid., 12 maggio 1942).

29 marzo 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Buon segno, se ti ripugna. La ripugnanza a compiere un’azione buona è segno che essa è veramente buona (Simone Weil). Tre persone in un unico «io». In ciascuno di noi ci sono tre persone: quella che vedono gli altri; quella che vediamo noi; quella che vede Dio (Miguel de Unamuno). Risalire alla sorgente. Il senso del mondo deve essere fuori di esso (Ludwig Wittgenstein).

PAVEL FLORENSKIJ, IL LEONARDO RUSSO. DAL GULAG STALINIANO LETTERA A UNA FIGLIA CHE NON FA BENE A SCUOLA. «12 novembre 1933. Cara Olecka (diminutivo della figlia maggiore Olga), innanzi tutto non preoccuparti per i tuoi insuccessi a scuola: tutto andrà bene e si aggiusterà nel modo migliore. Studia con tranquillità, momento per momento, ciò che ti è accessibile; cresci, completa il tuo sviluppo e sii sicura che tutto quello che accumulerai con il tuo lavoro oggi, che sei giovane, un giorno ti servirà; succederà anzi che ti occorrerà proprio questo sapere che ora può sembrarti insignificante. Te lo dico sulla base di una lunga esperienza di vita. Che devi fare allora? Per prima cosa bisogna acquisire certe nozioni che sono necessarie indipendentemente dal mestiere che farai in seguito: lingue, letteratura, matematica, fisica e scienze naturali, almeno un po’ di disegno, ma anche pittura e musica. Queste cose sono indispensabili in qualunque situazione di vita e qualsiasi attività si svolga. Impara ad esporre i pensieri, i tuoi e quelli degli altri, impara a descrivere; acquista l’abitudine ad un atteggiamento attento verso la parola, lo stile, la costruzione del discorso. È bene che tu abbia cominciato a studiare il tedesco in modo serio; non dimenticare però di studiare anche il francese: per questo leggi ogni giorno almeno una pagina, ma assolutamente a voce alta, e cerca le parole sconosciute nel vocabolario. Non è male anche leggere in francese avendo la traduzione russa del testo anche per cogliere i pregi e i difetti. In generale cerca di far sì che le lingue, quella russa come quelle straniere, siano per te un suono vivo e non solo segni sulla carta. Ricorda pertanto di leggere ad alta voce anche gli scritti russi, almeno una parte, per cogliere la perfezione del suono e il ritmo sia dal punto di vista sonoro, sia da quello contenutistico ed espressivo. Leggi immancabilmente a voce alta le poesie belle, soprattutto quelle di Puskin e di Tjutcev; anche gli altri ascoltino, per imparare e riposarsi… Per la matematica, cerca non solo di ricordare cosa e come fare, ma anche di capirlo e di apprenderlo come si apprende un brano musicale. La matematica non deve essere nella mente come un peso portato dall’esterno, ma un’abitudine del pensiero: bisogna imparare a vedere i rapporti geometrici in tutta la realtà e a individuare le formule di tutti i fenomeni… Un bacio forte a te, cara Olecka, e bacia la tua mammina. Vivi con forza e allegria, lavora e sii sana. Tuo papà».

NON DIMENTICATEMI. La stupenda lettera che qui ho riportato è tratta da uno dei documenti più alti che solo dall’ottobre scorso sono entrati a far parte del nostro patrimonio spirituale. Parlo del volume: Pavel Florenskij, Non dimenticatemi, pubblicato da Mondadori (Milano 2000). Il libro raccoglie le lettere alla moglie e ai figli che il grande matematico, filosofo e sacerdote russo, scrisse durante gli anni della prigionia e la sua detenzione alle isole Solovski, uno dei più terribili luoghi della repressione staliniana, tra il maggio 1933 e il giugno 1937. Arrestato in base ad accuse del tutto inventate, Florenskij divenne per tutti i carcerati che ebbero la ventura di conoscerlo un sostegno e una luce. Persino alle Solovski continuò ad applicare la sua straordinaria intelligenza scientifica e tecnica scoprendo, tra le altre cose, un liquido anticongelante e il modo di estrarre lo iodio dalle alghe marine. Benché le lettere che gli permettevano di inviare ai familiari, una al mese, fossero sottoposte a rigorosa censura e in esse non comparisse mai la parola «Dio», l’epistolario di padre Florenskij ha un rilievo esistenziale di grande eccezionalità, paragonabile a Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer o ai Diari di Etty Hillesum. La data e le modalità della morte di Florenskij sono rimaste sconosciute fino a poco tempo fa. Solo ora sappiamo che il suo nome fu incluso il 25 novembre 1937 in una lista di condannati a morte al numero 190. Il massacro fu eseguito l’8 dicembre dello stesso anno.

5 aprile 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Si celebra ogni giorno. Voglio dirvi un gran segreto, mio caro: non aspettate il giudizio finale, perché si celebra ogni giorno (Albert Camus). L’ammirazione per gli sciocchi. Uno sciocco trova sempre uno più sciocco che l’ammiri (Nicolas Boileau). La fede messa a dura prova. La predica è utile perché spesso mette a dura prova la fede di chi l’ascolta (Julien Green). Ciò che veramente illumina la conoscenza. Non è la conoscenza che illumina il mistero; è il mistero che illumina la conoscenza (Pavel Evdokimov, teologo ortodosso del Novecento).

PROFESSIONE DI FEDE NELLA VITA. Ogni tanto è inevitabile che ci si senta tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita e mi sento libera. I cieli si stendono dietro di me come sopra me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non insopportabile. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e «lavorare a se stessi» non è proprio una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra (Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Milano 1990, 20 giugno 1942).

«DILLO AI FIGLI, COME POTRAI». 18 marzo 1934 – Le due di notte – Skovorodino. Cara Annulja (vezzeggiativo di Anna), se voi poteste sentire e capire quanto amo tutti voi e quanto soffro per voi, sareste più sollevati. Ma non so come aiutarvi e non so neppure come esprimere il mio amore. Sappiate comunque che siete per me più cari della vita e che sarei pronto a sacrificare tutto per voi, purché foste un po’ sollevati e steste bene… Più volte al giorno immagino e accarezzo, come posso, ciascuno di voi nella mia mente, e per ciascuno il cuore mi duole in modo particolare. Dillo ai figli, come potrai. Non posso scrivere loro, sono ancora piccoli e non capirebbero le mie parole: un giorno le capiranno, quando cresceranno. Un bacio forte a te, cara; abbi cura di te stessa e dei figli. La sera guarda le stelle. Io ogni giorno, quando da noi sono le dieci, le dodici, guardo la Fascia di Orione. A volte la guardo all’una di notte. Ti bacio ancora una volta (Pavel Florenskij, Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli, Milano 2000, pp. 103 – 105 passim).

SE SI FA UN BILANCIO… Le dittature sono regimi di emergenza e possono anche rendere buoni servigi finché dura l’emergenza. Poi il dittatore, a furia di specchiarsi negli occhi e nelle parole dei piaggiatori di cui regolarmente si circonda (Mussolini non volle altri intorno a sé), finisce per perdere il senso della realtà. «È diventato il monumento di se stesso» diceva Bottai. E Balbo, più drasticamente: «Crede di essere Giulio Cesare, e invece è soltanto Cola di Rienzo, di cui dovremmo fargli fare la fine». Purtroppo, se si fa un bilancio di quello che all’Italia il fascismo ha reso e di quello che le è costato, bisogna convenire che il conto non è in pareggio, e tanto meno in attivo (Indro Montanelli in «La stanza» sul Corriere della Sera del 4 novembre 1999).

SULLA PASQUA. Quarta stazione. La quarta stazione è Maria che ha tutto accettato. / Anche lei è all’angolo della strada che attende / il bene di tutti i Poveri… / I suoi occhi sono senza lacrime, / la sua bocca non ha saliva. / Non dice una parola e guarda, guarda Gesù che viene. / Accetta. Accetta ancora una volta. Il grido / spasima trattenuto, nel cuore fermo e contratto. / La madre guarda il suo Figlio, la chiesa il suo Redentore. / Non una fibra nel cuore trafitto che non accetti e non acconsenta. / Come il suo Dio che è là, essa è tutta presente. / Accetta e guarda quel Figlio formato nel suo grembo. / Non dice una parola: guarda, guarda il Santo dei Santi (Paul Claudel).

12 aprile 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se l’antipatia è violenta. Le antipatie violente sono sempre sospette e tradiscono una segreta affinità (William Hazlitt). Di solito si detesta chi ci assomiglia e i nostri stessi difetti, visti dal di fuori, ci esasperano (Marcel Proust). Che l’apparenza diventi realtà. Sii quello che sembri (Lewis Carrol). L’approvazione, uno stimolante ed una tentazione. L’approvazione degli altri è uno stimolante, del quale però è bene diffidare talvolta (Paul Cézanne). Paesaggio e architettura. Una casa non deve mai essere su una collina o su qualsiasi altra cosa. Deve essere della collina, appartenerle in modo tale che collina e casa possano vivere insieme, ciascuna delle due più felice per merito dell’altra (Frank Lloyd Wright). Aggiungere qualcosa di bello alla creazione. La volontà e ogni umile segreto gesto dell’uomo teso all’amore del bene e del bello, per la sua inestimabile ed esclusiva facoltà di aggiungere liberamente un qualcosa in più, altrimenti assente, all’incessante divenire dell’universo; è sempre un atto che vale di per sé (Giulio Onofri).

«ECCO QUELLO CHE NON POSSO NON SCRIVERVI». 1. Abbiate per ognuno il rispetto dovuto, non adulate nessuno. Miei cari, in questo difficile periodo, gli amici e i conoscenti ci hanno molto aiutato, e senza il loro aiuto non saremmo sopravissuti. Molti hanno manifestato una bontà e un’attenzione che noi non abbiamo meritato. Anche voi, miei cari, siate sempre nella vita buoni e attenti verso le persone. Non dovete mettervi a sperperare i beni, o le carezze e i consigli. Non occorre la beneficenza. Cercate piuttosto di essere vigilanti e tempestivi nel soccorrere concretamente tutti i bisogni d’aiuto che Dio vi farà incontrare. Siate buoni e generosi… Abbiate per ognuno il rispetto dovuto, non adulate nessuno e non umiliatevi, ma non giudicate le questioni che non vi sono state affidate. Occupatevi dell’opera vostra, cercate di compierla nel migliore dei modi, e tutto ciò che fate, fatelo non per gli altri, ma per voi stessi, cercando di trarre da tutto vantaggio, conoscenza, alimento per l’anima, perché neppure un solo istante della vostra vita scorra accanto a voi senza che abbia senso o contenuto (3 giugno 1920).

2. Non vivere come capita. Amati figlioletti, il mio cuore si strugge per voi. Quando sarete grandi, capirete quanto si strugga il cuore di un padre o di una madre per i figli. Mi vengono tanti pensieri e sentimenti, ma non ho né il tempo né le forze di scriverli. Ecco, però, quello che non posso non scrivervi: «Abituatevi, educate voi stessi a fare perfettamente, con cura e precisione tutto ciò che fate. Il vostro agire non abbia niente di impreciso, non fate niente senza provarvi gusto, in modo grossolano. Ricordatevi che nel pressappochismo si può perdere il senso della vita, mentre nel compiere e al giusto ritmo anche le cose che sembrano di secondaria importanza si possono scoprire molti aspetti che per voi potranno essere, in seguito, fonte profondissima di un nuovo atto creativo» (notte tra sabato 19 e domenica 20 marzo 1921).

3. Guardate le stelle o l’azzurro del cielo. È da tanto che voglio scrivere: osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà dentro di voi, uscite all’aria aperta e intrattenetevi da soli col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete (14 agosto 1922).

Questi brani sono tratti dalle note testamentarie che Pavel Florenskij redasse nel corso di alcuni anni, tra l’aprile 1917 e il marzo 1923, quando la situazione divenne in Russia sempre più insostenibile per i credenti e la loro persecuzione fu sistematicamente messa in atto. I testi sono riportati in appendice al volume Non dimenticatemi, Milano 2000.

FRAMMENTO PER LA PASQUA. Nell’Orto degli Ulivi il terrore e l’angoscia / il sudore di sangue / il bacio in cui nell’ombra si confondono / la vittima e il carnefice. Ma ora tra le mura del Giardino / erompe l’alba, rovescia la pietra tombale / e dalle bende si spande odore di gelsomino. / Al tocco di una mano / una donna che piange volge il capo / e nel velo di lacrime non sa / scorgere il Santo Volto. / Ma il suo cuore in un tremito / ne riconosce la voce, ne grida il nome / e, spaventata, fugge sulla strada / tra deliri d’angoscia e di speranza. (Giovanni Cristini).

19 aprile 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il sogno di ogni epoca. Ogni epoca sogna quella dopo (Jules Michelet, storico). Fedeli alla realtà della vita. Essere fedeli alla realtà delle cose, nel bene e nel male, implica un amore integrale per la verità e una gratitudine totale per il fatto stesso di essere nati (Hannah Arendt). Per molti purtroppo è così. La religione degli italiani è disancorata dal concetto di verità (Lorenzo Chiarinelli, presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede e la catechesi). D’accordo con Mozart. Ho ascoltato i comizi di certi nostri politici, spacciatori di impossibili felicità, e mi è venuta in mente l’osservazione che fece Mozart guardando un arciduca d’Austria: «La stupidità gli cola dagli occhi» (Enzo Biagi).

I FUNERALI DI BORIS PASTERNAK. Il 30 maggio del 1960 morì Boris Pasternak. Morì escluso dell’Unione degli scrittori e in grave disgrazia presso i governanti del suo Paese, insultato sui giornali e tutto perché aveva ricevuto un Premio Nobel per la letteratura non gradito dalle autorità sovietiche. Per questo motivo i giornali non avevano neppure comunicato dove e quando si sarebbero svolti i funerali del poeta: il Governo aveva tenuto la cosa nel più rigoroso segreto. Pasternak, che viveva allora a Peredelkino, un piccolo centro vicino a Mosca, aveva lasciato disposizione che lo seppellissero nel piccolo cimitero locale, un cimitero molto pittoresco, disposto su una collina, che si vede dalle finestre della dacia di Pasternak. Però nonostante tutto la gente venne a sapere la data e il luogo delle esequie di Pasternak e lo venne a sapere principalmente dalle radio straniere. Attorno alla casa di Pasternak si raccolse una grande folla. Gli scrittori noti erano pochi, perché di norma essi sono prudenti e temono sempre di dispiacere alle autorità; ma c’erano molti giovani, molta gente comune e anche molti agenti della polizia segreta. Le autorità avevano escogitato un espediente per rendere più sbrigativo il funerale: avevano cioè disposto che un furgone andasse a prelevare la salma, benché ciò non sia affatto richiesto nei funerali russi. Infatti la gente ignorò completamente la presenza del furgone e la bara di Pasternak venne trasportata a braccia, attraverso il bosco, fino al cimitero sulla collina. E questo assunse persino un carattere simbolico: il nostro dolore era frammisto a uno slancio interiore, a una nuova consapevolezza. E poiché il cimitero si trovava su una collina, a noi che portavamo e accompagnavamo la bara di Pasternak sembrava non di calare il poeta sotto terra, ma di innalzarlo verso il cielo. E benché gli agenti ci incalzassero dicendo «Svelti, spicciatevi, sotterratelo!», direi che quello fu un momento di vera esaltazione. Dopo la sepoltura molti dei convenuti non si decidevano ad allontanarsi dal cimitero, incominciarono anzi a leggere versi del poeta, e questo continuò fino a notte fonda.

Questa bellissima, commovente testimonianza è stata resa da Andrej Sinjavskij a Brescia, quando il 16 ottobre 1986 lo invitai a tenere al Vanvitelliano una conferenza su «Libertà della cultura e diritti dell’uomo». Sinjavskij, che aveva sfidato fino all’incoscienza il potere e i suoi segugi con lo pseudonimo di Abram Terz, fu arrestato l’8 settembre 1965 e condannato il 12 febbraio 1966 per «delitto letterario». L’accademico Viktor Vinogradov, specialista di Gogol, aveva proposto al giudice di definire il crimine di Sinjavskij «diversione stilistica antisovietica». Sinjavskij fu internato in campo di concentramento e, dopo aver scontato la pena, emigrò in Francia nel 1974. Egli è forse il più grande scrittore russo della seconda metà del Novecento. Il suo capolavoro in assoluto è Buonanotte (Milano 1987).

POESIE SULLA PASQUA. Cristo in croce. Cristo in croce. I piedi toccano terra. / Le tre croci sono di uguale altezza. / La nera barba pende sopra il petto. / Il suo volto non è quello dei pittori. / L’uomo martirizzato soffre e tace. / La corona di spine lo tormenta. / Non lo tocca il dileggio della plebe / che ha visto tante volte l’agonia. / La sua e di altri… // A lui importa il duro ferro dei suoi chiodi. / A noi ha lasciato splendide metafore / e una dottrina del perdono tale / da annullare il passato (Jorge Luis Borges).

26 aprile 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La vera malattia del nostro Paese. In un Paese nel quale la magistratura è sottoposta a violente critiche tendenti a delegittimarne la funzione e l’amministrazione della giustizia, è oggetto di grave insoddisfazione nell’opinione pubblica, la democrazia è malata e comunque in grave crisi. Questa pare a me l’attuale situazione italiana (Guido Rossi). Nessuna assoluzione generalizzata, nessun invito all’impunità. Di fronte a chi compie il male, bisogna tacere, lasciar correre? Assolutamente no, perché equivarrebbe a condividere il male anzi a premiarlo. L’intervento contro il male, l’ingiustizia e la violenza ci deve essere da parte di tutti, non solo da parte di chi è ufficialmente costituito per questo (Carlo Maria Martini).

QUANDO IN NOI UN BRANO MUSICALE DIVENTA UN ISTANTE ETERNO. A tutti è nota l’opposizione fra un rapporto attivo con il tempo e uno passivo. In modo particolarmente evidente questo può essere osservato nella musica, perché in essa la coordinata temporale è dominante e, di conseguenza, la sintesi del tempo nella percezione musicale è tutto. Quando ascoltiamo per la prima volta un’opera musicale complessa e molto ricca, soprattutto se siamo stanchi, essa ci passa davanti frase per frase, e persino battuta per battuta, e il pezzo si disgrega nella coscienza in pezzi più o meno lunghi, ciascuno dei quali esiste in sé senza avere alcun legame con il successivo… Ma ascoltando una, due, tre volte, il brano si unifica. Con Beethoven questo avviene gradualmente e ogni nuova volta rinforza la connessione del tutto. Con Mozart invece la comprensione del tutto arriva all’improvviso: dopo essersi sparpagliata, la forma musicale si fa avanti di colpo. Beethoven sviluppa delle radici nella coscienza, Mozart si rivela all’improvviso come una cima nevosa quando si dissipa la nebbia. Quando questa unità in un modo o nell’altro si è stabilita nella coscienza, la musica cessa di essere soltanto nel tempo e si solleva al di sopra del tempo. I tono musicali, che dal punto di vista fisico risuonano l’uno dopo l’altro, si fanno allora simultanei nella coscienza, senza perdere tuttavia il loro ordine… In un ascolto attivo il tempo dell’opera musicale viene superato e l’opera si trova nella nostra anima come qualcosa di unitario, istantaneo e insieme eterno, come un istante eterno.

Queste osservazioni, di straordinaria profondità, si leggono nell’opera di Pavel Aleksandrovic Florenskij Lo spazio e il tempo nell’arte, tradotta in italiano dall’Adelphi, Milano 1995, pp. 155 – 156. Sarebbe quanto mai interessante confrontare la concezione del tempo attivo e passivo di Florenskij con l’analisi bergsoniana del tempo vissuto come durata reale e del tempo spazializzato, che è al centro della sua mirabile «metafisica dell’esperienza». Chi volesse, può ripercorrere l’itinerario speculativo di Bergson – dalla prima opera, il Saggio sui dati immediati della coscienza, del 1889, all’ultima, che è del 1932 – nel saggio introduttivo alla mia edizione commentata de Le due fonti della morale e della religione, Brescia 1996.

POESIE SULLA PASQUA. Non sai tu che è il mattino di Pasqua? Spezza il vaso e versa il nardo; / non badare, ora, a spese; / non contare, ora, ciò che non dai al povero; / spendi tutto in onore di Cristo: / onora questo giorno di Pasqua. / Edifica la sua chiesa e vesti il suo santuario, / dai mano all’arpa e soffia nel corno: / non sai tu che è il mattino di Pasqua?

Cogli dai cieli il loro gaudio, / prendi lezione dalla terra: / i fiori schiudono gli occhi al cielo, / e scoprono una gioia primaverile, / la terra si spoglia dei panni invernali, / si acconcia per il giorno di Pasqua. // Vesti la bellezza in luogo della cenere, / profumati e smetti le vesti di lutto. / Spalanca il tuo cuore, che esso / lasci entrare la gioia in questo giorno di Pasqua. / Cerca, accompagnandoti a una folla felice, la casa di Dio; / mescola lodi, preghiere e canti, / cantando alla Trinità. / Fa’ che oggi la tua anima sempre / faccia una Pasqua di ogni mattino (Gerard Manley Hopkins).

3 maggio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un saggio appello. Create la consapevolezza, passate all’azione (insegna del Rotary International nell’anno 2000). Complicità. Non rendere il tuo orecchio complice di una lingua malvagia, né la tua lingua complice di un orecchio che ama la maldicenza. Rischieresti di escluderti dall’amore divino (Massimo il Confessore, padre della Chiesa d’Oriente, 580-662). Se la tua anima è veramente bella… È meglio ingannarsi sul conto dei propri amici che ingannarli. Tutti sono capaci di condividere le sofferenze di un amico. Ci vuole, invece, un’anima veramente bella per godere dei successi di un amico (Oscar Wilde). Per compiere grandi passi. Per compiere grandi passi non dobbiamo solo agire, ma anche sognare, non solo programmare ma anche credere (Anatole France).

L’incanto della musica. Il canto è la scala di Giacobbe che gli angeli hanno dimenticato sulla terra (Elie Wiesel). Un canto ogni giorno, un canto per ogni giorno (Abraham J. Heschel). Se commetteremo ingiustizia, Dio ci lascerà senza musica (Flavio Cassiodoro, ex ministro di Teodorico il Grande, convertito alla fede cattolica, fondatore del «monastero umanistico», il Vivarium, presso Squillace).

ATENEI DELL’ARROGANZA. LA DIFFERENZA FRA I NOSTRI E QUELLI AMERICANI. Qualche giorno fa ho dichiarato che gli studenti universitari italiani sono mediamente meglio preparati dei loro coetanei americani. Sanno cioè mediamente di più non solo di letteratura e storia, ma anche di analisi matematica e fisiologica generale. Su una cosa, però, i ragazzi d’oltre oceano sembrano decisamente in vantaggio sui nostri, e me ne rendo conto con particolare vivezza da quando, nel luglio scorso, dirigo gli scambi internazionali tra l’Università di California e varie università italiane. Gli studenti californiani sono abituati ad essere trattati con rispetto, non per paternalistica concessione ma per una norma elementare di convivenza la cui violazione suscita, prima ancora che sdegno, autentico stupore. È difficile quindi far loro comprendere l’atteggiamento di docenti che, pur brillanti ed eruditi, saltano sistematicamente le ore di ricevimento, interrompono una lezione per rispondere al cellulare o si concedono pesanti commenti personali durante gli esami. La scusa che si tratti di «differenze culturali» non regge e alle domande perplesse di questi ragazzi non si sa più che cosa rispondere. La loro impressione è che in Italia gli studenti universitari siano in balia di divinità imprevedibili e bizzose (Ermanno Bencivenga su La Stampa del 10 febbraio 2001).

POETI BRASILIANI DEL NOVECENTO. L’ala della farfalla. Nel mistero dell’Infinito / oscilla un pianeta. / E sul pianeta v’è un giardino, / e nel giardino un letto di fiori; / e nel letto di fiori una viola, / e per tutto il giorno, sulla viola, / tra il pianeta e l’Infinito / l’ala di una farfalla (Cecília Meireles, 1901 – 1964). L’ignoto che mi abita. Come decifrare pittogrammi di diecimila anni fa / se non so decifrare / ciò che è scritto dentro di me? / Interrogo senza dubbi / e le loro variazioni caleidoscopiche / osservandoli attimo dopo attimo. / La verità essenziale / è l’ignoto che mi abita / e ogni mattina mi colpisce con un pugno (Carlos Drummond de Andrade, 1902 – 1987).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. La pioggia. Nella stanza, nel lampo / che scheggia il buio senti / la pioggia come l’ala strepitante / della gioia, / della bellezza improvvisa, / furia e lavacro / sui tetti e sulle strade / sul giardino e sul tronco fulminato / dell’albero che attende – ma non sa – / il bianco fuoco della primavera (Giovanni Cristini).

10 maggio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. A che serve la psicologia? Il fine della psicologia è darci un’idea completamente diversa delle cose che conosciamo meglio (Paul Valéry). «Dio sa contare fino a uno». Credo che il Dio cristiano sappia contare fino a uno: si interessa solo delle persone singole, in carne e ossa. Lavora dietro le quinte, e si comunica in silenzio, a tu per tu. C’è una storia che tutti vediamo: una storia di sangue, di rumore e di furore. E ce n’è una segreta, invisibile, che solo ogni tanto ci capita di incrociare: è la storia della carità, dell’amore di Dio per l’uomo e dell’amore dell’uomo per Dio e per i fratelli. È questa la dimensione profonda della storia (André Frossard).

PERCHÈ POI MERAVIGLIARSI SE I FIGLI… Se vogliamo davvero farci carico e prendere cura dei figli, partiamo dai genitori. Il primo vero, grande problema oggi è per gli adulti quello di recuperare in cittadinanza e in partecipazione. Cittadini sono gli uomini e le donne che appartengono ad una comunità, la vivono e la rispettano, concorrono a determinarne gli obiettivi da raggiungere e le regole e i mezzi per conseguirle. Cittadini sono coloro che accettano di unirsi in gruppi e di confrontarsi dialetticamente per mettere a punto strumenti capaci di correggere quello che non va e di migliorare le condizioni di vita. Cittadini sono quelle persone le quali sanno che il bene di ciascuno è il bene di tutti e che nella propria interiorità sanno cogliere le ragioni degli altri. L’esatto contrario dell’essere cittadino è chi pensa solo a guadagnare, a fare acquisti e a consumare; è lo spettatore passivo, il tifoso, il tipo che assiste e s’illude di partecipare e invece delega ad altri ogni responsabilità pur di continuare a fare ciò che vuole, a non uscire dal privato, sempre pronto ad assolversi dalle proprie insufficienze e a proiettare le cause dei mali su qualcun altro. Abbiamo invece sempre più bisogno di esempi positivi, di senso civico, di quotidiana assunzione di responsabilità nel prendere e mantenere impegni che vadano oltre la stretta cerchia degl’interessi individuali, familiari o aziendali. Se non ci riscopriamo cittadini, concretamente preoccupati del bene comune, noi genitori cadiamo a poco a poco nell’indifferenza per le cose che contano e finiamo per diventare insignificanti, forse anche indegni di stima, agli occhi dei nostri figli.

«È difficile essere adulti oggi», ha scritto con grande verità Marco Garzonio in una nota sul Corriere della Sera del 30 marzo 2001, in cui ci ricorda che il perbenismo asociale produce frutti amarissimi. La strada della delega e della fuga nel privato rende, infatti, i genitori, sia pure senza volerlo, «cattivi maestri» dei figli. Perché poi meravigliarsi se manca il dialogo con loro? Se capita che questi comincino a drogarsi, se si rifugiano in assordanti discoteche, giocano con la morte in macchina, o danno agghiacciante esecuzione a fantasie distruttive perfino nei confronti degli stessi genitori?

TRE BRANI DAL DIARIO DI ETTY HILLESUM. 1. So già tutto, eppure… Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia. Secondo la radio inglese, dall’aprile 1941 sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi, dovremo portarci dentro per sempre queste ferite. Eppure non riesco a trovare assurda la vita. Dio non è affatto responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: siamo noi uomini i responsabili! Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per quello che mi accadrà: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto (29 giugno 1942).

2. Abbiamo tutto in noi stessi. È vero, ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l’inferno, la terra e la vita e la morte e i secoli, tanti secoli. Uno scenario, una rappresentazione mutevole delle circostanze esteriori. Ma abbiamo tutto in noi stessi e quelle circostanze non possono essere mai determinanti, perché esisteranno sempre situazioni buone e cattive che dovranno essere accettate, ma che non possono impedire che uno si dedichi a migliorare quelle cattive. Occorre, però, sapere per quali motivi si lotta, e si deve cominciare da noi stessi, ogni giorno da capo (3 luglio 1942).

3. Un barlume d’eternità. Un barlume d’eternità filtra sempre più nelle mie più piccole azioni e percezioni quotidiane. Io non sono sola nella mia stanchezza malattia tristezza o paura, ma sono insieme con milioni di persone, di tanti secoli: anche questo fa parte della vita, che è pur bella e ricca di significato nella sua assurdità, se la si sente come un’unità indivisibile, un insieme compiuto (4 luglio 1942).

17 maggio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’arte di donare. Il modo di dare conta più di ciò che si dà (Pierre Corneille). Debolezze. Tu non ne avevi. / Nessuna. / Io ne avevo una: / amavo (Bertold Brecht). Quando si è innamorati. Gl’innamorati si comprendono meglio quando tacciono (Anton Cechov nel racconto Nemici). Maledetta fretta. L’amore con la fretta non s’accorda (Oscar Milosz). La memoria e il futuro. La memoria, per non divenire nostalgia, deve essere caricata delle domande presenti, orientata a costruire il futuro. Lungi dall’essere la casa del rimpianto, la memoria, abitata dal presente e dimorante in esso con le sue sfide e i suoi tesori, è terreno di profezia, apertura all’avvenire (Heinrich Böll). Fede e poesia, finestre sul mistero. La mancanza di religione è una mancanza di poesia (Lalla Romano).

I TEMI POLITICI CENTRALI DELLA NOSTRA EPOCA. Noi siamo felici che il totalitarismo sia stato sconfitto nel continente europeo. Il cittadino è ora protetto contro la tirannia. La democrazia ci mette al riparo dai soprusi. Ci difende dalla possibilità di essere strumentalizzati, sfruttati, oppressi da uno Stato in cui l’arbitrio del dittatore o del partito al potere è legge. Questa è la libertà ed è una grande conquista. Ma la libertà è responsabilità. E la responsabilità non è limitazione della libertà, bensì la premessa indispensabile affinché non torni ad essere messa in gioco. La capacità di essere personalmente responsabili nel nostro agire è la condizione della libertà di tutti. Se invece la libertà serve solo al benessere, se si esaurisce in mercato di beni e servizi che favorisca la corsa al profitto in un quadro di carenti condizioni morali e sociali; se lasciamo che il destino degli altri si compia nell’indifferenza; in una parola, se la libertà non sfocia nella solidarietà, alla lunga morirà anch’essa. Oggi non si tratta di chiamare il Moloch totalitario col suo nome, e non è più questione di vita o di morte; è in gioco, però, la fragilità dei legami sociali che ci separa gli uni dagli altri, quando non ci mette gli uni contro gli altri. È, invece, di decisiva importanza politica conoscere, volere e condividere ciò che ci unisce nella nostra democrazia fondata sulla libertà. Ognuno è responsabile per ciò che fa ed è corresponsabile di ciò che lascia fare. Ad ogni generazione si presenta, in modo sempre nuovo e diverso, il compito di non chiudere gli occhi di fronte all’illegalità, alla violazione dei diritti, all’ingiustizia. Tutti abbiamo l’obbligo di non diventare indifferenti, di non lasciarci catturare dalla propaganda, di superare la paura del rischio, di vincere la tentazione del conformismo e l’accecamento dell’egoistico interesse. Ciascuno deve chiedersi come può servire la libertà oggi. La ricerca della giustizia, da cui sono partiti i filosofi, non si è esaurita né da noi né nel mondo. I movimenti migratori internazionali mettono la società di fronte a gravi problemi pratici e umani. La dignità dell’uomo continua ad essere minacciata. Insieme ai limiti dello sviluppo, sono questi i temi politici centrali di oggi.

QUESTE RIFLESSIONI RIGUARDANO ANCHE NOI. Le riflessioni qui riportate fanno parte del celebre discorso pronunciato nel 1993, all’Università di Monaco, dal presidente della Repubblica Federale Tedesca, Richard von Weizsäcker, nel cinquantesimo del sacrificio dei giovani studenti antinazisti de «La Rosa Bianca». Si tratta di un testo di alta ispirazione etica e politica, il cui valore non può sfuggire a quanti, anche nel nostro Paese, hanno a cuore le sorti della democrazia. Oggi, infatti, la democrazia è sempre più contrassegnata da un rovesciamento delle priorità: il bene comune, la passione della giustizia, l’elevazione dei diseredati contano sempre meno perché i cittadini si considerano sempre meno titolari della politica. Sono in molti, infatti, a concepire la vita politica come un’opportunità decisiva per organizzare i loro interessi, cercando esclusivamente di farli prevalere su ogni altra considerazione. Se vuol evitare il naufragio a cui la sospinge la mentalità utilitaristica e «privatistica» – unitamente al consumismo e allo svuotamento spirituale che l’accompagnano – la nostra democrazia ha bisogno di riscoprire nello Stato di diritto e nella ricerca appassionata del bene comune le ragioni che fanno di essa la più civile o, se si vuole, la meno imperfetta tra le forme di governo.

24 maggio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Angina temporis. Un disgraziato si arrabatta perché non vuole perdere nemmeno un minuto secondo e non s’accorge che, così facendo, perde una vita (Giovanni Guareschi). Franchezza di giudizio. Risponderò, come da me si suole, / liberi sensi in semplici parole (Torquato Tasso). Ogni vero ricordo. Ogni vero ricordo è ancora un richiamo, una verità che ci lavora nelle ossa, un febbrile atto di sfida al buio di domani (Giovanni Arpino).

RICOGNIZIONE DEL LIMITE E APERTURA ALLA TRASCENDENZA. Per i greci «compiutezza» e «misura» sono i coefficienti primari, il costitutivo stesso di una vita umana razionalmente vissuta e felice. Anche se con accentuazioni diverse in questo convengono Platone e Aristotele. La vera eudaimonìa degli uomini, cioè la loro vita inseparabilmente buona e felice, si ha quando il bisogno illimitato di godimento (apeiron) che urge in ognuno di noi è umanizzato dal limite (peras) che la ragione gli assegna. L’uomo è un composto, comunque questo dato venga interpretato (e qui le divergenze fra Platone e Aristotele sono incolmabili) e la felicità per l’uomo sarà pertanto «una vita mista d’intelligenza e di piacere», purché i piaceri siano innocenti e goduti con moderazione. Questa è la tesi del Filebo platonico puntualmente riproposta da Aristotele nell’Etica Nicomachea.

Da queste considerazioni uno studioso italiano di filosofia greca ha creduto di poter trarre questa strana conclusione: la ricerca greca della compiutezza e della misura comporta la «mondanità» come orizzonte esclusivo della condotta umana, per cui tutto in essa si dispiega e si conclude entro l’arco del nascere e del perire. Insomma, l’etica strettamente greca, restituendo l’uomo a se stesso, si pone come rifiuto della dimensione religiosa. È francamente impossibile accettare una prospettiva del genere che stravolge da cima a fondo il messaggio di Socrate, Platone e Aristotele. La prima obiezione a una simile tesi interpretativa è la seguente: non è lecito dichiarare a priori coincidenti il riconoscimento del limite e la chiusura all’Assoluto. L’asserita identità delle due posizioni è del tutto estranea e contraria al pensiero dei tre geni eponimi della filosofia greca. Certo, il vigoroso richiamo alla «misura della ragione» è aspetto reale non secondario alla saggezza e costituisce un acquisto fatto per sempre e per tutti da Atene. Ma la forza dinamica della saggezza greca – protesa a vincere di continuo il cattivo infinito, quello pseudo infinito che è l’illimitato, l’indefinito, il confuso, l’apeiron appunto – non sta forse nel fatto che essa non si perde nella infinitizzazione del finito ed è proprio per questo costitutivamente orientata alla ricerca ed all’affermazione dell’Assoluto?

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Ma sua figlia, a quattro anni, non ha dubbio… Non è un gigante, e neanche forte, / ma sua figlia, a quattro anni, non ha dubbio che lo sia. / Lei gli corre incontro, le braccia spalancate, / e in un attimo con il capo sfiora il cielo. // Cinque volte alla settimana, in un quartiere / di periferia, / lui s’illumina di sole come un albero maestoso (Roger McGough, poeta e critico inglese). A un bambino in arrivo. Se è una bambina, / spero che apra le ali / e cresca libera e voli ampio / come un gabbiano, / e affronti abile i venti, / scivoli rapida sulle correnti, / sappia vivere di tutto ciò che trova / nel mare tenebroso, / e assecondi le tempeste / che la sospingono a terra, a ritroso. // Spero che scelga con saggezza / se alla fine decide / per un nome, o una terra, o una certezza. / E abbia lo stesso destino / se invece è un bambino (Janet Shepperson).

La prima poesia è tratta dal volume di Roger McGough, Gattacci (Torino 2001); la seconda, di Janet Shepperson, da Un salto e tocchi il cielo (Torino 2001).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Liberaci, o Padre. Liberaci, o Padre, dalla paura della morte e da tutte le paure che rendono sterile e senza slancio la nostra esistenza. Confermaci nella fede, rendi forte e soave la nostra carità. Aiutaci a fare della nostra vita un evento pasquale, un passaggio di conversione dallo scetticismo alla fiducia, dalla stanchezza alla speranza, dall’indifferenza alla solidarietà, dalla tristezza alla gioia operosa. Rendi tutti noi, Signore, testimoni nel mondo della tua e nostra Resurrezione. Amen, alleluia! (p. Giulio Cittadini).

31 maggio 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ce ne dimentichiamo di continuo. Il tempo è breve e il necessario è poco (Michelangelo). Non chiedermi… Non chiedermi che cosa ho, mia cara, / chiedimi chi sono (Heinrich Heine). Quando l’avversario ci tiene in pugno. Il grande trionfo dell’avversario è farvi credere quello che dice di voi (Paul Valéry). Il desiderio nascosto. Quando entro in un ufficio pubblico io sono sempre estasiato dalla capacità di chi ci lavora di rispettare le regole e insieme di aggirarle con eleganza (Federico Enriques, direttore generale dell’editrice Zanichelli). La falsificazione del bene. Satana si maschera da angelo di luce (San Paolo). La dialettica del profondo. Più si sale verso Dio, più si scende nel nulla di se stessi (Tommaso da Kempis).

L’assenza e il desiderio. 1. Sempre è pungolo per un desiderio più forte l’assenza delle persone che amiamo (Properzio). 2. L’assenza attenua le passioni mediocri e aumenta le grandi, come il vento spegne le candele e ravviva il fuoco (François La Rochefaucauld).

PER I GRECI LA VITA MORALE È «IMITAZIONE DI DIO». Quali che siano le differenze profonde con la visione cristiana della vita, la saggezza di Socrate, Platone e Aristotele tende a oltrepassare l’orizzonte terreno, e non per una sortita casuale. Chi non avverte, rileggendo l’opera prima di Platone, l’Apologia, che la fede razionale in Dio, nelle cui mani è la sorte del giusto, costituisce il postulato fondamentale della scelta decisiva di Socrate? Henri Bergson, con l’abituale finezza, ha scritto di Socrate che «la sua missione è di ordine religioso mistico, nel senso in cui prendiamo queste parole: il suo insegnamento, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione». In Platone la dimensione teologica non è una fase della sua ricerca, o un’aggiunta posticcia di interpreti tardivi, ma ciò che anima la trattazione di tutti i problemi. Su questo punto non si può nemmeno giocare a contrapporre il Platone del Fedone e della Repubblica al Platone del Timeo e delle Leggi. È infatti proprio in questi ultimi scritti che Platone rivendica ancora più energicamente la finalità della natura e la provvidenza del Dio-misura, cioè principio di ordine, di armonia, di equilibrio nel mondo delle cose e degli uomini. La tesi di fondo è una sola: la condotta dell’uomo è morale se è «imitazione di Dio» e se l’uomo si fa collaboratore della provvidenza nel finalismo universale. Una scienza del bene, infatti, non è pensabile senza il Bene: staccata dalla Sorgente prima e dal Valore assoluto, essa sarebbe meramente formale, incapace di vincere l’utilitarismo, l’edonismo, la pressione sociomorfica. Fin dal Gorgia l’ispirazione religiosa del pensiero platonico appare nettissima: il Bene non è mezzo per realizzare la felicità, ma fine a se stesso, al quale la felicità è insieme subordinata ed intimamente congiunta. Nella sua ultima opera Platone, quasi a sigillo di una delle più straordinarie avventure del pensiero, scrive queste parole rivelatrici: «Chi ignora Dio non potrà mai scoprire la ragione per cui si vive, né farsi un concetto di ciò che riguarda la felicità e l’infelicità» (Leggi X, 905 c.). Aristotele reca un contributo di prim’ordine nell’analisi fenomenologica dell’atto morale e nel sottolineare il concorso di alcune circostanze favorevoli o sfavorevoli al raggiungimento della felicità. Va, però, sottolineata con forza la sua piena adesione alla dottrina socratico-platonica che distingue i beni esteriori, i beni del corpo e i beni dell’anima. Anche Aristotele conferisce il primato ai beni dell’anima.

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Pudore contadino. Mio padre vendeva frutta e carbone / e intanto accarezzava un gatto che si chiamava Baruloun… / Quando sono venuto a casa, / dopo un anno di prigionia in Germania, / mi aspettava sulla porta col sigaro in bocca. / «Hai mangiato?» mi ha chiesto. E basta (Tonino Guerra). Ti vedo a ogni occhiata nello specchio. Padre. Così devo chiamarti, nominarti? / Come dimenticare / d’essere ormai coetaneo / della tua ultima età. / Ti vedo ad ogni occhiata nello specchio / del mio corridoio / mentre metto il cappello / e me l’aggiusto un poco / sulle ventitré (Arnaldo Ederle).

7 giugno 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Nella gioia del mio cuore intero. Rabbi, mio maestro, io servirò il tuo comandamento nella gioia del mio cuore intero (Parole riferite a Maria di Magdala in un apocrifo copto del IV secolo). La vera icona. L’amore è icona di Dio (Massimo il Confessore). L’anima nel volto. L’anima di per sé non può essere vista perché è spirito; ma quando una persona si rivolge a un’altra persona amata, questa riesce a vedere l’anima nel volto che ha di fronte (Levi Appulo). Pravda vitezi. La verità vincerà (Jan Huss, riformatore boemo ucciso nel 1415). Perenne disequazione fra essere e dover essere. In senso generale, ogni avvenimento storico è insieme un fallimento perché non adegua mai l’ideale, che prosegue nel porre le sue esigenze ed esercitare la sua critica, e, se così non facesse, la storia si arresterebbe (Benedetto Croce).

La forza e le anime. La forza pietrifica le anime. Guai ai… vincitori. La verità diserta i vincitori. (Simone Weil)

IL COMPITO PIÙ IMPORTANTE E DIFFICILE. In educazione non ci sono esiti predeterminabili; ci sono però vie, metodi, fini idonei a promuovere l’azione di risveglio spirituale in coloro che ci sono affidati. L’educazione è sempre la cosa più importante e insieme la più difficile, è il servizio migliore che si possa rendere ad ogni persona; per questo il mestiere di educare esige testa e cuore e non può essere concepito, e tanto meno vissuto, se non come risposta ad una vocazione. Una risposta a cui ci si abilita ogni giorno attraverso un lavoro che è multiforme per le competenze che richiede, ma che ha la sua prima sorgente nella vita interiore dell’educante e nel rispetto che egli porta verso colui che ha bisogno del suo aiuto per poter diventare quello che è. In quella «via meravigliosa» – così la chiama Platone nella Lettera VII – il giovane che si è destato all’amore della verità e del bene «unisce i suoi sforzi con quelli della guida e non desiste se prima non ha raggiunto completamente il fine, o non ha acquistato tanta forza da poter progredire da solo verso la piena padronanza di se stesso».

IL PIACERE, IL BENE MORALE, LA CONTEMPLAZIONE DI DIO. Aristotele, d’accordo con il Platone dei dialoghi della revisione del sistema, insiste per una rivalutazione del piacere; ma anche per lui il piacere più degno dell’uomo è il coronamento di una vita virtuosa, ciò di cui la virtù è l’antecedente necessario. Se il piacere non è il Bene, è però qualcosa di positivo, che perfeziona l’esercizio di una facoltà. Non si deve dire che ogni piacere è male, per il fatto che alcuni piaceri sono ignominiosi; ma se sono ignominiosi, sono poi veramente piaceri per un uomo che sia ancora umano? Aristotele, con il suo robusto buon senso, non lo ritiene possibile (Etica Nicomachea X, 1173 b). I piaceri differiscono specificamente a seconda delle attività dalle quali derivano e, dunque, «si potranno dire propriamente piaceri quelli che accompagnano e perfezionano le attività proprie dell’uomo; gli altri, invece, saranno piaceri solo in via secondaria e in modo del tutto accessorio» (ibid. X, 1176 a). In ultima analisi, la ricerca della felicità Aristotele non la riduce mai a una «metretica dei piaceri», non è mai assimilabile all’edonismo raffinato o volgare che sia. Malgrado le gravi aporie che caratterizzano la concezione aristotelica del rapporto tra Dio e il mondo e le oscurità persistenti sul destino ultimo dell’uomo, per il filosofo del Liceo la sapienza trae forza e norma dalla contemplazione intellettiva, dall’atto con cui nel coglierla ci impossessiamo della verità. E la verità più alta – supremamente disinteressata, e proprio per questo supremamente necessaria all’uomo – è quella che riguarda Dio. Anche qui Aristotele continua direttamente l’insegnamento di Platone, tematizzando sul piano metafisico e morale la tangenza contemplativa con la vita di Dio. Il precetto platonico secondo il quale l’uomo deve quanto più è possibile assimilarsi a Dio acquista allora un preciso significato: assimilarsi a Dio significa in primo luogo contemplare Dio, la Verità suprema che è anche il sommo Bene. Nell’ultima pagina dell’Etica Eudemia Aristotele scrive: «Dio non è un governante imperativo, ma è fine in vista del quale la saggezza comanda… poiché Dio non ha bisogno di nulla».

14 giugno 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Per i filosofi che hanno smarrito il buon senso. Voglia Dio provvedere il filosofo di uno sguardo acuto per vedere ciò che sta davanti agli occhi di tutti. L’ansia d’infinito. Ho indagato i contorni di un’isola; ma ciò che volevo scoprire erano i confini dell’oceano. (Ludwig Wittgenstein)

Le facce che rappresentano certe idee. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica… Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce che rappresentano quelle idee (Leo Longanesi). Diventeremo robot? Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che diventino robot (Erich Fromm, 1900 – 1980, pensatore e psicologo svizzero). Mai quaggiù qualcuno ha rinunciato abbastanza a sé da non potervi rinunciare ancora di più (Meister Eckhart).

INTERROGARSI SUL SIGNIFICATO DELL’ARTE CONTEMPORANEA. Il 1919, interrogandosi sul significato dell’arte contemporanea, Pavel Florenskij scriveva: «L’arte è una questione vera, è creazione di vita, o è un oggetto fabbricato, un sollazzo che ha valore soltanto per l’insufficienza di impulsi e di interessi autenticamente vitali?». La risposta a un simile interrogativo ci sembra tanto più significativa quanto più si avvicina all’ispirazione prima delle opere letterarie in cui gli stessi autori siano i più diretti testimoni. Nelle loro riflessioni sull’arte non è difficile cogliere le coordinate essenziali in cui è possibile collocare la grande letteratura del Novecento in genere e quella russa in particolare. Il romanzo russo del Novecento mostra, infatti, attraverso le opere più rappresentative, la sua forza ineguagliabile proprio nella radicalità con cui i personaggi sono portati a considerare se stessi e il proprio destino sia nella storia del loro popolo, sia in una prospettiva metafisica e dunque metastorica. «Il personaggio russo, per quanto tu non gli dia da mangiare e non gli dia da bere, cerca sempre la giustizia e il bene» dice Muza nel Primo cerchio di Solzenicyn. Daniele Serretti ha esplorato quattro voci del mondo russo che, negli anni bui dello stalinismo, non hanno cessato di porsi le «maledette domande» che tormentano le anime di chi si dibatte fra la disperazione e il riscatto. Il suo volume, Il tempo della tirannia. Nabokov, Bulgakov, Pasternak, Solzenicyn, è stato pubblicato nelle Edizioni Studium di Roma nell’anno 2000.

STUDIAMO LA NATURA. Studiando la natura, la cosa più importante è avere impressioni immediate le quali, se vengono esaminate per quanto possibile in modo imparziale e privo di preconcetti, pian piano si compongono da sole in un quadro complessivo; dal quadro complessivo nasce l’intuizione dei tipi di struttura della natura, ed è proprio questa intuizione che fornisce motivi per conclusioni approfondite. Senza questa intuizione, le conclusioni rimangono sempre e soltanto schemi convenzionali, che possono anche essere usati in modo arbitrario e persino dannoso, in quanto impediscono di osservare e notare le cose veramente importanti. Bisogna poi educarsi al senso del paesaggio, e allora molte cose che, senza questo senso, si ottengono per via di sforzi meticolosi (una via che facilmente induce in errore), verranno da sé. Sarebbe per questo molto utile se tu cercassi di formulare i tratti caratteristici dello stile del paesaggio che hai visto: dapprima con singole linee, con un elenco non sistematico di alcuni elementi che emergono nella mente, dopo ricongiungendo gradualmente questi elementi in una descrizione unitaria del tipo. Goethe possedeva in sommo grado questa capacità; bisogna imparare da Goethe a conoscere la natura (Pavel Florenskij, Non dimenticatemi, Milano 2000, pp. 74 -75, Lettera del 23 novembre 1933 al figlio maggiore Vasilij).

Le lettere che il grande scienziato russo inviò dalla prigionia ai figli offrono riflessioni e consigli geniali per la loro formazione intellettuale e umana. Egli seppe così trasfondere nei figli il desiderio appassionato di conoscere la creazione, non per violarne il segreto, ma per contemplarla nelle sue meraviglie. L’espressione e il risultato di questo sforzo è non solo la conoscenza scientifica di un fenomeno, ma la certezza che il segreto del mondo non viene affatto tolto di mezzo e affossato, proprio perché si palesa nella sua più autentica essenza come arcano ed enigma.

21 giugno 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’errore dei troppo intelligenti. Il maggior difetto di certi uomini intelligenti non è di andare fino in fondo, è di oltrepassarlo (François de La Rochefoucauld). Lo potrei, ma non oso. Nel cuor dubitoso / sento bene una voce che dice: / «Veramente potresti esser felice». / Lo potrei, ma non oso (Umberto Saba, 1883 – 1957). Me la cavo male con i grandi numeri. Quattro miliardi di persone su questa terra, / e la mia immaginazione è uguale a prima. / Se la cava male con i grandi numeri / continua a commuoverla solo la singolarità (Wislawa Szymborska).

IL DIGIUNO, LA POLITICA E LA MORALE. In questa primavera sono morti 24 familiari di detenuti nelle carceri turche; sono morti perché hanno portato sino in fondo lo sciopero della fame, intrapreso per protestare contro le inumane condizioni carcerarie e per richiamare l’attenzione del mondo su di esse. Fra la tragica denuncia turca, grido disperato per alleviare una situazione intollerabile, il digiuno praticato da Gandhi in nome di un pacifismo umanitario e universalistico, e quello di Bobby Sands – l’irredentista irlandese in cui la ribellione si mescolava all’ultranazionalismo e al terrorismo – non c’è nulla o quasi nulla in comune. I martiri, per qualsiasi causa muoiano o rischino la vita – generosa, futile, insensata o malvagia – meritano un assoluto rispetto per il coraggio con il quale trascendono l’interesse personale e accettano consapevolmente la morte, anziché temerla e subirla casualmente, come gli altri. La capacità di sacrificio del martire non garantisce però necessariamente il valore della sua causa. Ogni bandiera, sublime o abietta, ha i suoi martiri; ci sono martiri nazisti, partigiani, patrioti, missionari, rivoluzionari, fanatici di sette omicide e suicide. Il loro sangue rende ancor più nobile una nobile bandiera, ma non lava una bandiera lurida, se è in essa che hanno creduto. Se una protesta è legittima, ossia se un diritto è stato violato, bisogna dare soddisfazione a chi protesta anche se quest’ultimo non digiuna e si rimpinza a quattro palmenti. Se per ottenere quel diritto iniquamente negato è necessario ricorrere a forme di pressione come lo sciopero della fame, ciò significa che ci si trova in una situazione in cui il potere viene esercitato senza rispettare le leggi. Tali situazioni illegali autorizzano, anzi richiedono, forme di protesta e di resistenza anomale, come accade nella lotta partigiana a un sistema di dominio che non consente forme democratiche di lotta. Ma se una richiesta non è legittima o è una pretesa prepotente, è giusto cedere solo perché chi l’avanza simula di rischiare la vita oppure la rischia veramente o si ammazza se non viene esaudito? Una vita umana vale più di ogni altra cosa, ma usare – poco importa se con astuzia calcolata o con esaltata buonafede – la sacralità della vita come un’arma politica o sentimentale può diventare un violento ricatto (Claudio Magris, Corriere della Sera, 16 maggio 2001).

 

LE «LORO» IDEE E QUELLE DEGLI ALTRI. C’è tanto, troppo di convenzionale, a mio parere, nell’ammirazione generalmente esibita verso le «cause radicali». Non giudico le persone, ma i loro atti pubblici: l’alone di martirio con cui circondano le loro battaglie mi sembra una sopraffazione. Le loro proposte non possono essere considerate indiscutibili. La pretesa di corsie di informazione preferenziali, pena l’accusa di essere retrogradi e liberticidi, è francamente eccessiva. A meno che non sia una tattica politica per farsi largo in tempo di elezioni e accaparrarsi qualche voto in più. L’eutanasia di Stato, l’eliminazione di ogni vincolo etico nella ricerca scientifica, la libertà individuale come unico criterio discriminante fra il lecito e l’illecito, la dilatazione della legge sull’aborto fino ad accogliere la pillola del giorno dopo non sono verità assolute, dogmi di fede laica che non ammettono contraddittorio, imperativi categorici di una morale superiore, conquiste di civiltà di cui solo la prepotenza retriva dei bigotti blocca proditoriamente il cammino (Leonardo Zega, La Stampa, 11 maggio 2001).

28 giugno 2001.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Come Paolo tu, io e chiunque altro. Io mi trovo in questa condizione: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me: acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge che mi rende schiavo, afferma San Paolo. Siamo nella stessa barca, non solo, e soffriamo tutti il mal di mare (Levi Appulo).

Moltissime leggi, massima illegalità. Le leggi sono moltissime quando lo Stato è corrottissimo (Tacito). Le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie (Montesquieu).

Se vuoi costruire una nave. Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per raccogliere il legno e distribuire compiti, ma insegna a loro prima la nostalgia del mare ampio e infinito (Antoine de Saint-Exupéry).

GENO PAMPALONI, O LA CIVILTÀ DELLA SCRITTURA. Quest’anno, a gennaio, Geno Pampaloni ci ha lasciato. Aveva 82 anni. Pochi come lui riuscirono a fare della critica un dialogo tra uomini, una costante ricerca di equilibrio tra gusto estetico e coscienza morale. Fu un vero maestro senza cattedra universitaria, e forse anche per questo. Noi amammo di lui in particolare gli scritti apparsi sulle riviste Comunità, di Adriano Olivetti, e Il Ponte, nella stagione aurea di Piero Calamandrei. Nei prossimi mesi vedranno la luce due suoi volumi: gli Scritti letterari, presso Bollati Boringhieri, e da Nino Aragno gli Scritti etico-civili. Intanto, lui vivo, nelle edizioni Giubbe Rosse è stato pubblicato il volume Sul ponte tra Novecento e Duemila (Firenze 1998), in cui sono raccolti studi e divagazioni sui contemporanei senza dimenticare i due maggiori romanzieri del nostro Ottocento, Manzoni e Nievo. Traggo da questo volume alcune annotazioni idonee a rivelarci la ricchezza umana di Pampaloni e il suo modo di intendere la «civiltà della scrittura».

  1. L’arte, come si dice, è una cosa seria. È almeno tanto seria quanto la morale o la politica. Ma se abbiamo il dovere di accostarci a queste ultime con quella modestia che è ricerca di chiarezza – carità verso gli altri e durezza per noi – non si vede con che diritto, davanti a una pagina scritta, dimentichiamo di esser uomini e che un uomo ci parla.
  2. In un tempo di insicurezza e di transizione, in un tempo di difficile misura umana il filo che lega tradizione e avvenire è un filo sottile ma tremendamente importante… Il nostro compito è ascoltare il passato con l’occhio del presente e interrogare il presente senza dimenticarci del passato.
  3. La mia scrittura vorrei che fosse di un’eleganza impervia, inattaccabile, e al tempo stesso segretamente capace di assorbire il sentimento altrui che intende provocare; autosufficiente e disponibile, disincarnata e invitante.

LA POTENZA DELL’UNO RICHIEDE LA STUPIDITÀ DEGLI ALTRI. Qualsiasi ostentazione esteriore di potenza provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra, anzi, che si tratti di una legge socio-psicologica: la potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane, ad esempio quelle intellettuali, ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli, ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con una persona, ma con slogan, motti ecc. da cui egli è dominato. È ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge in primo luogo la sua stessa persona… La stupidità non potrà mai essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione. Ci si dovrà rassegnare al fatto che nella maggioranza dei casi un’autentica liberazione interiore è possibile solo dopo esser stata preceduta dalla liberazione esteriore (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Milano 1988).

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.