Detti e Contraddetti 2002 – 2° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 2002 – SECONDO SEMESTRE

4 luglio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La radice di ogni autentica morale laica. 1. Gli umanesimi che si credono laici, i decaloghi che si vorrebbero nati dalla sola ragione, vengono in realtà dalla sensibilità cristiana che è divenuta midollo insostituibile della nostra cultura (Carlo Arturo Jemolo). 2. Ogni morale sedicente laica non è che un cristianesimo senza Cristo (Leo Moulin, storico agnostico). 3. Per laica s’intende una morale che si basa sulla coscienza. Ma questa non può essere laica, visto che si è formata in base al messaggio cristiano (Lalla Romano).

IL GENTLEMAN. Chi è il gentleman? È l’uomo signore di se stesso, che si rispetta e si fa rispettare. La sua essenza è la sovranità interiore. È un carattere che si possiede, una forza che si governa, una libertà che si afferma, si esprime e si regola secondo dignità. Questo tipo di umanità è più morale che intellettuale; conviene a persone e a nazioni, come l’Inghilterra, che abbiano soprattutto una volontà. Dal rispetto di se stessi derivano, però, mille cose: la cura della persona, del linguaggio, delle maniere; la vigilanza sopra il corpo e l’anima; il dominio dei propri istinti e delle proprie passioni, il bisogno di bastare a se stessi; la fierezza che non implora e non vuol favori; la capacità di non esporsi ad alcuna umiliazione, non sottoponendosi ad alcun capriccio; la preservazione costante dell’onore e della propria dignità.

Questo brano è di Henri-Frédéric Amiel, un pensatore ginevrino vissuto dal 1821 al 1881, divenuto celebre per una sua opera, il suo diario che egli intitolò Journal intime. In quell’opera, di rara sincerità e profondità, i massimi problemi sono visti nel loro affacciarsi sullo specchio sensibilissimo della sua anima. In quell’opera molte pagine sono di sicuro valore e hanno influenzato non pochi percorsi della fenomenologia e dello spiritualismo successivi.

PER GLI ARDUI SENTIERI DI SERGIO QUINZIO. 1. L’oblio, assenza e presenza. L’oblio è, insieme, assenza e presenza. Presenza, perché l’oblio è oblio di qualcuno, e si sperimenta come tale solo perché c’è tuttavia il desiderio, la presenza, di chi stiamo dimenticando. L’oblio è il punto di maggiore lontananza, la consumazione più radicale della comunione, ma proprio per questo è anche il vuoto più grande, quello che agli occhi di Dio esprime la miseria maggiore e quindi compie l’invocazione più potente (Lettera a Maria Luisa Stefani, 7 agosto 1972). 2. L’ironia. L’ironia può essere forse il segno di una tragedia tanto grande, qual è quella moderna, da non poter essere fissata (Lettera a Guido Ceronetti, 4 ottobre 1973). 3. Borges si rivolta alla sua opera letteraria. Mi hanno colpito queste parole di Borges, che io leggo come rivolta a ogni opera letteraria: «Vita e morte sono mancate alla mia vita. Da tale indigenza, il mio laborioso amore per queste minuzie» (Lettera a Guido Ceronetti, 13 ottobre 1973). 4. Se non si sente fino in fondo lo scandalo della morte. È essenziale sentire in sé l’orrore del male, della sofferenza, della morte. Spesso, l’intenzione devota si sforza di vedere tutto accettabile, tutto voluto da Dio, tutto provvidenziale; ma, facendo così, si finisce per non sentire più il bisogno della salvezza, della resurrezione, perché, in fondo, si considera già tutto conforme alla volontà di Dio. Se non si sente fino in fondo lo scandalo della morte, non si può invocare il regno di Dio, il quale non ha creato la morte – Sap 1,13 – e non può sostenere la vista del male – Ab 1,13 (Lettera ad Anna Giannatiempo, 29 dicembre 1973).

Si riportano brani tratti da appunti e lettere indirizzate da Sergio Quinzio ad alcune delle persone a lui più care, pubblicate nel libro L’esilio e la gloria – Scritti inediti 1969-1996, quaderno della rivista «In forma di parole», Bologna 1998. Il volume, curato con sagacia e intelligenza dalla signora Anna Giannatiempo Quinzio e da Francesco Permunian, ha un valore straordinario per accostarci a Sergio Quinzio, uno di quei credenti che, per amore di Cristo, non ha temuto di suscitare lo scandalo nella vita e nel pensiero dei fratelli.

L’ANGOLO DELLA POESIA. Giace lassù la mia infanzia. Giace lassù la mia infanzia. / Lassù in quella collina / ch’io riveggo di notte, / passando in ferrovia, / segnata di vive luci. / Odor di stoppie bruciate / m’investe alla stazione. / Antico e sparso odore / simile a molte voci che mi chiamano. / Ma il treno fugge… / Nessuno pensa o immagina / che cosa sia per me / questa materna terra ch’io sorvolo / come un ignoto, come un traditore (Vincenzo Cardarelli).

11 luglio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando c’è, si manifesta. C’è, talvolta, nel volto e nel contegno di un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà uno solo. In bocca e negli orecchi. Le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi. Bisogno d’una indulgenza infinita. L’uomo sente d’aver bisogno d’una indulgenza infinita. Dopo aver ricevuto il perdono dell’uomo ch’egli ha offeso, il suo cuore non è in pace ancora: e le colpe che non offendono gli altri uomini, ma ch’egli sente esser colpe, chi gliele perdonerà? (Alessandro Manzoni)

CHE COS’È IL TEMPO? Che cos’è il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se però volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so (Confessiones 11, 14). È il paradosso con cui Agostino introduce l’ardita meditazione sul tempo nell’undicesimo libro delle Confessioni. Nel ripercorrere tante volte la storia del pensiero quella domanda mi è stata ben presente e un po’ per volta sono pervenuto alla conclusione che su quel problema i più alti contributi si collocano nel periodo tardo antico: all’inizio con Seneca, e alla fine con Agostino. L’uno, precristiano, ci ha dato la più penetrante «etica del tempo», spezzando di fatto i quadri concettuali del sistema stoico a cui pure aderiva; l’altro, cristiano, ci ha dato la prima metafisica fondata sull’intuizione di un tempo concepito come reale svolgimento, non chiuso nella ripetizione ciclica dell’identico, un tempo insomma che comporti continua differenziazione e novità del reale, poiché ogni atto della vita, ogni stato di coscienza, ogni evento storico ha una sua individuale irrepetibilità e, per così dire, fiorisce una sola volta come l’agave mediterranea.

A distanza di sedici secoli il problema del tempo torna di nuovo al centro della riflessione con un altro grande pensatore, Henri Bergson. «Un filosofo degno di questo nome – ebbe a dire il filosofo francese – non ha mai detto che una cosa sola: meglio, ha cercato di dirla piuttosto che dirla veramente» (L’intuition philosophique, in Oeuvres, Paris 1970, p. 1350). Ebbene, ciò che individua il contributo di Bergson alla storia del pensiero è precisamente il tentativo di rispondere alla domanda: «che cos’è il tempo?» La riprova viene dall’Edizione del Centenario delle sue Oeuvres: scorrendo le voci dell’indice degli argomenti, curato da André Robinet, non si trova la voce temps, perché essa ricorre letteralmente in ogni pagina dell’opera. «Nessuna questione – scrive Bergson – è stata più trascurata dai filosofi di quella del tempo; e tuttavia tutti concordano nel dichiararla di capitale importanza… È lì la chiave dei maggiori problemi filosofici» (Préface a Durée et simultaneité, P.U.F., Paris 1922; VII ed. 1968, pp. X-XI).

DA PARMENIDE IN POI, UNO SCANDALO DURATO VENTICINQUE SECOLI. Lo scandalo che Bergson non cesserà mai di denunciare è che il tempo sia apparso appunto uno scandalo per il pensiero, quasi fosse il luogo dove le cose non possono essere mai afferrate perché non sono mai compiute, un qualcosa che è lì solo per attestare una sorta di deficit. Per venticinque secoli, a partire da Parmenide e da Zenone di Elea, la concezione stazionaria ed eternista dell’essere ha avuto nettamente la meglio, anche se incorporata in sistemi di pensiero molto diversi fra loro. La filosofia bergsoniana si presenta, dunque, come un rovesciamento della concezione tradizionale, non per una sorta di antitesi dialettica, ma solo perché, invece di dissolvere il mutamento ed il tempo, essa mira a insediarci nell’uno e nell’altro per meglio afferrare come gli esseri diventano quello che sono. Filosofare significa, allora, scongelare gli esseri dalla loro falsa immobilità e mettersi in grado di ascoltare, per così dire, il loro fluire.

L’ANGOLO DELLA POESIA. Notturno. Luna, il rio che s’avvalla / senza parola erboso anche ti vide; / e per ogni fil d’erba ti sorride, / solo a te sola (Gabriele D’Annunzio).

18 luglio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Gli altri, nostro odiato specchio. Nessuno di noi riesce a sopportare negli altri i suoi stessi difetti. Ciò che dà nutrimento. Soltanto ciò che è delicato, e concepito con delicatezza, può dare nutrimento all’Amore. All’Odio, invece, tutto dà nutrimento. La superficialità. Il supremo vizio dei potenti è il segreto anche del loro successo: la superficialità. Quando si sa di possederlo. Solo quando si perde tutto ciò che si possiede, si sa di possederlo. (Oscar Wilde)

RIFLETTERE SUL TEMPO DELLA STORIA, NON COSTRUIRE UN’ALTRA FILOSOFIA DELLA STORIA. C’è un altro aspetto fondamentale della concezione bergsoniana del tempo, quello che riguarda la storia propriamente detta, ambito anch’essa del reale e laboratorio per eccellenza dell’umano, in cui il tempo è appunto, e nel modo più evidente, «la materia prima» (Vittorio Mathieu, «Saggi bergsoniani» nel volume Bergson – Il profondo e la sua espressione, Napoli 1971, p. 375). Del divenire storico, indagato «en bas», nelle sue forme inferiori, e «en haut», nelle espressioni più alte dell’eroismo morale e della santità, Bergson si occupa ne Les Deux sources de la morale et de la religion, apparsa nel 1932, venticinque anni dopo L’Évolution créatrice. L’ultima grande opera del filosofo francese è ancora oggi poco conosciuta in Italia e io nel 1996 ne ho curato, presso La Scuola Editrice di Brescia, una nuova traduzione commentata, a cui fa da premessa un ampio saggio introduttivo sull’itinerario filosofico di Bergson. Bergson non spende neppure una riga a confutare la visione della storia di Hegel, di Marx e dei loro continuatori, ripugnando al suo spirito il carattere dommatico dei presupposti, gli arbitrii del procedimento dialettico e la miseria morale del cosiddetto giustificazionismo storicistico. È facile, pertanto, ravvisare nell’ultimo capolavoro di Bergson l’origine di quelle prospettive che di lì a breve saranno sviluppate per vie diverse da Toynbee, Popper e Maritain. Non c’è nella sua riflessione critica sul cammino umano la pretesa di costruire un’altra «filosofia della storia» che, distruggendo insieme il valore del tempo e della libertà, pieghi a priori gli esiti dell’avventura umana all’una o all’altra presunta «legge» o «tappa» del processo dialettico. Nelle Deux sources non vi è alcun diktat del sistema alla realtà dei fatti, ma solo l’indicazione di linee di tendenza, ricavate sempre per induzione e attraverso un largo uso del metodo comparativo.

QUEST’ULTIMO CANTASTORIE È UN VERO POETA. Mi trovo tra le mani un libro in cui sono raccolti oltre tremila versi, in un’alternanza di poemetti, liriche, favole e persino due gustosissime introduzioni alla Fisica e all’Astronomia. I riassunti in versi riguardano I Promessi sposi, Don Chisciotte della Mancia, Pinocchio. I componimenti sono in dialetto siciliano, affiancati da una traduzione a fronte in lingua italiana, che aiuta a capire e a gustare meglio il testo in vernacolo. Il volumetto s’intitola Paisi miu ed è apparso nelle Edizioni Greco di Catania. L’autore è Gianni Giurdanella, che per tanti anni ha insegnato matematica e fisica in un istituto superiore di Brescia. Non si può non essere felicemente sorpresi dalla straordinaria umanità di queste poesie, in cui l’inventiva e l’umorismo si fondono con la mestizia del cantastorie, trasmettendo al lettore un senso di schietta partecipazione alle vicende narrate. Come ha scritto Severino Zini, qui ciò che s’impone già al primo ascolto è la felice intuizione dell’autore nel cogliere il «sugo» – come direbbe Manzoni – di ogni tema narrativo. Porto due soli esempi.

La storia de «I Promessi sposi». La storia nasci tantu tempu arreri (addietro) / in Continenti, quannu li suprusi / erunu pi li genti guai veri, / tempu quannu rignavunu i mafiusi. // Omini troppu ricchi e priputenti, / tiranni senza scrupuli e cuscenza, / ca avevunu a sirviziu dilinguenti / ca facevunu ogni sorta di viulenza. // La liggi c’era, sì, ma pi mischini (gli infelici), pi debuli, pi poviri e gnuranti / nun tuccava, no, li genti fini, / li famigghi putenti e benestanti. Star lontano da te, paese mio. Staiu luntanu ‘i tia, paisi miu / luntanu, sì, pi scelti ormai luntani / luntanu, ma ci aiu sempri lu disiu / di turnari, a sentiri i tò campani. // E quannu vegnu sunu stritti ‘i manu / una appressu all’autra, deci, centu: / «Binvinutu! Comu stai, paisanu / Ah, lu cori miu è accussi cuntentu. // Sentu l’affettu tuo ca nun finisci, / l’amuri tuo sentu ca m’abbrazza, / iu ti ringraziu ca mi custudisci / li cari morti miei dintra i tò vrazza.

25 luglio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Lo humour rende straordinariamente indulgenti. L’umorismo lascia vedere, a chi lo ha, cose che un altro non vede. Perciò è indulgente con gli altri in maniera addirittura indescrivibile (Max Haushofer). Il surplus dell’immaginazione. Nessuno è così felice o così sventurato come si immagina (François de La Rochefoucauld). Un’antica usanza. È usanza antica, e non mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare, e se ci si lascia passar quest’espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa (Alessandro Manzoni). L’esortazione dell’Oracolo di Delfi. L’esortazione dell’Oracolo di Delfi, «Conosci te stesso» voleva dire: «Sappi che sei un uomo e non un Dio». Essa vale anche per gli uomini dell’età della scienza, perché li mette in guardia contro ogni illusione di potenza e di dominio. Solo la conoscenza di sé permette di salvaguardare la libertà, la quale viene minacciata non soltanto da chi di volta in volta detiene il potere, ma più ancora dalla soggezione a quelle forze che crediamo di dominare (Hans G. Gadamer).

LA ROCKSTAR INCONTRA DAVID. Nella collana «I libri della Bibbia» dell’Einaudi sono apparsi il Cantico dei Cantici, l’Esodo, il Vangelo secondo Luca, la Lettera ai Romani, la Genesi, il Vangelo secondo Marco, il Qohelet. A questi volumi si è aggiunto ultimamente quello dedicato ai Salmi. Il libro dei Salmi è come un poema, composto da centocinquanta canti, che hanno appassionato uomini e donne di ogni generazione e che costituiscono l’ossatura della preghiera liturgica sia ebraica, sia cristiana. Spiegare la fede è sempre stato necessario e insieme difficile: come si può, infatti, entrare nello spazio di un amore infinito, e nella logica che ne consegue, quando il mondo – e in primo luogo noi in esso – è così pieno di guasti? La verità delle Scritture però, ci viene incontro, per nostra fortuna, attraverso la più alta poesia, e questo accade specialmente con i Salmi. Il più celebre e affascinante tra gli autori di quei centocinquanta canti era un musicista, un eccezionale suonatore d’arpa. Si chiamava David. Non è stata, perciò, una stramba idea affidare l’introduzione ai Salmi a un celebre musicista del nostro tempo, alla rockstar Bono, pseudonimo di Paul David Hewson, l’irlandese che nel 1977 fondò il complesso degli U2.

UNA VIA D’ACCESSO A «UN SENSO TANGIBILE DI DIO». Quando avevo dodici anni – racconta Bono – ero un fan di David, la sua figura mi era familiare come può essere familiare una popstar. Le parole dei salmi erano poetiche e religiose insieme, e lui era una star. Un personaggio drammatico, perché prima che la profezia si adempisse e David divenisse re d’Israele, gliene capitarono di tutti i colori. Costretto all’esilio, finì in una grotta d’una qualche remota città di confine; lì dovette affrontare una tremenda crisi d’identità e si sentì abbandonato da Dio. Ma proprio qui la soap opera si fa interessante: Pare, infatti, che in quella grotta David abbia composto il primo salmo, un blues. E molti salmi mi sembrano esattamente questo, dei blues. L’uomo grida a Dio: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Lontane dalla mia salvezza sono le parole del mio lamento (Sal 22,2). Abbandono, esilio, di questo parlano i miei salmi preferiti. Il salterio può essere una fonte di musica gospel, ma per me è nella sua disperazione che il salmista rivela realmente la natura del suo specifico rapporto con Dio. Onestà, fino alla collera: Fino a quando, Signore, continuerai a nasconderti? (Sal 89, 47), oppure Porgi orecchi al mio grido (Sal 5,3). Salmi e inni sono stati il mio primo assaggio di musica ispirata.

Bono confessa: Parole e musica hanno fatto per me ciò che solide, addirittura rigorose argomentazioni teologiche non sono mai riuscite a fare, mi hanno introdotto a Dio, a un senso tangibile di Dio.

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Io attendo che Qualcuno un giorno mi chiami. Ho toccato le mie ferite. / Facevano male, orrendamente bruciavano. / Chi me le inferse? E quando? / Per dove ero passato? / Ero già vissuto? / Chi sono io, e dove sto andando?

Sono come un amore cominciato male, o forse neppure cominciato. // Domanda, tentazione, mistero. / Io attendo che un giorno Qualcuno mi chiami. / E con bocca dolce e calda / mi sussurri / chi sono (Endre Ady, poeta ungherese, morto il 27 gennaio 1919, dopo aver vissuto come «un incredulo che crede in Dio»).

1 agosto 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La forza, il coraggio, la saggezza. La forza di accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare quelle che possiamo, la saggezza di distinguere le une dalle altre (da una pubblicazione degli Alcolisti Anonimi). Lui, che cosa si porta dentro? Ma chi dirà mai che cosa un bimbo / chiuda dentro di sé? (Rainer M. Rilke). Non basta voler bene. Un giorno una signora anziana, vedendomi con i miei bambini, mi ha detto con ammirazione: «Brava signora, ai bambini bisogna voler bene, ma non dimostrarglielo!». Lei l’ha detto con simpatia e per farmi un complimento, ma io quel giorno ho capito che non ero affettuosa con i miei bambini. Prima non me ne accorgevo. C’è sempre qualcosa di meraviglioso nell’aprire gli occhi all’improvviso (una mamma coraggiosa). Dà parole al dolore. Dà parole al dolore: il dolore che non parla / sussurra al cuore greve e gli / comanda di spezzarsi (William Shakespeare).

La via si fa camminando. Viandante, la via non è / che le tue orme, nient’altro; / viandante, non ci sono vie, / la via si fa camminando. No, non dorme il mio cuore. No, non dorme il mio cuore. / Non dorme né sogna: è intento, / aperti gli occhi acuti / a lontani segni, e ascolta / agli orli del gran silenzio. / È desto, è ben desto il mio cuore. (Antonio Machado)

LA GRANDE SCOMMESSA CON CUI L’UMANITÀ È COSTRETTA A MISURARSI. Il quarto capitolo de Le due fonti della morale e della religione di Bergson si intitola «Osservazioni finali – Meccanica e mistica». Vittorio Mathieu ravvisa in quelle pagine «il risultato più importante dell’intera ricerca di Bergson, e non della sua ultima opera soltanto»; a me pare di scorgere in esse uno dei vertici speculativi del nostro secolo, ma anche un appello pressante che nasce da una nobilissima ansia per l’uomo. Alla fine di un lungo cammino, Bergson ha voluto additarci, senza esitazione alcuna, la grande scommessa con cui si misureranno il nostro tempo e i secoli che verranno. «L’umanità geme – scrive il filosofo francese – quasi schiacciata dal peso del progresso compiuto. Non sa abbastanza che il suo avvenire dipende da lei. È ad essa, infatti, che spetta decidere prima di tutto se vuol continuare a vivere. All’umanità tocca poi domandarsi se vuol soltanto vivere, o anche produrre lo sforzo necessario perché persino sul nostro pianeta refrattario si compia la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina per fare degli dei». Alla domanda: «da che cosa dipende in gran parte il futuro della specie umana?», Bergson dà una risposta originale e profonda. La funzione essenziale dell’universo sarà adempiuta o non lo sarà, a seconda che si realizzi o meno l’alleanza tra la meccanica e la mistica, tra le conquiste della civiltà tecnico-scientifica e un moto, sufficientemente diffuso, di approfondimento della vita interiore, di risveglio delle coscienze allo Spirito, e più specificamente al messaggio e all’esempio di colui che pronunciò il Discorso della Montagna e altre divine parole. Bergson sintetizza su questo punto il suo pensiero in due espressioni di capitale importanza: la mistica chiama la meccanica, l’una; e l’altra, la meccanica esige la mistica. La mistica chiama la meccanica, affinché i bisogni naturali e necessari di tutti, e non solo dei privilegiati, possano essere soddisfatti; ma è altrettanto vero che la meccanica esige la mistica affinché il progresso tecnico-scientifico possa veramente trasformarsi in via di liberazione per l’umanità. Far uso della tecnica, infatti, non è mai un problema puramente tecnico. È e rimarrà sempre un problema spirituale, ed è in quel campo che va cercata la soluzione.

8 agosto 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se l’acqua non scorresse, se la luna non tramontasse. Ho visto che il fermarsi dell’acqua la corrompe: se invece scorre, è buona. Se la luna non tramontasse, non la guarderebbe a ogni istante l’occhio di chi la osserva (Le mille e una notte). Istruzioni per il viaggio. Se esiste un angolo d’inferno destinato ai turisti, è sicuramente lastricato di istruzioni per il viaggio (Antoni Mączak). Ciò che non deve essere. Fare del turismo non è e non deve essere fare del tempo libero un tempo di riposo dei valori (Giovanni Paolo II, messaggio del 9 giugno 2001). Lavoro e tempo libero. C’è voluto più di un secolo per elaborare il diritto del lavoro, forse ci vorrà un tempo ancora più lungo per stabilire le regole del tempo libero (Daniel Mothé).

VACANZE DA ESSERI UMANI? SI PUÒ. La premessa fondamentale. Noi sappiamo almeno questo: non è la terra che appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla terra. Tutte le cose sono legate. Tutto ciò che accade alla terra accade anche ai figli. Non è l’uomo che ha tessuto la trama della vita: egli ne è soltanto un filo (1854, dalla lettera del Capo Pellirossa Seattle a Franklin Pieroe, il Presidente degli Stati Uniti che intendeva acquistare una parte del territorio indiano). Giorno per giorno. Qualcuno avverte in viaggio, di giorno in giorno, di recuperare tolleranza e di aprirsi verso l’esterno…Viaggiare consiste in una correlazione tra lo sguardo, il pensiero e le cose. Una confusione in cui lo sguardo diventa pensiero e le idee si fanno cosa (Alfredo Antonaros, Viaggi, Roma 1998).

La reciprocità di turismo e ambiente. Il turismo può giovare all’ambiente, indirettamente, se chi lo gestisce ha una cultura e un’etica: la cultura per capire che l’ambiente è una risorsa non rinnovabile, l’etica per sentire il dovere di consegnarlo, se non integro almeno non degradato, ai nostri pronipoti. Il buon turista viaggia perché ama il mondo. Il turismo è qualcosa che riguarda un trasporto inteso non soltanto come spostamento fisico. Riguarda insomma il rapporto con gli altri e con i luoghi dove essi vivono. Perché al di là dei calcoli sul prodotto interno lordo, il turismo è sempre stato e sempre sarà un girotondo d’anime… Il buon turista non è un nuovo colono, né un missionario. Non viaggia per penitenza, ma nemmeno per trasgredire e per delirare come nel leggendario paese di Cuccagna. Il buon turista viaggia perché ama il mondo. (Duccio Canestrini, Andare a quel paese. Vademecum del turista responsabile, Milano 2001)

SE OGNI SCUOLA FA GLI ESAMI A MODO SUO. C’è qualcosa nella nuova maturità (fondata sulla presenza di soli commissari interni) che non convince. Ancora di recente il ministero dell’Istruzione ha difeso il nuovo esame con un argomento di un certo peso. Da anni le percentuali dei promossi si erano attestate poco al di sotto del 100% degli esaminandi; continuare perciò ad utilizzare commissari anche solo per metà esterni (come introdotto dal ministro Berlinguer) rappresentava – è stato detto – una soluzione insieme costosa e inutile. Eppure, un argomento del genere è meno solido di quanto sembri. L’esame nazionale condotto da commissari (anche) esterni alla scuola non serve, infatti, a bocciare di più o di meno; dovrebbe servire anzitutto a spingere la scuola medesima a svolgere al meglio le proprie funzioni educative. Se gli insegnanti sanno che i loro alunni verranno esaminati da colleghi esterni, mi pare ovvio che saranno sollecitati ad operare al meglio delle loro possibilità. Questo è particolarmente vero per un corpo docente come quello italiano, che si è formato in modo eterogeneo (c’è chi ha superato un concorso selettivo e difficile, ma anche chi ha ottenuto la cattedra dopo qualche dozzina di ore di corso abilitante) ed è composto da insegnanti ottimi ma pure da elementi scadenti. Da quest’anno, invece, la funzione di controllo e di stimolo rappresentata da un esame condotto da commissari esterni alla scuola è stata eliminata. È appena il caso di dire che la presenza di un presidente esterno non cambia nulla: il presidente infatti, dovendo svolgere le sue funzioni per tutte le commissioni di una scuola contemporaneamente, di fatto non potrà presiedere che alla firma dei verbali o poco più (Giovanni Belardelli, Corriere della Sera, 26 giugno 2002).

15 agosto 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’originale e la caricatura. Nulla assomiglia a una cosa più della sua caricatura (Gaston Bouthoul). Quando non si ha carattere. Quando non si ha carattere, bisogna pur darsi un metodo (Albert Camus). Il carattere è il dominio del proprio temperamento. Si confonde di continuo il carattere di una persona e il suo temperamento. Un uomo sembra di carattere perché segue sempre i suoi impulsi e le passioni che lo asserviscono (Levi Appulo).

Non succede, ma dovrebbe essere così. La carriera aperta ai talenti (La carrière ouverte aux talents) (Napoleone Bonaparte). La casa e il padrone. Non il padrone per la casa, ma la casa per il padrone (Non domo dominus, sed domino domus) (Iscrizione sulla facciata della casa di Rossini, sulla Strada Maggiore a Bologna).

L’EREDITÀ CHE LASCIA MARTINI. Il cardinale Martini lascia la diocesi di Milano in ossequio alle norme canoniche sui limiti di età, ma Carlo Maria Martini rimane un punto di riferimento forte nella vita religiosa e culturale del nostro paese e dell’Europa. Per cogliere il senso e il peso della sua presenza sarebbe facile andare spigolando fra i tanti gesti compiuti o fra le tante lettere pastorali del suo lungo episcopato. Dalla «cattedra per i non credenti», alle tante iniziative di dialogo, al forte richiamo ai cattolici italiani ad essere, nella vita civile e politica, non solo testimoni e garanti dei loro propri e specifici valori ma presenza attiva e responsabile del buon funzionamento della democrazia. Tuttavia, se si vuol cogliere il senso dell’episcopato e della lezione di Martini, occorre a mio avviso scendere molto più in profondità all’ispirazione religiosa che lo ha mosso, strettamente legata alla sua formazione di studioso. Martini in un parola è uno degli interpreti più coerenti e rigorosi di un documento del Concilio Vaticano II poco noto al grande pubblico e meno di frequente citato a livello di grande informazione: la Dei Verbum, la costituzione cioè con la quale il Concilio ha riproposto la centralità della Bibbia nella esperienza di fede. Può apparire, questo, un riferimento molto astratto, molto lontano dagli interessi quotidiani della nostra società; ma non è così. Porre la Bibbia alla base dell’esperienza di fede significa, infatti, il superamento in radice di un modo di intendere il cattolicesimo come un circuito chiuso di appartenenza legato a principi e norme definite una volta per tutte; significa riproporre la fede come partecipazione a una storia che coinvolge l’intera umanità, una storia di fedeltà e di tradimenti, in cui i confini fra il credere e il non credere sono dentro la coscienza di ogni uomo. Il credere diventa, in questa visione, l’essere consapevolmente e liberamente dentro questa storia che ha radici millenarie. Martini ha potuto in questo spirito rivolgersi ai non credenti, aprire con loro un fecondo dialogo, ha potuto parlare del «non credente» che è in ognuno di noi, ha potuto superare ogni forma di clericalismo, ogni presunzione di possesso esclusivo della verità (Pietro Scoppola su La Repubblica del 12 luglio 2002).

DAVANTI ALLA MORTE DEL SOLE. Le auguro dal profondo del cuore di ritrovare il senso dell’angoscia davanti alla morte del sole. Quando muore il sole, nessuna certezza scientifica deve impedirci di piangerlo, nessuna evidenza razionale di domandarci se tornerà a rinascere. Voi andate lentamente morendo sotto il peso dell’evidenza. Vi auguro quest’angoscia. È difficile non fermarsi a pensare dinanzi a queste parole ammonitrici che Chekkh Hamidia Kane rivolge a un amico bianco. Io le ho lette nel volume L’avventura della poesia di Roberto Mussapi (Milano 2002).

L’ANGOLO DELLA POESIA. Incantano di pace Cielo e Terra. Dormi, dolce bambino, dormi. / Nel tuo sonno si sciolgono / adagio le tue pene / e tu sorridi. // Nel tuo sorriso vedo / le cose e le persone amate, / le tue segrete gioie e piccole astuzie. // Al mattino, quando ti desti, / dalla tua guancia e dallo sguardo / i tuoi sorrisi vanno / dove li porta il cuore. // Le astuzie e i sorrisi dei bambini / incantano di pace Cielo e Terra (William Blake, 1757 – 1827).

22 agosto 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La gioia che suscitiamo negli altri. La gioia che suscitiamo negli altri ha questo di bello, che invece di illanguidirsi come ogni riflesso, ci viene rimandata più splendente (Victor Hugo). Occorre navigare seminando incessantemente nei cuori la gioia e la pace (Teresa di Lisieux).

«MAI, NEPPURE PER UN ISTANTE, IL PROPRIO DOLORE GETTI UN’OMBRA SUL MONDO». Gilbert Keith Chesterton nacque il 29 maggio 1874 e morì il 14 giugno 1936. Anche se la morte a sessantadue anni non può essere definita prematura, possiamo comunque dire che egli non visse fino a diventare veramente vecchio. Sia lui che i suoi cari sapevano per certo che non gli era rimasto molto da vivere. Non contavano su di un miracolo, che del resto si era già verificato una volta, vent’anni prima, quando lui era tornato lentamente alla vita dopo una gravissima malattia, che l’aveva lungamente tenuto incosciente a letto. La realtà, così difficile da chiarire in quanto così radicalmente nascosta, è che Chesterton era un uomo malaticcio, se non proprio malato. E qui converrà considerare il fatto che né lo scrittore stesso né i suoi amici e contemporanei, né i suoi attuali lettori ed estimatori lo consideravano né lo considerano in tale veste. È molto probabile che la famosa corpulenza di Chesterton e la sua spropositata statura fossero sintomi di un serio scompenso organico; comunque sia, l’una e l’altra sovraffaticavano non poco il cuore nello svolgimento delle sue funzioni. Ma lo scrittore fece decisamente tutto ciò che dipendeva da lui perché la sua complessione non ispirasse in alcuno sentimenti diversi dall’allegria. Essa divenne, infatti, qualcosa di proverbiale, una fonte inesauribile di motteggi. La corpulenza di Chesterton era per i contemporanei un simbolo di allegria, un po’ nello spirito di Rabelais. Bernard Shaw ha scritto: «Chesterton è il nostro Quinbus Flestrin, l’Uomo-Montagna, un cherubino gigantesco e tondo, che non solo è indecentemente largo di corpo e di mente, ma mentre lo guardiamo, sembra allargarsi sotto i nostri occhi in tutte le direzioni». Quinbus Flestrin è il soprannome di Gulliver nel paese dei lillipuziani e ciò, indubbiamente, la dice lunga sull’uomo a cui fu affibbiato proprio dal suo più illustre e irriducibile avversario. Chesterton comunque aveva il dono speciale di volgere in scherzo tutto quello che lo riguardava personalmente, tranne le proprie convinzioni e scelte morali. Un ultimo particolare: il coraggio che traspare dal tono delle lettere di Chesterton scritte mentre attendeva la morte è coraggio autentico. Non è il caso di cedere al pathos; ma non posso fare a meno di ricordare la promessa da lui fatta nei versi giovanili: «Mai, neppure per un istante, desiderare che il proprio dolore getti un’ombra sul mondo intero». Chesterton mantenne sino alla fine quella nobile promessa.

L’UMORISMO DI CHESTERTON. Non devo per forza essere d’accordo con Chesterton per trarre godimento dalla sua compagnia. Il suo umorismo è di quel tipo che prediligo sopra ogni cosa. Non «freddure», sparse sulla pagina come l’uvetta nella pasta del pane dolce, e men che meno un tono prestabilito di noncurante canzonatura, che non mi riesce in alcun modo di digerire; il suo è un umorismo inseparabile dalla sostanza stessa della discussione e da questa discussione «sboccia», come direbbe Aristotele. La lama gioca nei raggi di sole non perché lo schermitore si preoccupi di farla scintillare, ma semplicemente perché la battaglia non è finta e i movimenti sono alacri e impetuosi. Per quanto riguarda quei critici i quali reputano che Chesterton giochi coi paradossi unicamente per amore del paradosso, nel migliore dei casi li posso compiangere; ma non posso in alcun modo associarmi al loro punto di vista (C.S. Lewis, Sorpreso dalla gioia, Milano 1981).

Nel libro da cui è tratto questo giudizio su Chesterton umorista, l’autore racconta la storia della sua conversione. Egli dice che la sua è una storia «insopportabilmente personale», ma noi lettori di Lewis – sommo critico letterario, narratore affascinante e polemista acutissimo – sappiamo che, parlando di sé, egli ci fa assistere all’indagine di un detective che vuol andare a fondo di un «caso». Ma, a ben vedere, il suo caso è proprio terribilmente simile ai nostri casi.

29 agosto 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La furbizia. Il miraggio della furbizia rende meno intelligenti. Non preoccuparti della risposta. Se qualcuno ti fa una domanda difficile, non preoccuparti della risposta. Lui la sa già. (Giuseppe Pontiggia)

Se lo meritano. Che il Cielo perdoni ai malvagi. Dopo averli puniti (Joseph Joubert). Non basta morire per una causa. Morire per una causa non fa che quella causa sia giusta (Henri de Montherlant). Ma è proprio un vantaggio? Essere conosciuti da coloro che non vi conoscono che senso ha? (Chamfort).

LETTERA DI UNA NONNA A UN NIPOTE MAI CONOSCIUTO. Caro Guido, oggi che compi diciotto anni, voglio raccontarti cose che non sai ed esprimerti sentimenti che non conosci. I tuoi nonni appartengono a quella generazione che attribuisce a ogni data un valore speciale e particolare. La nascita di un nipote è una di quelle date. Il battesimo (o non), i suoi primi passi, la prima comunione (o non), la caduta del primo dente, il grembiulino bianco, lui che chiede: «Nonnina, chiedimi le tabelline». Sono momenti eccezionali. Perciò questa data del tuo diciottesimo compleanno acquisterà un valore speciale e particolare, come tutte le altre che non abbiano potuto vivere insieme. Appena nato ti strapparono dalle braccia di tua madre Laura, bendata e sorvegliata in un ospedale militare, ti rubarono per condannarti a un destino incerto. Oggi stai festeggiando i tuoi diciotto anni sotto un altro nome, accanto a un uomo e una donna che non sono tuo padre e tua madre, ma i tuoi ladroni e loro neppure immaginano che la tua mente custodisce le ninne nanne e le canzoncine che Laura ti sussurrava, sola nella prigione, mentre ti muovevi nel suo ventre. Un giorno ti sveglierai scoprendo quanto la tua mamma ti amò e come tutti noi ti vogliamo bene. Chiederai dove poterci incontrare. Cercherai una somiglianza con tua madre e vedrai che piaceranno anche a te l’opera, la musica classica, il jazz, come ai tuoi nonni. Ti emozionerai ascoltando i Sui Generis, Almendra e Papo, come accadeva a Laura. Ti sveglierai un giorno da questo incubo, nipote mio, e sarai libero. Con tanto amore (Nonna Estela, 26 giugno 1996).

IL LIBRO DI ITALO MORETTI, I FIGLI DI PLAZA DE MAYO. La lettera qui riportata è di Estela Parlotto, dal 1989 Presidente delle Abuelas di Plaza di Mayo, le nonne che coraggiosamente stanno cercando i loro nipoti, circa cinquecento bambini, figli di giovani desaparecidos, sottratti alle famiglie e requisiti dagli ufficiali militari durante la dittatura in Argentina dal 1976 al 1983. Il libro di Italo Moretti, I figli di Plaza de Mayo (Milano 2002), fa luce su una delle pagine più terribili e vergognose della storia dell’Argentina. Molti figli dei desaparecidos erano stati sequestrati, piccolissimi, insieme ai genitori. Altri erano nati nelle orribili prigioni clandestine, dove le madri erano state rinchiuse in attesa del parto. Rimasero tutti orfani, senza eccezioni. Le nonne – le abuelas de Plaza de Mayo – cominciarono subito a cercarli e continuarono a farlo per anni, incontrandosi tra loro e dando pubblicità alle loro iniziative, mentre i nipoti, ignari della propria effettiva identità, crescevano accanto a degli estranei, spesso in casa degli stessi assassini dei loro genitori. Dopo il ritorno della democrazia, una commissione governativa ha affiancato nelle indagini le associazioni dei familiari dei desaparecidos e da allora quasi un centinaio di ragazzi ha scoperto la verità sulle proprie origini. Le più sofisticate ricerche genetiche hanno accertato i vincoli di sangue, i tribunali hanno condannato parecchi dei responsabili: ma come misurare la tragedia, lo sgomento che passa negli animi di quegli adolescenti che sono venuti a sapere di essere stati ingannati da coloro che hanno imparato ad amare come se fossero i loro genitori? Come ognuno dei ragazzi ha affrontato la prova? E con quali esiti? Alcuni tra quelli hanno superato la terribile prova. Italo Moretti li ha incontrati e ha raccolto le loro testimonianze dirette, ricostruendo sia il complesso lavoro investigativo necessario a rintracciarli, sia i dibattiti che i differenti casi hanno suscitato tra educatori, giuristi e psicologi. Il libro di Italo Moretti si legge come un appassionante reportage, ma è e rimane un documento importante che restituisce alla memoria collettiva una pagina di storia che molti tentano di cancellare.

5 settembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Su che cosa si regge il mondo. Su tre cose si regge il mondo: sul diritto, la verità e la pace (Mishnà, Avot 1,18). Gli arabi e gli ebrei. Gli ebrei e gli arabi sono semiti e il loro habitat naturale è il Medio Oriente. C’è meno differenza tra loro che tra i francesi e gli inglesi (Ben Gurion, padre fondatore dello Stato d’Israele e maestro di Shimon Peres).

L’OCCUPAZIONE MILITARE UCCIDE LA VOLONTÀ DI PACE. Nella sua Utopia, Thomas More descrive gli effetti di un prolungato stato di assedio sugli assedianti; in questo caso gli Acoriani: Tanto tempo fa, entrarono in guerra per conquistare un altro regno per il loro re, il quale ne rivendicava l’antico diritto per via di matrimonio. Quando tale regno fu conquistato, ci si rese conto che mantenerlo era tanto arduo quanto lo era stata la sua conquista. Il popolo assoggettato si ribellava in continuazione, così che gli Acoriani erano costretti a lottare senza soste per sedare le rivolte. E in tal modo non intravedevano alcuna speranza di pace, né potevano congedare l’esercito. Nello stesso tempo dovevano pagare più tasse e assistere impotenti alla propria rovina economica. In una parola la guerra, incoraggiando la criminalità e l’assassinio, finì col corrompere i cittadini, mentre il diritto fu dimenticato.

Possiamo utilizzare la descrizione di Thomas More per giungere a talune conclusioni in merito alle relazioni che lo Stato di Israele ha con i palestinesi. Israele si trova attualmente a gestire due paralleli sistemi di governo, con sistemi di valore contradditori. Il governo militare – per la sua stessa natura- è oppressivo, sia per i popoli che tende ad assoggettare sia per i cittadini del suo Paese. Esso è, in effetti, l’antitesi dei valori fondamentali e democratici scritti nella Dichiarazione di Indipendenza di Israele e nella sua cultura politica. Il sionismo è sorto perché anche agli ebrei fossero riconosciuti i diritti umani fondamentali. Pertanto, il fatto di assoggettare un altro popolo e di imporre in una data area l’ordine pubblico utilizzando apparati militari non si ripercuote solo sull’atteggiamento delle autorità governative nei territori, ma anche su coloro che vivono nel cuore di Israele, proprio come aveva previsto Thomas More. Un Paese che esercita opera di costrizione nei confronti di un altro – seppure per motivazioni di autodifesa – perde, infatti, a sua volta la volontà di astenersi dall’oppressione per via della stessa dinamica della conquista. Israele non ha alcun interesse – a breve o lungo termine – a governare i palestinesi, o a considerarli come «ostaggi» di una situazione di guerra. La guerra non ha mai risolto i problemi. La pace è la soluzione.

QUESTO È QUELLO CHE PENSAVA SHIMON PERES. Queste riflessioni non sono mie, ma di Shimon Peres. Le leggo nel capitolo terzo – «La guerra non ha vincitori» – di un suo libro, Il Nuovo Medio Oriente, pubblicato nel 1993 e tradotto in italiano l’anno seguente dall’Editore Morano di Napoli. A distanza di nove anni, esse stanno a indicare il solo sentiero di pace per Israele e il popolo palestinese, ma anche la sola via d’uscita che rimane a Israele per salvare la sicurezza e il diritto ad avere un futuro. Dalla primavera del 2001 Shimon Peres è ministro degli esteri nel governo presieduto dal suo più duro avversario politico, il generale Ariel Sharon. Mi chiedo: fino a che punto, nella speranza di evitare il peggio al proprio Paese, Peres può continuare a far parte di un ministero di cui non condivide né i metodi, né le finalità oltranziste apertamente conclamate?

POESIE D’AMORE. Se stavi un giorno senza che mi vedevi. Se stavi un giorno senza che mi vedevi / non ti ricordi quando mi dicevi/ che tu m’amavi sì perfettamente? / Se stavi un giorno che non mi vedevi, / con gli occhi mi cercavi tra la gente (Leonardo Giustinian, poeta del primo Quattrocento).

12 settembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Perché ci fa tanto piacere. Se non avessimo difetti, non ci farebbe tanto piacere trovarne negli altri (François de La Rochefoucauld). No, non è la stessa cosa. Il bello è difficile, non è il difficile (Niccolò Tommaseo). Un’attrattiva più alta. La certezza di un Dio che conferisca un significato alla vita supera di molto, in attrattiva, il potere di fare il male impunemente (Albert Camus). No, non è fra quelle. Vi sono ragioni per dubitare di Dio, ma che non abbia fatto il mondo come noi immaginiamo il nostro salotto, non è tra quelle (Ernst Jünger). Quando il cattivo diventa peggiore. Una causa non buona diventa peggiore quando si vuole difenderla / Causa patrocinio non bona peior (Ovidio). Conosci veramente te stesso? Conosci te stesso? Potrai rispondere di sì senza paura di sbagliare quando scoprirai in te stesso più difetti di quanti ne vedano gli altri (Friedrich Hebbel).

Le trappole dell’eccessiva diffidenza. Una diffidenza moderata può esser savia; una diffidenza oltrespinta, non mai (Silvio Pellico). Ci si lascia imbrogliare più spesso per troppa diffidenza che per troppa fiducia (Cardinale di Retz).

«IL RUMORE NON PUÒ IMPORSI SUL RUMORE, IL SILENZIO SÌ». Perché diciamo così spesso il falso? Per paura? Per vergogna? Non sarebbe preferibile, invece, rimanere in silenzio o, meglio ancora, rimossa ogni esitazione, dire con franchezza quel che pensiamo? Chi si esercita a dominare le passioni o si lascia assorbire completamente dal lavoro parla pochissimo. Non è facile conciliare la parola con l’azione. Osserva la natura: è sempre in attività, non rimane ferma un secondo, eppure tace. Quando una persona parla a vanvera per abitudine, è ora che cambi atteggiamento. Le conviene chiudere a chiave la bocca e cucirsi le labbra. Il rumore non può imporsi sul rumore, il silenzio sì (Mahatma Gandhi, Chi segue il cammino della verità non inciampa, Cinisello Balsamo 2002).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Politica estera. Chi parla ha da dire / le cose che dice e forse no / o forse altre. Ma è un fatto che chi tace / lascia che tutto gli succeda e quel ch’è peggio / lascia che quello che hanno fatto a lui lo facciano / a qualcun altro (Giovanni Raboni, Tutte le poesie 1951-1993, Milano 1997).

Il notaio cartesiano. Rogito / ergo sum. Crisi economica. Il tenore di vita / non canta più. (Giorgio Calcagno, Galileo e il pendolare. Frizzi, bisticci, sfizi, ghiribizzi, Milano 1990)

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Insieme al cospetto di Dio. Mettendomi tra coloro che il castigo aspetta, / insieme tutti preghiam misericordia: / insieme ai timorosi e agli umiliati, / insieme agli esecrabili e traviati, / ai proscritti e a quelli che a Te fecero ritorno, / insieme ai dubitosi e insieme ai fiduciosi, / insieme agli sconfitti dalla morte e ai risorti. // Insieme tutti invochiamo misericordia: / insieme agli oppressi e a chi ritrovò vigore, / insieme a chi cadde e a chi si rialzò, / insieme ai reietti e ai bene accetti, / insieme ai detestati e ai chiamati, / insieme agli stolti e ai ravveduti, / insieme ai dissoluti e ai temperanti, / con chi si è allontanato e chi si è avvicinato, / insieme ai rifiutati e ai prediletti, / insieme ai timorosi e agli audaci, / a chi vien svergognato e a chi tripudia. (Gregorio di Narek, santo e poeta armeno, vissuto tra la seconda metà del sec. X e l’inizio dell’XI).

19 settembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se è veramente un aforisma… Nel cuore di ogni aforisma, per quanto nuovo o addirittura paradossale esso possa apparire, pulsa un’antichissima verità (Arthur Schnitzler). Lasciarsi sorprendere dalla bellezza. Coloro per i quali le cose belle non hanno altro significato che di pura bellezza sono gli eletti (Oscar Wilde). Linea di condotta. Occorre cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguito (Sant’Ambrogio). La distanza tra il melodramma e la letteratura più grande. Jean-Paul Richter ha parlato della «non moralità» dell’angoscia spirituale nelle opere dei romantici. Ma il fenomeno Dostoevskij anche da solo è sufficiente a insegnarci una volta per sempre quanto piccola possa essere la distanza tra il melodramma e la letteratura più grande che possa esistere (Sergej S. Averincev).

LA LECTIO DIVINA NELLA NOSTRA VITA QUOTIDIANA. Grande è la potenza educativa della Bibbia, ma come farla giungere praticamente alla gente semplice, alle grandi masse anche nelle nostre metropoli, aiutandole a superare le difficoltà della frammentazione della vita, delle convivenze dirompenti, delle difficoltà del dialogo tra culture diverse e tra diverse religioni? A questo interrogativo Carlo Maria Martini ha dato una precisa risposta, al convegno di Camaldoli del 13 luglio 2002. Ecco i passaggi essenziali riportati il giorno seguente dal Corriere della Sera.

Per quanto riguarda la mia esperienza pastorale, formulo la seguente risposta: tra i mezzi che possono maggiormente aiutare i cristiani che vivono nel mondo contemporaneo a raggiungere quell’unità di vita e quella capacità di orientamento, che è premessa a un vivere sociale costruttivo, vi è certamente l’esercizio paziente, metodico, tendenzialmente quotidiano della lectio divina. Con il termine lectio divina intendo la capacità di mettersi di fronte una pagina della Scrittura per leggerla in spirito di fede e di preghiera, così da smascherare le insidie della mentalità contemporanea e giungere a leggere tutte le realtà secondo la mente e il cuore di Dio. Mi preme tuttavia insistere sul fatto che non è lectio divina il solo prendere ogni tanto in mano, da soli o in piccoli gruppi, qualche pagina della Bibbia. La lectio è un esercizio ordinato, metodico, non casuale, fatto in un clima di silenzio e di preghiera. Nel mondo occidentale ci troviamo in un contesto pubblico che prescinde da Dio, in cui il mistero di Dio è quasi assente nei segni esteriori della vita della società. Siamo minacciati da un’aridità interiore che rischia di soffocare le coscienze, di non lasciar più emergere nell’esperienza quotidiana il senso e il gusto del Dio vivente. Solo se alimentiamo la nostra fede con un contatto personale con la Parola, riusciremo a passare indenni attraverso il deserto spirituale della società contemporanea… Vorrei anche sottolineare come, per esperienza personale, anche il dialogo con i non credenti, che ho proposto in questi anni a Milano con la cosiddetta ‘cattedra dei non credenti’, ci ha fatto comprendere che il terreno della Bibbia è quello di più facile confronto anche con coloro che non credono in Dio o che sono in qualche modo in ricerca. Ritengo, dunque, che la Sacra Scrittura sia davvero il libro del futuro dell’Europa.

TRE GIOIELLI DELLA POESIA RUSSA. La cascata. Una montagna di gemme precipita / dall’alto di quattro balze. / Il profluvio di perle e d’argento / ribolle laggiù, e in onde rifrange. / Una collina di spume si inarca, / e mugghia per il bosco di lontano. L’alba. L’alba dipinge il mondo e lo rinnova. / Boschi e colline, dal celeste fuoco indorati, / emergono dalle tenebre lucenti. / Le acque scintillano d’argento, / di rubino le nuvole, / d’oro rossastro i tetti. / Come un fiume di fuoco / la fulgida luce, porporina / abbraccia ogni cosa. / Sembra iridarsi ogni creatura / e la natura parla… / Con l’alba affluiscono nuovi sentimenti / e muovono la stirpe dei mortali.

L’autore di queste poesie è un russo: Gavrila Romanovic Derzavin. Visse nel secolo XVIII.

26 settembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il primo dei tuoi doveri. Non cercarti fuori di te (Persio). L’intelligenza è un’altra cosa. Chi dice cerebrale non dice necessariamente intelligente (Léon P. Fargue). Che cos’è lo charme? Lo charme è un modo di ottenere in risposta un sì senza aver formulato nessuna chiara domanda (Albert Camus). Chiesa e Stato. La Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato. È la sua coscienza (Martin Luther King). Il cinismo. Odio il cinismo più del diavolo, a meno che siano la stessa cosa (Robert L. Stevenson). L’uomo e le circostanze. Le circostanze fanno l’uomo non meno di quanto l’uomo faccia le circostanze (Karl Marx). Per riuscire nella vita. Per riuscire nella vita bisogna cercare le circostanze opportune e, se non si riesce a trovarle, crearle (Levi Appulo).

SE È POESIA… Il tempo, come sempre, opera una inevitabile selezione dei versi di un poeta, ma quelli che superano questa cernita arrivano fino a noi, direttamente, come una missiva di cui siamo i destinatari; invece le opere teoriche dei loro autori ci passano a lato. Spiegare oggi i versi con le «poetiche» del loro autore significa spiegare una cosa a noi vicina con una più distante. La realtà di ogni poesia, nella sua essenza, non si esaurisce e non può esaurirsi in nessuna teoria, nemmeno in una teoria ad essa connaturale: nella poesia ci sono molti più segreti, nascondimenti, imprevisti. Il saggio consiglio di Orazio al navigatore è di compiere il suo viaggio non troppo accosto alla «malcerta riva». La poesia è per il suo interprete il mare aperto, le enunciazioni teoriche del poeta sono la riva, e una riva insicura, non perché esse non siano nel loro genere sufficientemente adeguate, ma semplicemente perché si tratta pur sempre soltanto di dichiarazioni teoriche e non della realtà stessa della poesia. Riguardo a quest’ultima possono fornire qualche lume, ma non spiegarla mai del tutto.

Questa semplice, illuminante osservazione si legge nel bel volume di Sergej Sergervic Averincev Dieci poeti – Ritratti e destini, tradotto in italiano da Sergio Rapetti per La Casa di Matriona, Milano 2001. Averincev – insigne specialista dell’antichità semitica, bizantina e russa – fin dagli anni Sessanta ha operato perché nell’Urss-Russia si conoscesse finalmente il pensiero, la filosofia, la poesia mediorientali e occidentali. Oggi egli è il più raffinato critico letterario della Russia e le sue opere sono lette con appassionata partecipazione in Europa. Quattro di esse sono state pubblicate in Italia: L’anima e lo specchio, Atene e Gerusalemme, Cose attuali cose eterne e, da ultimo, Dieci poeti.

LA VERA POLITICA. La vera politica, la sola degna di questo nome, l’unica che voglio praticare è al servizio del prossimo, della comunità, delle generazioni future. Il suo fondamento è etico in quanto essa è la realizzazione delle responsabilità di ognuno verso tutti gli altri. Essa si nutre della certezza, consapevole o no, che nulla finisce con la morte, perché tutto resta sempre impresso da qualche parte, al di sopra di noi, in quello che io chiamo «la memoria dell’essere». In quella parte indissociabile del mistero dell’uomo, del cosmo, della natura e della vita, che i credenti chiamano Dio (Vaclav Havel, 1992).

POESIA AMERICANA. Partner del diavolo. E il diavolo a lui disse: / «Mi piace il tuo stile così perverso e franco, / siedi e dividi il mio trono con me» (Vachel Lindsay). Senza riluttanza. Condiscendere al fluire delle cose, / arrendersi con grazia alla ragione, / e piegarsi, e accettare la fine/ d’un amore o di una stagione (Robert Frost). Silenzio. Per le cose profonde / a che serve il linguaggio? (Edgar Lee Masters). Una stella è resa perfetta dalle tenebre. I misteri chiariscono i misteri (Marianne Moore). Se non ci induca musica suadente. Ora, se non c’induca musica suadente / ch’apre improvvisa le porte dell’animo nostro, / non indoviniamo la presenza degli angeli, / e siamo soddisfatti di rimanere ciechi (Conrad Aiken).

3 ottobre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Chi sa cogliere la differenza e l’originalità. Quanto più si è spiritualmente dotati, tanto più accade di scoprire uomini originali. La gente comune non fa differenza tra un uomo e un altro (Blaise Pascal). A chi sappia guardarla bene. Una maschera racconta molto più di un volto (Oscar Wilde).

SU VIRGILIO, LA CIRCOSTANZA TESTIMONIATA DA TACITO. Quando il 21 settembre del 19 a. C. nella città salentina di Brindisi, bagnata dal mare che collegava l’Italia meridionale all’Ellade di Omero, nel cinquantunesimo anno della sua vita moriva Publio Virgilio Marone, già allora quell’evento significò per la coscienza di alcuni contemporanei – e quanto meno per il vago presentimento di altri – qualcosa di più che non semplicemente la morte di un poeta amato e grandemente reputato. Di poeti Roma ne aveva avuti; ma Virgilio non è soltanto uno dei grandi e neppure il primo. Egli è unico. Certamente è azzardato cercare di intuire ciò che effettivamente provava la gente di duemila anni fa; ci sono non di meno degli indizi a cui è opportuno affidarsi, se non ad ognuno singolarmente, almeno a tutti presi nel loro insieme, perché si confermano a vicenda. Properzio, poeta saggio e ricco di talento, aveva sin dall’inizio salutato il lavoro di Virgilio – il quale durerà undici anni senza essere portato a compimento – con le parole: «Non so se stia per nascere qualcosa di più grande dell’Iliade». Certamente il costume letterario di Roma antica ammetteva tra poeti amici una certa dovizia di reciproche lodi appena temperate dall’ironia. Ma l’altra circostanza, testimoniata da Tacito, del pubblico che a teatro si alzava per salutare Virgilio, tributandogli silenziosamente lo stesso onore riservato ad Augusto, qualcosa doveva ben significare.

Questo è l’incipit della relazione tenuta da Sergej S. Averincev nell’autunno del 1981, a Mantova, nell’ambito del congresso internazionale dedicato a Virgilio nel bimillenario della morte. Quella relazione è stata rielaborata in un denso e appassionato saggio che si può leggere in apertura del volume di Averincev Dieci poeti – Ritratti e destini (Milano 2001).

L’UNIVERSO DEL SOGNO. In un libro di rara finezza, che nel tono amabile del conversare cela con cura la vastità dell’informazione e la sagacia del giudizio, un illustre critico letterario esplora l’universo del sogno che accompagna la nostra vita di veglia e ne è inseparabile. Lo scritto a cui mi riferisco è L’avventura del sogno – pubblicato recentemente dall’editore Antonio Stango (Roma 2002) – e l’autore è Emerico Giachery.

RISCOPRIRE LA NOSTRA SINFONIA INTERIORE… Ecco il brano conclusivo de L’avventura del sogno.

I temi della sinfonia interiore a offrirceli è l’esistenza e la cultura in cui siamo immersi, se intesa nel senso più lato del termine. Insonne fucina e crogiolo di prospettive e orizzonti, inesauribile riserva e vivaio d’immagini ed esperienze, la multiforme ricerca umanistica e la grande letteratura mondiale risultano in alta misura atte a suggerire patrie immaginarie da scoprire, a donarci ogni sorta di temi e di motivi. Al pari di quella in si minore, sin troppo nota, di Franz Schubert, ogni sinfonia di vita è destinata a rimanere incompiuta. Anche quelle di chi ha avuto la ventura di un lungo e coerente cammino. Persino quelle realizzate da sommi geni dell’arte e del pensiero, o da quegli ‘artisti del vivere’ che sono i grandi maestri di saggezza, di irradiante saggezza, i grandi santi capaci di approdare a un autentico amore per tutti, certo, ma specialmente per ciascuno. Il senso ultimo, il pieno compimento delle nostre sinfonie di vita non può forse essere attinto entro le colonne d’Ercole del nostro pur tanto amato mondo fenomenico e sublunare, entro un ambito di mera, esclusiva immanenza. Sarebbe somma meraviglia e gloria se ogni nostra sinfonia potesse raggiungere il compimento di un senso universale e sfociare in una polifonia sconfinata di voci distinte e diverse, armonizzate in infinitum da un Superdirettore divino, a conoscenza, lui soltanto, del senso totale della partitura.

10 ottobre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se a comandare sono i ricchi. Uno Stato oligarchico non è unico, ma doppio: uno dei poveri e uno dei ricchi, sussistenti entrambi nello stesso territorio, in perenne conflitto fra loro (Platone). Un grandissimo piacere. Imparare è un grandissimo piacere (Aristotele). Il miracolo di una buona traduzione. La traduzione è l’arte di mantenere l’«alterità», togliendo l’intralcio della «estraneità». Ed è questo miracolo che rende possibile l’esistenza di una vera e propria letteratura universale (Levi Appulo).

LA POESIA VIRGILIANA E I GIOVANI. C’è qualcosa cui ben conviene la netta e oggettiva determinazione di un’autorità capace di farsi obbedire già per il solo fatto della propria presenza, ed è la scuola. I valori dei classici maggiori si prestano molto a diventare valori della scuola in senso assoluto. E la poesia di Virgilio trovò effettivamente la strada della scuola con speditezza estrema. I giovani romani e delle province romanizzate con le loro tavolette di cera, gli allievi delle scuole monastiche medievali, i discepoli degli umanisti e gli studenti dei gesuiti, i ginnasiali e i liceali dei tempi più recenti hanno imparato a leggere i suoi versi sulla via semplice, sui lavori agricoli, sulla vocazione di Enea e la passione di Didone. Da Agostino, che leggeva un libro dell’Eneide ogni giorno anche a Cassiciaco, mentre si preparava a ricevere il battesimo, a Dante Alighieri, da Petrarca, vero iniziatore del nostro umanesimo, al poeta moderno Thomas S. Eliot, a molti di noi incontrare Virgilio è stata un’esperienza fondamentale, un punto di partenza normativo per chiunque si appresta a vivere aprendosi ai grandi influssi formatori dell’umanità. Ci si chiede: che cosa rende Virgilio particolarmente adatto al ruolo di guida educativa? Molti hanno sottolineato la sua assoluta irreprensibilità, la finezza del gusto poetico, l’elevatezza dei suoi ideali morali. Ma vi sono anche altre ragioni, e la prima di esse è il suo atteggiamento di rispetto verso i giovani e di apertura nei loro confronti. E Virgilio è stato accolto spiritualmente dai giovani di tante generazioni proprio perché in lui non c’è nulla di spiritualmente immaturo e la sua poesia ci spinge a innamorarci di ciò che reca in sé il sigillo della purezza e a fronteggiare le amare lezioni della vita senza mai desistere dal coltivare la speranza. I giovani sono, dunque, i veri destinatari della poesia virgiliana.

GRANDE, INSOSTITUIBILE BONHOEFFER. Nei suoi corsivi, limpidi ed essenziali, con cui Stefano Minelli ha introdotto i singoli numeri della rivista Humanitas dal 1991 al 2001, anno della sua morte, scelgo tre annotazioni riguardanti Dietrich Bonhoeffer. Le riporto dal volume Tempo d’attesa, con cui la Morcelliana di Brescia ha voluto ricordare il suo direttore.

  1. Facciamo nostro, con umiltà e commozione, il motto che su una strisciolina di carta fu trovato sullo scrittoio del pastore Bonhoeffer il 5 aprile 1943, quando la polizia fece irruzione nella casa paterna di Berlino: «Essere per il mondo».
  2. In una pagina di Resistenza e resa leggiamo una delle rare poesie scritte in carcere da Dietrich Bonhoeffer. La poesia s’intitolata Voci notturne. Eccone gli ultimi versi: «Terra, sii prospera! / Uomo, sii libero, / e libero resta! // Fratelli, finché non giunge, dopo lunga notte, / il nostro giorno, / resistiamo».
  3. Non posso rinunciare a far conoscere per intero agli amici lettori la poesia A Dietrich Bonhoeffer scritta da un ufficiale italiano che dopo l’8 settembre 1943 fu deportato dai nazisti nel campo berlinese di Tegel. L’ufficiale si chiamava Tani Latmiral e visse per mesi in quel carcere accanto a Bonhoeffer, e parlò e discusse con lui in un rapporto quasi di discepolo e maestro. Latmiral è morto a Napoli nel marzo del 1995 e fra le carte che la vedova consegnò ad un amico vi era questo testo: «A Dietrich Bonhoeffer. Pregare / più con la vita che con le parole, / perché si avveri / la speranza del Regno. // Compiere / libere scelte al servizio dell’uomo. // Vivere / le contraddizioni del proprio tempo. // Restare / fedeli nel segreto / in attesa del giorno / in cui la rinnovata / parola potrà splendere di nuovo / e accettare frattanto / il mistero di un Dio / che nulla ha in comune / con le potenze del mondo. // Tu scrivesti: muoio silenzioso / testimone di Cristo tra i fratelli, / era questa la tua / identità cristiana».

17 ottobre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Una parola detta a suo tempo. Come frutti d’oro su vassoio d’argento / così è una parola detta a suo tempo. / Come anello d’oro e collana d’oro fino / è un saggio che ammonisce un orecchio attento (Libro dei Proverbi). Un Dio che attende. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me (Libro dell’Apocalisse). La memoria è un dovere. La memoria è un dovere, lo è per tutti gli uomini in quanto tali, e lo è in specie per noi che abbiamo avuto l’avventura e in certo modo la ventura di vivere esperienze fondamentali (Primo Levi). Per resistere all’Impero del denaro. C’è bisogno di una profonda spiritualità per resistere all’Impero del denaro (Alex Zanotelli). La correttezza della lingua. La correttezza della lingua è la premessa della chiarezza morale e dell’onestà (Claudio Magris).

IL SENTIMENTO RELIGIOSO ALL’ORIGINE DELLA LETTERATURA ITALIANA. Nel passaggio tra il secolo XIII e i primissimi del Trecento si espande, ormai rigogliosa, e conosce le sue più alte vette liriche la tradizione della lauda, la quale per virtù del talento poetico di Jacopone da Todi si inscrive tra le opere più significative del tempo, accogliendo motivi spirituali di grande valore quali l’ansia di purezza e di povertà, il bisogno di una continua comunicazione con Dio, l’esigenza di una rigorosa mortificazione della carne, la ricerca dell’Assoluto. La lauda scaturisce da una precedente tradizione salmistica e innografica latina, dai ritmi volgari e più direttamente dal Cantico di frate Sole. Diverse sono le cause dello sviluppo della lauda, da semplice giaculatoria a vero e proprio componimento lirico e dramma; ma quel processo segue in primo luogo un’elaborazione strutturale che deriva dalla liturgia. Al canto corale, infatti, vengono ad alternarsi parti affidate ad un solista e, col trascorrere del tempo, le «parti» vengono ad esser distinte in maniera più netta, con dialoghi precisi, e la melodia musicale, in aderenza al testo poetico, accentua fortemente il motivo di contrasto e di tenzone fra l’anima e il corpo, fra Dio e il diavolo.

L’ENERGICA PERSONALITÀ DI JACOPONE DA TODI. Esplode in tale contesto storico l’energica personalità di Jacopone da Todi. Frate minore, conosce e utilizza tutti i temi, nessuno escluso, del francescanesimo primitivo. Proveniente da famiglia nobile, addottorato in legge e notaio, aveva del secolo un’esperienza viva e diretta così come s’era formata una vasta cultura. Temperamento ardente, impetuoso, si getta nelle lotte del suo ordine. Fiero avversario di Bonifacio VIII, fu da lui scomunicato e imprigionato per vari anni. Letterato, ma uomo vicino al popolo, Jacopone realizza una soluzione geniale tra un tipo di poesia colta e uno popolareggiante, ma la realizza d’impeto, sulla scia dei suoi orgogliosi sdegni e dei suoi fierissimi odi, riscattati sempre dal bisogno d’assoluto e da un bruciante desiderio di purezza dello spirito. In un bellissimo saggio di Giorgio Petrocchi – apparso postumo nel 1994, nella Storia della Chiesa di Augustine Fliche e Victor Martin (vol. XI, pp. 381-410), presso le Edizioni San Paolo, che lo ripubblicarono a parte due anni dopo – il grande filologo raccomandava di leggere le composizioni jacoponiche come altrettante pagine di un diario personale. Jacopone, infatti, analizza sinceramente se stesso, mette a nudo con spregiudicata sincerità la propria condizione di peccatore e di credente, inserisce in questa potente indagine psicologica i contrastanti momenti dell’entusiasmo e della delusione, della sfrenata esaltazione e del commosso ripiegamento in se stesso. E dunque le sue laude sono specchio e documento verissimo della vita, d’una vita difficile da peccatore a penitente, a frate scomunicato. Né deve stupirci che in questo laudario «autobiografico», vi siano pagine di poesia evocativa o narrativa, come il celebre Pianto della Madonna, un capolavoro in cui il frate di Todi ha riversato tutti i fermenti e i motivi della sua esperienza religiosa, decantandoli attentamente, sottoponendoli ad un procedimento di intensa e sobria semplificazione.

24 ottobre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Presentimento. Gli ampi spazi sono presentimento di Dio. / E in me c’è spazio come nel vasto mondo. Sono sempre con noi. La schiera degli scomparsi, invisibile schiera, / ancora pensa e canta nei viventi. La perfetta semplicità. La perfetta semplicità si raggiunge non uscendo da un determinato ambiente o da un dato paese, ma elevandosi. In ogni luogo, lo ripeto e posso testimoniarlo, nel centro di ogni orizzonte c’è una Bethel e la scala di Giacobbe. (Vjačeslav Ivanovič Ivanov)

La vera concordia. La concordia cristiana non sta nel fare tutti lo stesso lavoro, ma nel portare in compiti diversi un animo eguale; nel mirare a una stessa meta per strade diverse. Tutto concorre al bene se il bene si compie con purezza d’intendimenti (Primo Mazzolari, da una lettera datata: Bozzolo, 26 gennaio 1921).

DANTE VERTICE DELLE ASCENSIONI UMANE. Siede, in veste e posa gentilizia, di fronte alla Sorbona Michel de Montaigne, circondato – il suo monumento – di epigrafi, citazioni, voti, memorie. Pochi passi più in là, attraversato l’incrocio tra la rue des Écoles e la rue Saint Jacques (quella che avviava da Notre Dame i pellegrini verso Compostela), si erige nell’ombra una figura stretta nel mantello, che piega il capo, in sé avvolgendo nome e pensieri: nessun cartiglio, nessun verso, nessuna data: è il silenzioso monumento a Dante che accoglie chi salga i gradini che portano al Collège de France, l’omaggio di un’istituzione che ha per emblema la libertà della ricerca, a chi libertà andò cercando nell’esilio, nell’opera, nell’ardire del pensiero. È il tributo di chi vuole come patria il mondo, a chi l’universo andò squadernando in poesia. Dante non è a Parigi poeta italiano, ma fu per Balzac, come poi per Hugo, come nel XX secolo per Mandel’štam o per Primo Levi, il poeta della libertà, il pane che si porta in carcere, quando tutto è spento e perduto.

Con queste parole si apre uno splendido articolo di Carlo Ossola, apparso nell’inserto culturale de Il Sole 24 Ore di domenica 6 ottobre 2002, sulla fortuna del sommo poeta italiano nella letteratura moderna e contemporanea di tutto il mondo. Carlo Ossola ci dà notizie interessantissime anche su coloro che in Francia hanno fatto conoscere le opere di Dante. Due fra tutti: Lamennais, l’autore delle Paroles d’un croyant, che nella sua vita tempestosa trovò rifugio nella fedeltà a Dante, impegnandosi in una traduzione integrale della Commedia; e André Pézard, che tradusse mirabilmente le opere di Dante in un francese medievale da lui genialmente forgiato e fatto rivivere. Né si può dimenticare che proprio al Collège de France Étienne Gilson tenne le lezioni che poi furono raccolte nel volume Dante e la filosofia, tradotto in italiano nel 1972 da Jaca Book.

L’ANGOLO DELLA POESIA. Bastan quattro solchi e un poco d’erba. Bastan quattro solchi e un poco d’erba / o un riflesso nell’acqua / perché si calmi questa oscura, acerba / febbre dell’anima; / o il campanile aguzzo che traspare / fra i castagni del clivio (Giovanni Camerana, in Valle d’Aosta, 12 aprile 1876). Io nacqui ogni mattina. Io nacqui ogni mattina. / Ogni mio risveglio / fu come un’improvvisa / nascita nella luce: / attoniti i miei occhi / miravan la luce e il mondo (Gabriele D’Annunzio, Alcyone – Questi versi stupendi esprimono l’attonita gioia del poeta che ogni mattina guarda il mondo con lo stupore di chi apre per la prima volta gli occhi alla luce).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Tu, o Dio, sei oltre i limiti della parola. Essenza inattingibile, verità imperscrutabile, / forza onnipossente, bontà che tutto può, / illimitata perfezione, eredità indicibile,/ degna sorte, munifico dono,/ sapienza mai offuscata, elemosina ambita,/ attesa elargizione, esigibile gioia,/ quiete senza angustie, acquisto certo,/ realtà imprescindibile, tesoro immarcescibile, / incomparabile altezza… (Gregorio di Narek).

31 ottobre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La casa è l’uomo. Dimmi come abiti e ti dirò chi sei (Mario Praz). Il caso. Il caso, si dice. Ma il caso ci assomiglia (Georges Bernanos). Nel campo dell’osservazione. Nel campo dell’osservazione, il caso favorisce soltanto la mente preparata (Louis Pasteur). Le catastrofi politiche. Le catastrofi politiche non vengono se non siano in qualche modo consentite e volute (Filippo Turati nel discorso parlamentare tenuto il 15 luglio 1923). Se non conosci il rimorso… Io non chiamo malvagio propriamente colui che pecca, ma colui che pensa o peccherebbe senza rimorso (Giacomo Leopardi).

GIANNELLI, IL NUOVO SIGNORE DELLA SATIRA POLITICA. Il 14 settembre 2002, alla Capannina di Forte dei Marmi, la trentesima edizione del Premio satira politica ha scelto ex aequo quindici artisti, uno per ogni Paese che compone l’Unione Europea. Per l’Italia ha vinto meritatamente Emilio Giannelli, i cui disegni compaiono ogni giorno sul Corriere della Sera, con la seguente motivazione «Nel suo teatrino della politica italiana, Giannelli è maestro quotidiano nella ricerca dell’essenza dei personaggi, elevando i disegni a ritratti divertenti e incisivi». In realtà le vignette del Corriere bastano da sole a ridimensionare i troppo famosi articoli di fondo, e talora persino a confutarne le tesi. A pensar bene, noi dobbiamo essere grati ai vignettisti di ogni tendenza – da Filippo Ceccarelli della Stampa a Enrico Vaime, conduttore di Blackout (Radio2), a Francesconi del Giornale di Brescia – quando assolvono con coraggio e intelligenza al loro compito, che è quello di tener desta la coscienza dei lettori e di liberarla dal rischio di una sonnolenza acritica. Non è vero che la satira sia di sinistra e c’è lavoro, da una parte e dall’altra, per tutti coloro che non si lasciano incantare dalle apparenze. Lo prova nel modo più evidente, ed è uno dei tanti esempi che si potrebbero portare, il volumetto di Ellekappa, la più graffiante dei nostri vignettisti, Le nostre idee non moriranno quasi mai (Torino 2002). Ellekappa, infatti, spara ad alzo zero non solo sulla retorica populista, i luoghi comuni e il trionfalismo del centro-destra, ma anche sui tic, la cecità sconcertante e la passione autodistruttiva che sembra intaccare come un morbo non pochi leader della sinistra.

DUE CITAZIONI DAL LIBRO DI ELLEKAPPA. I personaggi di Ellekappa quasi sempre affidano il loro messaggio alle parole più che al disegno. Eccone qualche esempio. Primo. – Berlusconi non vince perché ha tre televisioni. – Vince perché ogni famiglia italiana ha tre televisori. Secondo. – La democrazia è in pericolo? – Lo sapremo dopo la pubblicità.

OLTRE IL PATHOS DELLA NEGAZIONE. Dove batte un cuore nel cui sentimento alberghi la costanza? / Dove un grembo materno, che dia tepore per sempre? / Dove un terreno, un tetto, uno scudo, un cielo / che non sia solo una rincorsa di nuvole, / dove un’orma che sia fedele per sempre, / dove una carreggiata i cui solchi non mutino ad ogni istante? // Dov’è nel mondo la consistenza, / dov’è uno sguardo che non vaghi qua e là / per afferrare questo e quello e niente? / Dove uno spirito che edifichi e che raccolga?

Questi versi sono del poeta tedesco Clemens Brentano, vissuto tra il 1778 e 1842. A lungo si è visto in lui l’artista che più ha dato voce all’esiziale sperpero delle proprie capacità, in una parola al tema dell’inquietudine sterile. Ma questi ed altri versi sono lì ad attestarci qualcosa d’altro. Brentano, a differenza di Heine, credeva con candida sincerità che tutto dovesse realmente essere diverso da come appariva e che potesse esserlo perché deve pur esistere nel mondo un fondamento e un baluardo. Ciò significa che a lui non era dato acquietarsi nell’inquietudine e neppure accontentarsi di essere scontento. Brentano non rinuncia a fare domande, proprio perché cerca veramente delle risposte.

7 novembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Cessi l’ossessione del sempre di più. Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni (queste parole di Gesù sono riferite dal Vangelo di Luca). Una pericolosa certezza. È pericolosa la certezza che ad aver torto è sempre l’altro (Blaise Pascal).

UNA NOVITÀ STRAORDINARIA: IL PRIMO MARTIROLOGIO ECUMENICO. Gesù ammonisce i suoi discepoli che vogliono impedire a un uomo di scacciare i demoni nel suo nome non essendo uno di loro: «Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9, 38-40). E sia nel libro dei Numeri (11,28) che negli Atti degli Apostoli (10,44; 11,15) ci è attestato che lo Spirito di Dio discende sugli uomini al di là di quei confini «istituzionali» che pure sono parte dell’economia divina. Per tutti dovrebbe poi valere la considerazione compiuta da Origene nel III secolo, il quale invitava a esprimersi con cautela su questi temi, poiché «a volte capita che chi è messo fuori dalla chiesa sia dentro, mentre chi sembra essere dentro in realtà è fuori». Ciò non significa relativizzare le questioni teologiche che dividono le Chiese, ma vuol dire che è nostro dovere operare un discernimento per riconoscere i doni dello Spirito operanti nella storia. Che cos’è l’unico peccato imperdonabile di cui parlano i Vangeli, se non proprio il rifiuto di attribuire a Dio ciò che da Dio è stato operato mediante il suo Spirito? I nostri fedeli lettori sanno che è su questa linea che ci siamo sempre attestati, senza iattanza verso chi la pensa diversamente ma con tenacia, portando un’attenzione appassionata a tutto ciò che fa avanzare il cammino delle Chiese cristiane – cattolica, ortodossa ed evangelica – verso la piena, reciproca valorizzazione dei «tesori di santità» che ognuna di esse può offrire a tutti i fratelli in Cristo. Salutiamo, quindi, con intima gioia la pubblicazione, la prima che sia apparsa nel mondo, del martirologio ecumenico, in un’opera poderosa in cui sono proposti alla nostra memoria i grandi cristiani, canonizzati e no, che hanno reso nobile, grande, alta e profonda la vita spirituale e la fedeltà eroica al Cristo nelle tre confessioni cristiane. L’opera s’intitola Il libro dei Testimoni (Cinisello Balsamo 2002, pp. 670) ed è stata redatta con il concorso dei rappresentanti ufficiali di tutte le Chiese. Essa è il frutto di un lungo lavoro, estremamente documentato e rispettoso delle tradizioni liturgiche di ognuna delle confessioni cristiane. Un ringraziamento particolare va, dunque, al monaco di Bose Riccardo Larini, che ha coordinato e diretto questo straordinario contributo alla conoscenza delle «ricchezze di Cristo» nella vita di tutti i cristiani.

DUE LUMINOSE CONFERME DAL MONDO ORTODOSSO. Nella sua magistrale introduzione al Libro dei Testimoni, Enzo Bianchi, il priore della Comunità ecumenica di Bose, ricorda due figure di notevole prestigio dell’ortodossia contemporanea che hanno espresso con coraggio posizioni teologiche di notevole respiro. Nel 1966 l’archimandrita Maximos Aghiorgoussis, che era stato delegato del Patriarca ecumenico di Costantinopoli alla III e alla IV sessione del Concilio Vaticano II, affermava: I grandi uomini non hanno patria, appartengono all’umanità intera. Così i santi. Essi oltrepassano i confini confessionali e appartengono all’intera cristianità. San Francesco d’Assisi, come il suo simile san Serafim di Sarov, sono grandi santi. Non possono essere circoscritti nell’ambito relativo delle due Chiese sorelle, quella orientale e quella occidentale. Sono santi di tutta la Chiesa. Ancor più autorevole è la voce del metropolita Kirill di Smolensk e Kaliningrad, responsabile del Patriarcato di Mosca del Dipartimento per le relazioni esterne con le Chiese, il quale in occasione della sua visita ufficiale ad Assisi nel 1966 ebbe a dire: Ritorno volentieri ad Assisi, perché è uno dei luoghi santi dell’Ortodossia in Italia, come lo sono Bari per la tomba di san Nicola e Norcia, paese natale di san Benedetto. Questi due santi sono vissuti prima della divisione delle nostre Chiese. San Francesco, pur essendo venuto dopo la divisione, dimostra la continuazione dell’unità ad un livello più alto, dove la divisione non c’è. Come san Serafim di Sarov, san Francesco è la prova dell’unità che supera la divisione. Ed è giusto che sia così, perché non tramonti la speranza dell’unione tra le Chiese.

14 novembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Detti con brevità. Gli uomini dimandano / detti con brevitate, / favello per proverbii / dicendo veritati (Jacopone da Todi). Con la mente nel cuore. La cosa principale è stare di fronte a Dio con la mente nel cuore, e continuare a restare di fronte a lui incessantemente, notte e giorno, fino al termine della vita (Teofane il Recluso).

L’ULTIMO SUBLIME MESSAGGIO DI BERNANOS. Scrivendo I Dialoghi delle Carmelitane, Bernanos si prepara alla morte. I temi della paura, dell’angoscia, dell’agonia, della speranza, dell’abbandono in Dio e della vittoria definitiva sono la sostanza stessa di quel testo e del suo modo di interpretare la vita spirituale del cristiano. Questa sostanza mi pare racchiusa, nel modo più semplice e profondo, nei consigli di un’anziana suora. Riporto dalla bella edizione del capolavoro di Bernanos, ristampato a Brescia dalla Morcelliana nel 1987, il passo che racchiude il messaggio più alto di quel grande cristiano:

Figlia mia, qualunque cosa accada, non uscite dalla semplicità. A leggere i nostri buoni libri si potrebbe credere che Dio provi i santi come un fabbroferraio prova una sbarra di ferro per misurarne la forza. Però avviene anche che un conciatore provi fra le due palme una pelle di daino per apprezzarne la morbidezza. Figlia mia, siate sempre questa cosa dolce e maneggevole nelle Sue mani! I santi non si irrigidivano contro le tentazioni, non si ribellavano contro se stessi, la ribellione è sempre opera del diavolo: e soprattutto non disprezzatevi mai! È estremamente difficile disprezzarsi senza offendere Dio in noi. Anche su questo punto dobbiamo guardarci bene dal prendere alla lettera certe parole dei santi: il disprezzo di voi stessa vi porterebbe, infatti, diritto diritto alla disperazione. Ricordatevi di queste parole, anche se adesso vi sembreranno oscure. E per riassumere tutto in una parola che non si trova assolutamente più sulle nostre labbra, benché i cuori non l’abbiano rinnegata, in qualsiasi circostanza pensate che il vostro onore è sotto la custodia di Dio: Dio ha preso a suo carico il vostro onore, ed esso è più sicuro nelle Sue mani che nelle vostre.

L’ULTIMA SFIDA DI BERNANOS. Bernanos termina I Dialoghi delle Carmelitane nel marzo 1948, quando la grave malattia epatica lo costringe a letto definitivamente. Come le sue eroine, anch’egli non si sente soltanto morire, «si vede» letteralmente morire e la parte più penosa sta nel sentimento di non aver portato a termine il proprio compito. Il sacerdote don Pézeril invita l’amico Georges a riconsegnare nelle mani di Dio lo spirito che da lui ha ricevuto. Bernanos non vuole addormentarsi, desidera con tutte le sue forze restare lucido sino alla fine. Domenica 4 luglio, verso le sedici, pronuncia queste parole: «Ecco, sono preso nella Santa Agonia» e invoca sua madre per attraversarla insieme a lei, certo di ritrovarla lassù. Poi il giorno seguente, al momento del trapasso, dice: «A noi due!». Così moriva all’alba del 5 luglio Bernanos, lanciando con quelle tre misteriose parole la sua ultima sfida all’angoscia della morte. In un suo scritto si legge: «Il mio sorriso non lo libererò che alla mia morte, nell’ora in cui Dio si degna alitare sulla propria creatura spossata». Così fu. Don Pézeril lo attesta: «Le labbra sorridevano con la giovinezza dell’infanzia». Marco Ballarini commenta: «L’ora della morte è quella in cui l’angoscia del cristiano Bernanos è stata definitivamente redenta». E non a caso egli ha intitolato il suo poderoso e magistrale studio sul grande scrittore francese Bernanos l’angoscia redenta (Milano 1999).

L’ANGOLO DELLA POESIA. Soffri in silenzio. Soffri in silenzio. Non chiamar nessuno / a numerar le lacrime degli occhi / tuoi. Sia pur grave il colpo che ti tocchi, / chieder coraggio ad altri è inopportuno. / Conta nel tuo segreto ad uno ad uno, / se vuoi, curva e prostrata sui ginocchi, / i singhiozzi del cuore, ma non trabocchi / la piena mai, per la pietà d’alcuno. / È orribil cosa esser compianti. / Conquista in te, con la tua sola forza, / l’oblio del tuo cordoglio (Ada Negri).

21 novembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’albero e il frutto. Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela il sentimento dell’uomo. Le realtà ultime. Rammenta le cose ultime e più non peccherai. (Libro di Siracide)

Oltre la morte. Dio ha creato l’uomo per l’immortalità (Libro della Sapienza). Quali libri non leggere. Un lettore di professione è in primo luogo chi sa quali libri non leggere (Giorgio Manganelli). Non tutta, ma buona parte. La storia è la somma delle cose che avrebbero potuto essere evitate (Conrad Adenauer). I ferri del mestiere. Se hai sempre una matita in tasca, ci sono molte probabilità che un giorno o l’altro tu sia tentato di usarla (Paul Auster).

I GIUSTI TRA LE NAZIONI SIEDONO INSIEME AL BANCHETTO DEL REGNO. Di fronte alla tentazione sempre rinascente di una religione nazionalista, che riservi vita e salvezza solo agli israeliti, l’ebraismo rabbinico e la teologia del Primo Testamento sono lì ad attestare due cose: Dio ha stabilito l’alleanza con Israele e, attraverso Israele, con l’umanità tutta ed è possibile camminare con Dio anche per un non ebreo. Secondo il Talmud in virtù della loro misericordia gli uomini misericordiosi sono già partecipi dell’alleanza di Dio con Abramo (Bezah 32 b) e «i giusti di tutte le nazioni hanno parte nel mondo futuro» (Sanhedrin 105 b). Un bellissimo passo midrashico, Sifra Shemot XIII, lo spiega in modo inequivocabile:

Si legge in Isaia: «Aprite le porte, entri la nazione giusta e fedele» (Is 26,2). Il profeta non dice: entrino i sacerdoti, i leviti o i figli d’Israele, ma ordina di aprire le porte alla nazione giusta e fedele, foss’anche pagana. E altrove leggiamo: «È questa la porta dell’Eterno, per essa entreranno i giusti» (Sal 118, 20). Non si dice: entreranno i sacerdoti, i leviti o i figli d’Israele, ma i giusti, senza distinzione di culto. Il Salmista dice ancora: «Esultate, giusti, nel Signore, cantate all’Eterno un cantico nuovo» (Sal 33, 1, 3); egli non invita solo i figli d’Israele a cantare la gloria dell’Eterno, ma si rivolge ai giusti di tutte le religioni. «La tua bontà, o Eterno, sia con i buoni» (Sal 125, 4), leggiamo infine nei Salmi. Il poeta ispirato non si limita, dunque, a implorare la bontà divina per i sacerdoti e i figli d’Israele, ma per gli uomini virtuosi di tutte le nazioni. Da ciò deduciamo che un pagano virtuoso ha altrettanti meriti di un sommo sacerdote, discendente di Aronne.

SCRITTO SU UN ESEMPLARE DELLA DIVINA COMMEDIA. Una sera, sul sentiero vidi passare un uomo, / in un grande mantello avvolto come un console di Roma, / e che nero si stagliava nel brillare del cielo. / Il passante si fermò, fissando su di me i suoi occhi, / splendidi e così profondi da sembrare selvaggi, / e mi disse: «Alle origini fui un’alta montagna che sovrastava l’orizzonte; / poi, anima ancora cieca che vuol spezzare le sue catene. […] / Leone fui, infine, errante nei deserti, / voce che grida e sferza nella cupa notte: / ora sono uomo, e mi chiamo Dante».

Questi versi sono di Victor Hugo, furono composti nel luglio 1843 e si leggono in apertura del terzo libro de Les contemplations, la maggiore raccolta delle sue poesie e, secondo il giudizio di molti, il suo vero capolavoro.

IL CRISTIANESIMO NON È CHE AI SUOI INIZI. La sera prima di essere barbaramente ucciso, nella sua ultima conferenza, padre Aleksandr Men’ pronunciò queste parole:

Cristo chiama gli uomini alla realizzazione dell’ideale divino. Bisogna essere persone assai limitate per ritenere che il cristianesimo si sia compiuto, che sia stato pienamente costituito, nel IV secolo, secondo alcuni, nel XIII secondo altri. In realtà, il cristianesimo ha mosso solamente i suoi primi passi, e sono stati dei passi timidi nella storia del genere umano. Molte parole di Cristo rimangono tuttora incomprensibili ai nostri orecchi. E di fatto, mentre la freccia scoccata dall’Evangelo ha come bersaglio l’eternità, noi siamo ancora dei neanderthaliani dello spirito. La storia del cristianesimo non è che ai suoi inizi. Tutto ciò che è stato compiuto nel passato, quella che noi oggi chiamiamo la storia del cristianesimo, non è altro che la somma dei tentativi – alcuni maldestri, altri andati a vuoto – di realizzarlo. Voi mi direte: «Ma come? Abbiamo avuto dei grandi maestri. Certo, vi sono stati grandi santi. Ma non erano altro che precursori.

28 novembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Di fronte al bene, di fronte al male. Voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male (San Paolo). Se sono avventure autenticamente spirituali. Tutte le avventure spirituali sono un Calvario (Georges Bernanos). La tragica fecondità del male. I soverchiatori, i provocatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono ma del pervertimento ancora cui portano l’animo degli offesi (Alessandro Manzoni). Semplicità radicale. Piaccia a Dio che i miei desideri siano buoni (Thomas More).

UN EPILOGO INIMMAGINABILE. All’inizio del prossimo febbraio Vaclav Havel porterà a termine l’ultimo mandato di presidente della Repubblica Ceca e non intende accettarne altri. Nato nel 1936, Havel, l’uomo dei cento mestieri a cui il regime comunista aveva persino impedito di studiare dopo la scuola dell’obbligo, studiava invece per suo conto e scriveva con passione, e ben presto cominciò a uscire e ad entrare in carcere, insieme a tanti amici di Charta 77, il movimento di dissenso non violento nei confronti della dittatura. Quando nel 1989 – nel bicentenario della Rivoluzione Francese – esplose nell’Europa orientale «la primavera dei popoli umiliati», la libertà trionfò senza violenza a Varsavia, a Budapest, a Berlino. Il popolo ceco nel novembre si mobilita e grida nelle piazze, sera dopo sera, la sua voglia di libertà. Il Partito comunista è isolato nel Paese e le forze di opposizione si uniscono nel fronte unitario del Foro Civico. Il 9 dicembre si dimette il presidente della Repubblica Gustav Husak, l’ultimo politico della vecchia guardia brezneviana. Si assiste allora a un avvenimento incredibile, che ha preso il nome di «rivoluzione di velluto». Il 29 dicembre, infatti, per investitura di popolo e col voto unanime dei 269 deputati comunisti, Havel passava dal carcere al Castello e veniva eletto presidente della Repubblica. La fervida fantasia del drammaturgo Havel avrebbe mai potuto immaginare un epilogo di tal fatta?

HAVEL, UN GRANDE PRESIDENTE CHE NON SI SENTIVA MAI ALL’ALTEZZA. In occasione del suo ultimo viaggio negli Stati Uniti il presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel, tenne un importante discorso, pubblicato parzialmente ne La Repubblica del 12 novembre 2002. Di quel discorso qui si riporta un passaggio estremamente significativo.

Mi domando se sono, o no, cambiato in questi tredici anni scarsi, cosa ha fatto di me questa esperienza incomprensibilmente lunga come presidente e come mi hanno cambiato le innumerevoli esperienze che ho vissuto in questo tumultuoso periodo. E ho scoperto qualcosa di sorprendente: anche se si sarebbe supposto che questa ricchezza di esperienze mi avrebbe dato più tranquillità, più fiducia in me stesso e dimestichezza, è accaduto esattamente il contrario. In questo lasso di tempo, ho perso molta sicurezza in me stesso e sono molto più umile. Forse non mi crederete, ma più passano i giorni più provo paura del pubblico, più passano i giorni più sento la paura di non essere all’altezza del mio compito o di rovinare tutto. Mi riesce sempre più difficile scrivere i miei discorsi. Ho sempre più paura, nonostante la mia buona fede, di smettere di essere qualcuno di cui ci si può fidare e, di conseguenza, di perdere la legittimità per fare quello che faccio.

5 dicembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un tirocinio prezioso che si vorrebbe evitare. Ho imparato dalla malattia molto di ciò che la vita non avrebbe potuto insegnarmi in nessun altro modo (Johann W. Goethe). Giova certamente. Nulla più giova all’infermo che essere curato da colui che egli vuole (Seneca). L’autentico e l’inautentico. Nell’inautentico l’autentico si esalta (Karl Kraus). Cortesia asettica. Si è sempre cortesi con coloro di cui non ci importa niente (Oscar Wilde). Se è veramente retto. L’uomo veramente retto è colui che non inganna nessuno e non si lascia da alcuno ingannare (Carlo Dossi). Il vantaggio dell’esperienza. L’esperienza non ci impedisce di fare una sciocchezza, ma ci impedisce di farla allegramente (Francis de Croisset). Verità elementare. Qualunque cosa si dica la vita è più antica e più forte della morte: nulla è morto che non fosse prima nato (Gesualdo Bufalino). L’onestà lo esige. Sii quello che sembri (Lewis Carroll).

L’illusione criminale. Non esiste massacro che protegga dal prossimo massacro. Come mangi? Ognuno dovrebbe vedersi mentre mangia. (Elias Canetti)

LA RADICE DELLA NOSTRA SPERANZA. Vaclav Havel è un artista ed un politico dotato di un grande senso di auto-ironia, ben consapevole dell’essenziale ambivalenza di ciò che è umano; ma su di un punto il nascosto lirismo della sua anima s’è manifestato appieno. Quando ha scritto, ad esempio, riflessioni come queste:

La speranza è un orientamento del cuore, che oltrepassa ciò che è immediatamente vissuto, e che ha dimora da una qualche parte, lontano, oltre le sue frontiere. Sento che le radici più profonde della speranza sono conficcate nel Trascendente e ciò è qualcosa di più di una convinzione, è un’esperienza interiore… Quanto più sfavorevole è la situazione in cui manifestiamo la nostra speranza, tanto più profonda è la nostra speranza. Quella speranza – che riesce a dispetto di tutto a tenerci a galla, a indurci a buone azioni e che è l’unica vera fonte della vertigine dell’anima umana e delle sue aspirazioni – noi la prendiamo, per così dire, da un altro luogo.

I TEMI POLITICI PIÙ IMPORTANTI DEL NOSTRO TEMPO. Ed ora ecco le osservazioni finali, riportate per intero, del discorso tenuto da Vaclav Havel in occasione del suo ultimo viaggio da presidente della Repubblica Ceca negli Stati Uniti. Esse sono di una forza e di una limpidezza capaci di scuoterci dal di dentro, perché è di lì che vengono, dall’interiorità di colui che osa dire certe cose – e sono le sole cose che contano – anche in scenari in cui la solennità ufficiale avrebbe potuto limitarne la schiettezza.

Tenterò di allontanarmi un poco dalla mia persona e di formulare tre idee che ho sempre considerato valide, o meglio, tre vecchie osservazioni, che la mia permanenza nel mondo dell’alta politica non ha fatto che confermare:

  1. Se l’umanità vuole sopravvivere ed evitare nuove catastrofi, l’ordine politico mondiale deve essere accompagnato da un rispetto mutuo e sincero tra le diverse sfere della civiltà, della cultura, delle nazioni e dei continenti, e da uno sforzo sincero per cercare e trovare i valori o gli imperativi morali di base che si hanno in comune, per trasformarli nelle fondamenta della coesistenza in questo mondo globalmente collegato.
  2. Occorre opporsi al male al proprio interno e, se non c’è altro modo, farlo con l’uso della forza. Se necessario, farlo utilizzando l’incredibilmente sofisticato e dispendioso armamento moderno, comunque in maniera di non danneggiare le popolazioni civili. Se questo non è possibile, allora si saranno dilapidati migliaia di milioni spesi per quelle armi.
  3. Se esaminiamo tutti i problemi che il mondo affronta oggigiorno, sia quelli economici, sociali, ecologici sia i problemi generali della civiltà, che lo vogliamo o no, ci troveremo sempre davanti alla domanda se una determinata strada è o non è adeguata, o se lo è dal punto di vista della responsabilità a lungo termine nei confronti del pianeta. L’ordine morale e le sue fonti, i diritti umani e le fonti di legittimazione di questi diritti umani, la responsabilità umana e le sue origini, la coscienza umana e la penetrante visione di ciò che niente e nessuno può occultare con un manto di nobili parole, sono, secondo la mia profonda convinzione ed esperienza, i temi politici più importanti del nostro tempo.

13 dicembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Due consigli antistress. Pensate al tempo di cui ancora disponete, piuttosto che al tempo che manca (William Osler). Ogni volta che vi sentite angustiati dalla fretta, che è la più subdola tra le cause di tensione, rallentate di proposito il ritmo di ogni vostro respiro così come di ogni vostra attività (Joseph A. Kennedy). Le sorgenti e le speranze. Chi trascura il contatto con le sorgenti più pure, a poco a poco spegnerà in sé la speranza (Levi Appulo). C’è chi parla per il piacere di ascoltarsi. Se parlare da soli è follia, non dev’essere segno di saviezza neanche ascoltare se stessi in presenza di altri (Baltasar Graciàn). La maggiore sventura per un popolo civile. Non so concepire maggiore sventura per un popolo colto che vedere riunito in una sola mano, in mano dei suoi governanti, il potere civile e il potere religioso (Camillo Benso conte di Cavour). I singoli versi. Citando un verso isolato se ne moltiplica la forza di attrazione (Marcel Proust). Spesso è così. Riconosco l’artista classico dalla sua sincerità, il romantico dalla sua laboriosa insincerità (Charles Péguy).

LA MISERIA MORALE DEL PROFESSOR HEIDEGGER. L’Adelphi ha pubblicato un volume, Dal libro dei pensieri, in cui sono raccolte brevi riflessioni di Croce sull’arte, la filosofia, la storia, il diritto e la vita morale. Sono spesso impressioni e giudizi di primo acchito, in un arco di tempo che va dal 1885 al 1951. Riporto qui il giudizio di Croce sul famigerato discorso di Heidegger del 1933.

Il professor Heidegger, in un solenne discorso tenuto nell’occupare il rettorato dell’Università di Friburgo (Die Selbstbehauptung der deutschen Universitäten, Breslau, 1933), non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco. Gli studenti tedeschi, a suo dire, hanno tre Bindungen, tre obblighi, il primo e fondamentale dei quali è la Volksgemeinschaft, il nazionalismo. Ma se egli si ripiegasse davvero sulla sua coscienza morale (l’ha ogni uomo e l’avrà anche lui), direbbe piuttosto che il primo obbligo, di studenti e di professori, è il timor Dei, come sta scritto sul frontone della Sapienza di Roma. Heidegger, scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità.

UNA POESIA TESTAMENTO. Ultima lettera al figlio. Non vivere su questa terra / come un inquilino / o come un villeggiante / nella natura. / Vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre. // Credi al grano, / alla terra, al mare, / ma prima di tutto ama l’uomo. / Ama la nube, la macchina e il libro, / ma prima di tutto ama l’uomo. / Senti la tristezza / del ramo che secca, / del pianeta che si spegne, / della bestia che è inferma, / ma prima di tutto la tristezza dell’uomo. // Che tutti i beni terrestri / ti diano a piene mani la gioia, / che l’ombra e la luce / ti diano a piene mani la gioia, / che le quattro stagioni / ti diano a piene mani la gioia, / ma prima di tutto che l’uomo / ti dia a piene mani la gioia.

Queste parole scrisse al figlio dal carcere, dove era rinchiuso per motivi politici, in attesa della sentenza di morte, il poeta turco Nazim Hikmet (1902-1963). La poesia ha il tono solenne del testamento spirituale, passando da esortazioni e imperativi di grande essenzialità all’augurio commosso. Le Poesie di Nazim Hikmet sono state pubblicate in italiano (Roma 1960). Per il poeta non ci fu l’attesa esecuzione capitale, perché fu liberato e andò in esilio in Russia.

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Riempi bocca e mente del tuo servo. Signore, è scritto nel Tuo Libro: / «apri la bocca, Io la riempirò». / Ecco, Signore, la bocca del tuo servo / e la sua mente spalancati a Te! / Signore, riempi bocca e mente / con la pienezza del Tuo dono, / perché io canti a Te la santa lode / in obbedienza a ciò che è il Tuo volere (Efrem Siro).

19 dicembre 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il viso rivelatore. Il viso è il luogo in cui i processi psichici si coagulano in forme solide (Georg Simmel). La misura del tempo. L’unica cosa che innalzi la statura delle persona è il tempo (Varlam Šalamov, 1907-1982).

Ogni cambiamento passa per il confronto con l’altro. Non è mai da solo che si è persona, si diventa persona in un rapporto di mutualità. Il «l’un l’altro» è costitutivo del processo di personalizzazione di un essere umano. Capirsi, capire, farsi capire. Se noi ci mettiamo nella condizione di capire noi stessi e di farci comprendere dagli altri, gli altri saranno prima o poi investiti dalla responsabilità di comprenderci. E ciò naturalmente vale in ogni ambito della convivenza umana. (Paul Ricoeur)

I RACCONTI DI KOLYMA, L’EPOPEA TRAGICA DI VARLAM ŠALAMOV. La Kolyma è una desolata regione di paludi e di ghiacci all’estremo limite nord-orientale della Siberia. L’estate dura poco più di un mese; il resto è inverno, caligine grigia, gelo che può scendere anche a sessanta gradi sotto zero. Lì, dalla fine degli anni Venti, alcuni milioni di persone sono state deportate da Stalin. Varlam Šalamov arrivò alla Kolyma nel 1937, dopo essere stato già rinchiuso in un lager degli Urali fra il 1929 e il 1931 a causa della sua opposizione a Stalin. E alla Kolyma rimase fino al 1953. L’anno successivo egli mise mano a I racconti di Kolyma, legati tra loro dall’identità del protagonista, dal contenuto, dalla percezione del mondo, dall’incredibile capacità di scendere con estrema sobrietà e precisione di stile nell’inferno concentrazionario. L’epopea kolymiana di Varlam Šalamov rappresenta un fenomeno unico nella letteratura mondiale, la più importante testimonianza sulla più grande tragedia del XX secolo, quella vissuta dall’Europa dei totalitarismi. Questo libro è stato finalmente tradotto integralmente in italiano da Sergio Rapetti e pubblicato nel 1999 presso Einaudi. Di quel gigantesco mosaico riportiamo qui una pagina, un racconto breve su come Šalamov ricorda una sera di Natale alla Kolyma.

LA SERA DI NATALE QUELL’ANNO. La sera di Natale di quell’anno eravamo seduti accanto alla stufa. In occasione della festa, i suoi fianchi metallici erano più rossi del solito. L’uomo reagisce istantaneamente ad ogni cambiamento di temperatura. Noi che eravamo seduti attorno al fuoco ci sentivamo invadere dal sonno, dal lirismo.

– Che ne dite, ragazzi, non sarebbe bello tornarsene a casa? Un miracolo può sempre capitare… – disse il cavallante Glebov, ex professore di filosofia, famoso nella nostra baracca perché il mese prima aveva dimenticato il nome della moglie. – Però, mi raccomando, siate sinceri.

-A casa?

– Sì.

– Dirò la verità, – risposi io. – Mi piacerebbe andar via da qui, s’intende, ma in prigione. Non scherzo. In questo momento non vorrei ritornare in famiglia. Loro non capirebbero mai, non potrebbero capire. Ciò che a loro pare importante, so che non vale niente. Quel che è importante per me – quel poco che m’è rimasto – loro non possono né comprenderlo né sentirlo. Porterei loro solo una nuova paura, un terrore in più da sommare ai mille terrori di cui trabocca la loro vita. Ciò che io ho veduto, l’uomo non dovrebbe mai vederlo e neppure saperlo.

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. In Paradiso. Possa ora raggiunger le mie orecchie / quel verbo che da sempre mi stupisce; / nella Scrittura si trova, dove dice / del malfattore sulla croce appeso, / qualcosa che m’ha sempre consolato / tra le mie innumerevoli cadute: / in Colui che carità fece al ladrone / confido – che anche me voglia portare / in quel Paradiso, il cui solo nome / mi colma di grandissima allegrezza…(Efrem Siro, maestro di vista spirituale e creatore dell’innologia cristiana in lingua siriana, che era una variante dialettale dell’aramaico. Sant’Efrem Siro visse tra il 306 circa e il 373 d.C.).

L’ANGOLO DELLA POESIA. Il canto del cigno. Ogni pena è gioia, ogni tormento cosa passeggera, / e canta dal mio cuor la vita intera: / soave morte, soave morte / tra il rosso del mattino e quello della sera (Clemens Brentano, poeta tedesco, 1778-1842).

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.