Dialogo sulla speranza

La speranza. La speranza dei credenti, la speranza dei non credenti.
Muovere da questa dicotomia, sarebbe già un modo improprio di parlare del nostro tema perché si tratterebbe di capire, di sapere davvero cosa vuol dire «non credente». In che cosa, in chi, qual è la struttura mentale del credere?
Dichiararsi non credente è molto problematico. Nella nostra vita noi viviamo più per atti di fede che per dimostrazioni. Perché se dovessimo dimostrare in ogni momento della nostro esistere il preliminare dell’azione, non agiremmo mai. L’esistenza è impostata sin dall’inizio più su rami fiduciari che su dimostrazioni. Questa non è la fede teologica, ma comunque pur sempre un affidarsi. Il bambino ai genitori non chiede una dimostrazione, si affida. Ed è a partire da questo affidamento che comincia a vivere, che impara a vivere. La dimostrazione interseca la credenza, e quindi le due dimensioni, guardate da questo punto di vista, forse sono meno eterogenee, meno antagoniste di quanto non si pensi. Certo, c’è uno specifico nella fede – e su questo torneremo – che è la fede, o l’atto di fiducia, verso un preciso «tu». Il che è diverso dal reciproco affidarsi tra gli uomini. Allora, se una differenza si disegna, questa è data non tanto dal fatto che esistono persone che non credono, ma dal fatto che esistono persone che si affidano ad un preciso «tu». Ecco, questa è la differenza dell’esperienza del credere.
E quando si dice «credere», si dice immediatamente «sperare». Ecco, allora, vediamo di descrivere l’esperienza dello sperare, le modalità dello sperare.
Nella Enciclica del Papa – Spe salvi – si accenna, per esempio, ai diversi modi di sperare. E poi appare varie volte nel testo, a fronte delle modalità umane di sperare, la cosiddetta «grande speranza». Spesso nelle encicliche si usa questa parola, la «grande speranza».
La grande speranza è diversa dal modo abituale che gli uomini hanno di sperare. Bisogna vedere quanto è necessaria, quanto è spontanea, quanto è essenziale per vivere con pienezza la propria vita, perché probabilmente si può pervenire a questa condizione anche senza la «grande speranza».
Per capire tutto questo comincerò a descrivere le modalità esperienziali dello sperare.
Che cosa sentiamo quando noi speriamo?
Tra l’altro, una delle grandi domande kantiane, consisteva, appunto, nel chiedersi: «cosa posso sperare?».
La speranza è caratterizzata, fondamentalmente, dall’apertura al futuro. Ed è particolarmente intensa quando il futuro è doloroso. Perché se il futuro è amabile, non si spera, si sta. Anzi, non si vorrebbe mai uscire da una condizione di soddisfazione, di pienezza. Quando si è in una situazione di interazione, non c’è la speranza, non sorge neanche l’idea di speranza. Anzi, casomai, si avverte una sorta di struggimento per il momento che sta passando. Capita molte volte, nelle relazioni affettive, negli incontri, nelle feste, quando si avvicina il momento dell’addio. Lì il dolore è per il congedo, si vorrebbe che quel momento durasse. Quindi la speranza è legata fortemente ad una situazione di aporia (ἀπορία= dubbio) , di difficoltà, di indigenza contrariamente a quanto accade nei momenti di pienezza, nei quali v’è una completa adesione al presente. Non c’è motivo di sperare: si è felici. Casomai, c’è appunto il presentimento che questo momento così pieno non possa durare come desidereremmo. Quando si è immersi in tale condizione, si perviene a delle altezze rispetto alle quali non ci si sente all’altezza. Come dice Rilke: «Questo gli amanti lo sanno». Nell’abbraccio, sanno che prima o poi si scioglieranno, ma non vorrebbero che questo accadesse. Vorrebbero stare eternamente in quel presente. In quel istante che non passa. Tra l’altro – ma su questo punto tornerò nella conclusione –, in fondo, la «grande speranza» non consiste, forse, nel desiderio di entrare in un presente che non si consumerà mai? Non è questo l’oggetto della «grande speranza»?
E se, nella pienezza, essa sta sullo sfondo, è, al contrario, nei momenti di difficoltà che emerge con tutto il suo vigore. Si immagina un futuro più o meno prossimo in cui si esce da una condizione di sofferenza, di dolore. Per questo si spera. Ma questo modo di esperirla, rinvia ad una speranza che certamente spera, ma non spera nel modo cristiano. Anzi, in alcuni miei testi, ho precisato in modo abbastanza netto che, in senso stretto, i cristiani non sperano, ma credono. E non sperano se, per speranza, si adotta la definizione che dà Spinoza: la speranza è «incerta letizia». Sono in una situazione di difficoltà, come andrà a finire? Certo, può capitare che io esca da questa condizione, mi può andare bene, però non è detto che vada bene, non sono sicuro.
Quindi la caratteristica della speranza naturale e umana è caratterizzata da una spinta verso un futuro migliore, ma segnata inesorabilmente dall’incertezza. Non a caso Spinoza – che era netto, sicuro, preciso – sosteneva che la speranza e la paura sono sentimenti di anime deboli, dis-adeguate rispetto alla propria condizione perché chi non sa reggere alla condizione in cui versa, chi non è all’altezza del momento in cui si trova, o ha paura o ha speranza. Entrambi i sentimenti, secondo Spinoza, sono segni di grande debolezza. Chi è all’altezza del presente, ed è capace di dominarlo, non teme e non spera. Si disegna un modo di vivere che mostra come la speranza non solo sia qualcosa di cui si può fare a meno, ma, addirittura, qualcosa di negativo. Anche gli antichi prestarono attenzione a questa ambivalenza. La scena originaria in cui la speranza si presenta nel mito è proprio il vaso di Pandora, dono elargito a questa bellissima fanciulla da Zeus che, infuriato dal furto del fuoco divino commesso da Prometeo, decise di punire questi e il genere umano intero. Pandora, nonostante fosse stata avvertita da Zeus di non aprire quel vaso che conteneva tutti i mali del mondo, spinta dalla curiosità, gli disobbedì facendo uscire tutti i mali che dilagano sulla terra. Sul fondo del vaso rimase solo la speranza. L’ultima dea è la Speranza. Cosa intendeva dire Esiodo? Voleva metterci in guardia sul fatto che l’ultima possibilità nel disastro dei mali che dilagano nel mondo è il male peggiore, perché illude. Nei Greci vi era un legame molto stretto tra speranza e illusione. Come dire: la speranza è la falsa libertà e per reggere il presente, di cui non è si all’altezza, ci si consola immaginando, limitandosi a prefigurare situazioni che non esistono qui e ora. Ma verrà presto la delusione. Quindi l’ultima dea è la possibilità estrema di salvezza. L’ultima dea è la radicalizzazione della catastrofe poiché è l’illusione. Ed infatti presso i Greci era consigliato di non sperare, o perlomeno di coltivare brevi speranze, speranze prossime al presente. E questo è molto importante: non fughe in avanti, ma brevi speranze.
Perché, dunque, gli uomini sperano, se la speranza è incerta letizia? La speranza è legata all’illusione: cosa li spinge a sperare?
Se si guarda all’etimologia della parola speranza, ci si accorge che, in essa, v’è una componente animale-biologica, prima ancora che cognitiva. E questo lo si ricava dalla parola greca elpis, dove secondo alcuni glottologi e filologi, la radice elp entra, attraverso una mutazione fonetica, nella parola voluptas, che vuol dire voglia, desiderio. La speranza scaturisce dalla voglia che la vita ha di se stessa. Voluptas è anche la volontà in senso sessuale, cioè la vita vuole se stessa al di là di ogni dolore. E quindi tende, in quanto vita, a resistere a qualcosa che la colpisce e la contiene, finché può. Vitalmente la vita cerca se stessa. Quindi la speranza nasce dal nostro essere vita, dal nostro radicamento vitale. Questo lo si può riscontrare anche negli animali e negli uomini quando, sul finire dei loro giorni, nonostante il cedimento delle forze e la totale dissoluzione fisica, sembra liberino il proprio corpo, quasi a segnare l’ultima resistenza della vita nei confronti della morte. Il battere delle ali, la vita che non vuole morire, che combatte fino all’estremo. Che poi era la visione della vita che avevano i Greci: l’esistenza è agon, battaglia, perché sin dall’inizio noi siamo posti nella condizione tragica del dolore – che può essere, come diceva Sofocle, sottoscritto poi da Leopardi e Nietzsche – uno stimolante della vita. Perché quando non uccide, può provocare. Ne L’origine del genere umano, la prima delle Operette morali, Leopardi formula questo paradosso: gli uomini vivevano sulla terra in una situazione di inedia, poiché il mondo sembrava fosse divenuto privo di qualsiasi senso ai loro occhi. Quindi gli dei, per rilanciare il loro istinto di vita, diedero loro il dolore, perché li provocasse in una battaglia e ridesse loro amore per la vita.
Già da questi brevi cenni si può capire come il mio modo di analizzare il dolore, proprio in termini di tonalità emotiva e di rapporto con esso, sia molto differente da quello che emerge dalla lettura dell’Enciclica di Benedetto XVI. La mia riflessione è incentrata non tanto sul dolore come elemento di purificazione, bensì sul dolore che trova la sua peculiarità nella centrale componente agonica.
Nonostante tutto, la vita vuole se stessa e assume, nella rappresentazione della coscienza, la figura della speranza. Ma se la vita vuole se stessa, deve mantenersi aperta al futuro, perché se non si mantenesse aperta al futuro, perirebbe. Quindi i nostri istinti vitali ci lasciano immaginare condizioni di riuscita, e allora si sviluppa nel soggetto l’elemento strenuo. Ma la speranza così intesa non è più fuga in avanti. Questo è molto importante. La speranza non si nutre di immaginazione, ma del e nel combattimento. Perché ci può essere una speranza come fuga in avanti, che è illusione, un’illusione perdente. Nella lotta, il soggetto ha fiducia in se stesso perché se non avesse fiducia in se stesso, non aprirebbe le battaglia contro ciò che lo limita. Quindi l’istinto vitale, nella difficoltà, cerca la soluzione con il combattimento. È l’eroe tragico, che, stretto dal fato, con la sua forza cerca di trovare uno spazio di liberazione per sé. Puntando su di sé, e anche – lo dirò tra poco – sugli altri perché la sola fiducia su di sé diventerebbe delirio di onnipotenza. La fiducia su di sé è necessaria, ma non è sufficiente perché sarebbe mero sforzo illudersi che la propria forza basti. E quindi la fiducia ha una doppia faccia: per un verso, fiducia in sé – perché se non si ha fiducia in sé non si può sperare – per l’altro, fiducia negli altri, come elemento di confidenza, di appoggio di gente che, nella lotta, sta accanto a me. L’atto di fiducia è fiducia in sé, ma è un atto relazionale. Anzi, si può rovesciare la nostra affermazione in un modo più rigoroso, elevandola a modello comportamentale: la fiducia in sé nasce soltanto se si ha fiducia negli altri. Perché se ci si sente soli al mondo, si perisce. E questo sta in un’esclamazione umana e antica: «Aiuto!». Aiuto è la domanda – a qualcuno – di salvezza. Ma è anche il grido che immagina che qualcuno risponderà. Dirà di sì. Verrà. Nella parola «aiuto» v’è un atto di speranza, un’invocazione ad un altro. E chi è l’altro? Chi è l’altro uomo? Diventa inevitabile il riferimento alla pietas tra gli uomini.
Nel mio discorso già appare il «tu», come elemento coessenziale alla speranza. Emergono i «tu», non il «Tu». E allora: è proprio necessario che ci sia il «Tu» per sperare? O bastano i «tu» della comunità umana? Dal punto di vista della speranza umana, la condivisione, l’assunzione insieme di piacere e dolore da parte degli uomini, in cui l’uno diventa elemento portante dell’altro – in una sola parola: la pietas – può permettere agli uomini di sperare. E di sperare, in questo caso, non nella fuga in avanti nel sogno o nell’immaginazione, ma nella realtà dove c’è «un accanto» su cui si può poggiare il braccio e trovare sostegno. Ecco perché la speranza, se non è delirio, è già relazione: fiducia in sé, fiducia negli altri. Ma la fiducia in sé nasce fondamentalmente dalla fiducia negli altri. E allora, da questo punto di vista, la speranza è incerta letizia, ma è sensata se è breve. E se nel cammino della vita, che di volta in volta presenta ostacoli e contraccolpi, non c’è mai nulla di definitivo, gli uomini, in ogni momento, possono sapere che insieme ce la possono fare. E nella catena umana, per richiamare l’epilogo de La Ginestra di Leopardi, gli uomini si stringono in alleanza contro la Natura matrigna e nemica.
Una caratteristica, questa dell’accompagnarsi reciproco, della misericordia che si ritrova in quasi tutte le forme di vita religiosa: dalla compassione degli indiani a quella presente anche nell’Islam, fino alla carità nel Cristianesimo. La speranza si coltiva fondamentalmente dentro una condizione di fiducia.
Ecco perché leggiamo Paolo da un punto di vista profano: la carità tutto crede e tutto spera. È la carità che crede. È la carità che spera ossia è la relazione di pietà reciproca tra gli uomini che permette di sperare, perché la speranza non si reggerebbe senza l’atto di donazione reciproca. Infatti quando la vita è dura e ci lascia nella solitudine, si punta sulla forza propria, ma alla fine si cede. Perché, come dice Aristotele, gli uomini nella loro singolarità non sono sufficienti a se stessi. Noi siamo costituiti in un legame originario che poi è il modo in cui io parlo di etica. L’etica, prima ancora che il dovere, è la necessità ontologica di coesistere con gli altri. Ma perché? Perché non è possibile fare diversamente. Quindi, il fondamento dell’etica è la relazionalità originaria tra gli uomini, e in base a questo si obbligano, perché se non ci fosse questa relazionalità ontologica, qualsiasi obbligo sarebbe una violenza e un arbitrio. Bisogna cominciare a pensare l’etica in termini di ontologia, e non in termini di deontologia. Perché se la si pensa in termini di deontologia, essa è sempre vissuta come un atto di sopraffazione e di violenza, di obbedienza alla volontà altrui. Invece l’etica nasce dal fatto che nessuno è sufficiente a se stesso e che si cresce insieme nel legame umano. Da questo punto di vista, l’obbligazione non è più pensata in termini di sopraffazione, ma come un venirsi reciprocamente incontro. Quindi la speranza cresce nella relazione di carità e di fiducia. La fiducia è un’anticipazione, ma, a differenza della speranza, la fiducia è meno vaga perché è fiducia in qualcuno di determinato.
Se la fiducia è tra gli uomini, costoro, per un verso, si sostengono gli uni con gli altri senza secondi fini, per l’altro, sono mossi da un singolare egoismo: io ti aiuto per il semplice fatto che, nella tua condizione, anch’io vorrei essere aiutato. Ma non dobbiamo pensare a «l’essere utile» soltanto in una logica strumentale, ma a «l’essere utile» in una logica donativa, poiché chi dona è utile. Però ciò non toglie l’incertezza, perché gli uomini hanno rapporti di fiducia non stabile, non sempre sicura. La nostra vita è caratterizzata dall’abbandono e dal tradimento. Molte volte, nel dolore, vediamo che quelli che ci erano accanto spariscono. E poi, magari, scopriamo che quelli che non ci erano accanto arrivano: ecco l’incerta letizia.
E quindi è chiaro che bisogna nutrire una fiducia forte in se stessi, anche per poter credere negli altri. Ma questo non toglie l’incertezza. L’instabilità resta. Ecco, gli uomini normalmente sperano così. I cristiani non sperano perché sanno che, in qualunque modo andrà a finire, andrà bene. Di qui, la caratteristica peculiare della speranza cristiana: la fiducia incondizionata. Cosa intendo dire? Contrariamente a quanto accade nelle relazioni umane dove la fiducia è sotto condizione perché l’altro ci può anche abbandonare, il cristiano aderisce ad un’offerta di qualcuno che gli dice: «Io non ti lascerò mai solo».
Si pensi al finale del Libro di Giobbe dove si assiste ad un grande paradosso: Dio non risponde al dolore di Giobbe, non gli restituisce i figli, ma lo aggredisce terribilmente, gli dice: «Dove eri tu quando io ponevo le fondamenta del giorno?». E a questo punto Giobbe si prostra, perché non gli interessa più il percorso, ma sa che andrà a finire bene, che non sarà tradito. Chi vive così non spera, crede incondizionatamente. Crede ardentemente.
Il paradosso del mio ragionare consiste nel fatto che la speranza è solo profana perché, soltanto nelle relazioni tra dei «tu» relativi, si insinua la possibilità dell’incertezza. Al contrario, quando si aderisce a Chi assolutamente garantisce, non c’è più motivo di sperare. Ed è significativo che, nel Nuovo Testamento, la parola elpis appaia pochissime volte, raramente nei Vangeli, mentre è molto presente in Paolo. Ma, in Paolo, essa è fortemente legata e corroborata da due concetti correlativi, perché altrimenti non la capiremmo. È legata strettamente alla fede, sul piano dell’atteggiamento del soggetto, e alla perseveranza, sul piano della condotta pratica. Cioè la speranza di Paolo non diventa vana speranza, non diventa illusione, non diventa sogno umano, perché si connette a queste due altre componenti, che la bloccano, che la fanno sparire come incerta letizia. Di contro, v’è la certezza dell’affidamento, ne è la conseguenza pratica: la perseveranza.
«So in chi ho creduto», dice Paolo. In questo modello in qualche modo salta il tempo, e in base a questo, già ora, io vivo come se fossi salvo. Quindi, da questo punto di vista, il cristianesimo ha dato agli uomini una capacità inaudita di reggere, anzi, di resistere al dolore. Reggere il dolore significa, dal verbo latino gero, governarlo e, nello specifico, indica il se gerere, il se ipsum regere ovvero il condursi dove è il soggetto a dover governare la situazione, a diventarne padrone insieme agli altri, nei modi più adeguati. La resistenza, invece, nasce da una radice invulnerabile, che sono gli Impossibilia dei: quello che non è possibile all’uomo è possibile a Dio. E dalla struttura paradossale della tradizione giudaica, e meno in quella cristiana anche se il modello si ripropone, c’è la paradossia. L’essenza della mentalità giudaica è la paradossia: tu vai a trovare Dio e non c’è. Però ti mette sulla via. Non lo incontri mai. Dice sempre che verrà. Ma intanto ti fa camminare, ti fa andare avanti, ti dà forza. Quindi una speranza fondata su un atto di fiducia incondizionata ad una parola può essere il massimo di illusione. O, appunto, essere fede. L’atto di fede confina con l’improbabile. Chi non crede non fa questo salto, perché non riconosce il «Tu», nel senso di Dio, ma nei termini della comunità umana. Ecco, questi sono i momenti di variazione: si può vivere la speranza in condizioni di incertezza coltivando una reciproca fiducia. Si può vivere una speranza incondizionata in una certezza che dice: in qualsiasi modo andrà a finire, finirà bene. E infatti qual è il rischio della fede, che è stato poi il rischio di Giobbe? Il fatto che dinnanzi ad un eccesso tremendo di dolore può venir meno la fiducia.
Ma non era forse questa la scommessa che Dio aveva fatto con Satana? La scommessa è tutta sulla fiducia perché Dio vince la scommessa in quanto, nonostante tutto, Giobbe gli resta fedele. La prova dura sulla fiducia incondizionata. Ma chi non presta fede all’idea che ci possa essere una liberazione dal dolore e dalla morte (questo già è Cristianesimo e non Giudaismo), chi non aderisce a questa grande speranza che è appunto la beatitudine eterna, coltiva la speranza nella media vita. E allora la coltiva in condizioni di incertezza: chi non aderisce ad una proposta di salvezza, questo sì che spera, perché vive la fiducia in condizioni di incertezza. Chi, invece, ha una fiducia incondizionata non ha bisogno di sperare. E quindi dentro la struttura del credente la speranza si rivela come una parola pleonastica. Perchè non è l’elpis della biologica volontà di vivere, è la speranza nella risoluzione dell’esistenza, della perfetta beatitudine. E quindi il presente è sempre vissuto nella forma del transito, mentre in una concezione che è il modello greco-classico, ma anche moderno, il problema non consiste nell’affermare: «È un transito, verrà il compimento». Ma intanto io so che andrà a finire bene, quindi non c’è indefinitezza in questo. In ragione del futuro io sopporto il presente. E questo nell’Enciclica del Papa emerge con chiarezza. Chi invece non ha questa fiducia in un «Tu» – che è garante del cammino della storia – è mosso da una speranza breve che coltiva potenziando al massimo le capacità di lotta e di realizzazione nella condizione data. In questo consiste l’essere all’altezza del momento. Tutti e due devono essere all’altezza del momento, ma con motivazioni e strutture mentali diverse. E infatti nelle situazioni drammatiche dell’esistenza si sta in piedi, perché si dice: «O vinco, o sono abbattuto», anche se non ci si aspetta alcun finale. Qui v’è un elemento di contatto tra i due modelli, ed è la perseveranza. Vince chi persevera. Colui che, dinnanzi alle difficoltà, ha la capacità di reggere e affrontare. La perseveranza è la prova della propria forza ed è la radice dello sperare, perché soltanto chi persevera spera, anche se la speranza è breve. Il cammino della perseveranza è ciò che tiene in vita la speranza. Ma questa speranza può essere tenuta in vita dalla speranza in se stessi e negli altri o può essere tenuta in vita dalla fiducia incondizionata che il male sparirà.
E qui si apre tutta una questione positiva o negativa, a seconda degli accenti, perché puntando troppo sul futuro si tende poi a svalutare il presente. Al contrario, se il presente è «Hic Rhodus.Hic salta!» – o vinci, qui, o perdi – la fedeltà al presente diventa il modo per coltivare la speranza. Chi spera cristianamente non è fedele al presente, ma vive nel presente un’anticipazione del futuro. Chi non crede, vive nel presente e spera nel presente perché ama la terra: è il grande amore per la terra che ti fa dire sì oltre ogni dolore. Non speri perché speri che finisca bene, ma speri perché ami la terra. E nonostante i dolori dici sì alla vita.
Ma, il credente lo dice davvero questo sì?
Io ritengo che è possibile che lo pronunci, ma non è detto che lo dica davvero. E d’altro canto questo non è un mio timore, ma è quello di un grande teologo del ‘900, Dietrich Bonhoeffer, il quale sostiene che la storia della cristianità ha puntato troppo sull’ultimo e poco sul penultimo. Bisogna guardare di più al penultimo perché puntare troppo sull’ultimo significa divenire infedeli alla terra. Però, se si punta troppo sul penultimo, sfuma nel vago la «grande speranza».
Qual è il punto di equilibrio per i cristiani? Chi è fedele al presente deve trovare un punto di equilibrio in un altro luogo, nel qui e ora del momento, nella speranza breve di vincere nel proprio presente e lasciare a coloro che verranno un mondo migliore rispetto al modo in cui l’abbiamo trovato quando siamo entrati. La speranza di consegnare, a chi amiamo, un futuro più amabile, che potrà precipitare se quelli che verranno non sapranno in pari misura coltivare la fedeltà alla terra. Non consegniamo a chi verrà qualcosa di definitivo, consegniamo una pedagogia perché possano migliorare il loro mondo e le loro condizioni. Ma se non praticheranno questo, il mondo potrà arretrare e non migliorare.
Quindi il miglioramento del mondo non è la fine del mondo, è la fedeltà al presente in ogni momento perché solo in questo modo il presente non si inabissa nel peggio. La vita vuole se stessa in questa fedeltà. Ma, per far questo, sembra che il «Tu» non sia affatto necessario. Tranne che per un punto che ha fatto irrompere nella storia dell’umanità una verità o un sogno. Che ci sarà un tempo, un eterno presente non più toccato dal dolore e dalla morte. Questo sì che può essere, davvero, creduto. Non ci sono prove che lo possano dimostrare. È il salto, è la speranza senza alcun fondamento. Se non il salto stesso.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 4.3.2008 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.