Erasmo: il rapporto tra politica e morale

I
LE VIE DELLA RAGIONE E RAGION DI STATO

Un’assurda leggenda ama dipingere Erasmo come uno scettico distaccato e un diplomatico incerto; e peggio come un Pilato, un servile cortigiano, uno sprovveduto pacifista. Egli è invece in campo politico la voce più libera e ardita del suo tempo, la coscienza cristiana più illuminata. E poiché il suo grido di protesta si leva in nome della dignità umana, della ragione e del Vangelo contro ogni ingiustizia e violenza, le sue analisi e le sue proposte, pur inquadrandosi nella realtà storica del suo tempo, esprimono esigenze e valori universali che trascendono un’epoca e indicano la direzione stessa del cammino umano.
Erasmo è contemporaneo di Machiavelli, ma mentre il fiorentino anatomizza un mondo in decomposizione e ne descrive le leggi in formule amare, elevando a dottrina e a principio regolativo l’estraneità della politica alla morale, il grande umanista denuncia proprio nel divorzio crescente della politica dalla morale la ragione primaria per cui la politica è divenuta sempre più strumento di infelicità per i popoli e di imbarbarimento delle coscienze. Le opere politiche di Erasmo, infatti, hanno tutte il timbro di un’appassionata testimonianza e di un alto messaggio morale e religioso.
Egli assistette alle lotte per l’egemonia fra Carlo V e Francesco I, e l’uno e l’altro ebbero di lui grande stima; ma Erasmo non risparmia alla politica dei due potenti, in scritti che circolavano per tutta l’Europa e che spesso erano indirizzati agli stessi sovrani, critiche fermissime, insistenti e circostanziate. Erasmo incarnò più di ogni altro la via della ragione e non della “ragion di Stato” e nel suo sforzo di umanizzare la politica esercitò un’enorme influenza su tutta l’Europa, unendo alle lucide analisi della situazione storica lo slancio del cuore, la fermezza di convinzioni intimamente maturate, la tenace volontà di svolgere un’azione persuasiva e sollecitatrice.
Franco Gaeta e Luigi Firpo, editori benemeriti di alcune opere erasmiane, hanno avanzato nei confronti del pensiero politico erasmiano una ipotesi interpretativa che può essere così riassunta: i primi due grandi scritti di Erasmo, l’Institutio principis christiani (L’educazione del principe cristiano) del 1516 e la Querela pacis (Lamento della pace) del 1517 furono sollecitati da Jean Sauvage, cancelliere belga del giovane Carlo di Borgogna, il quale divenne re di Spagna il 23 gennaio 1516 e poi imperatore col nome di Carlo V; e allora come non pensare che quelle opere fossero state volute dal cancelliere e concepite dall’umanista olandese al servizio della propaganda asburgica? La causa di Carlo e quella della pace dovettero sembrare ad Erasmo convergenti, anzi, come due facce di una stessa medaglia.
La prima obiezione da muovere ai due illustri studiosi italiani è che Jean Sauvage era, sì, al servizio di Carlo, ma era altresì sinceramente convinto della lungimirante concretezza della visione politica erasmiana, la quale gli appariva la sola che indicasse una via d’uscita onorevole per tutti i contendenti e quindi la sola capace di garantire la pace tra gli Stati europei; e la pace era ai suoi occhi non solo un imperativo morale, ma anche un vantaggio per tutti.
In secondo luogo, l’esame spassionato dei testi, le scelte di fondo operate da Erasmo negli anni 1516-1517 e in seguito, attestano proprio il contrario di quanto il Gaeta e il Firpo insinuano. Basta, infatti, aprire l’Institutio, scritta per il futuro Carlo V, per rendersi conto che Erasmo insiste energicamente proprio sull’inconsistenza e sulla vanità del disegno della monarchia universale. Come non vedere i pericoli insiti strutturalmente in una politica che riduca in un unico stampo tradizioni, interessi, realtà etniche estremamente differenti? Erasmo, specialmente nella Querela pacis, denuncia l’inconciliabilità fra i conclamati propositi di concordia europea e le pretese imperialistiche della dinastia asburgica che aveva un motto, Austriae est imperare orbi (“E’ missione dell’Austria comandare a tutto il mondo”), che suonava minaccioso per tutti.
Di più: può sembrare persino provocatorio, ma Erasmo, per nascita suddito di Carlo V, è nei suoi giudizi costantemente … filofrancese, e non certo perché qualcuno aveva “sorpreso la sua buona fede d’uomo di lettere e di studio”, a causa della sua “scarsa conoscenza degli avvenimenti”, come scrive il Gaeta. Niente affatto, le cose stanno esattamente al contrario. Come Pierre Mesnard ha ben documentato in L’essor de la philosophie politique au XVI siécle (Paris, Vrin. 1951 – II ed.), la scelta a favore della Francia attesta invece non solo la forte indipendenza di giudizio e il grande coraggio di Erasmo, ma anche il suo acume politico e il suo senso storico. Difendere i giusti diritti della Francia significava, infatti, far intendere a Carlo V la permanente pericolosità di una politica di accerchiamento alla Francia e la necessità inderogabile di un diverso rapporto con Francesco I, se veramente si voleva salvaguardare la pace mediante un più giusto assetto dell’Europa. L’appassionata difesa della pace non era, quindi, obiettivamente un’operazione al servizio della propaganda asburgica, anche se i primi scritti di Erasmo erano sollecitati dal cancelliere belga di Carlo d’Asburgo. A Erasmo sopra ogni cosa premeva la verità, la giusta pace tra gli Stati cristiani d’Europa e la testimonianza appassionata a favore dei popoli periodicamente coinvolti in quell’immane, atroce assassinio collettivo che è la guerra moderna.

II
LA CRITICA DELL’ASSOLUTISMO

Il pensiero politico erasmiano muove in primo luogo da una dottrina positiva dello Stato e dell’autorità politica, di cui si indaga il fondamento, le forme di esercizio, i limiti. L’uomo non può vivere che tra gli uomini, per cui la società è un bisogno e non un artificio, è una necessità e non deve trasformarsi in un arbitrio. La politica non consiste nell’acquisto e nel mantenimento del dominio sul corpo sociale, ma nel servire l’ordinato sviluppo del popolo. Il fondamento del potere sta quindi essenzialmente nella sua giustificazione morale, cioè nell’attuazione del fine proprio della politica, che è il bene comune. Il rapporto tra i cittadini e coloro che gestiscono l’autorità politica implica uguaglianza e reciprocità nella comune obbedienza alle stesse leggi. L’autorità è al servizio dei cittadini ed è veramente legittima solo se accettata da questi. Quando le decisioni di chi detiene il potere si manifestano, invece, in modo unilaterale e la legge esprime solo o prevalentemente gli interessi e la volontà di chi comanda, allora c’è costrizione brutale e non convivenza civile, c’è esercizio bruto del potere, appunto, e non legittima autorità.
Occorre, perciò, rinunciare non solo alla concezione dello Stato come patrimonio del sovrano, quasi fosse suo appannaggio, ma anche al concetto equivoco di sovranità come potere assoluto e insindacabile. È, infatti, inconcepibile che tra i cristiani ci possa essere un rapporto di radicale subordinazione. “La sovranità cristiana non è altro che amministrazione, beneficenza, protezione” (Institutio principis christiani). Ne consegue che nessun uomo può dirsi “sovrano” rispetto ad un altro uomo, quale che sia il suo ufficio. Solo Dio è sovrano; ma Dio esercita la sua onnipotenza creatrice rispettando la libertà degli uomini: Deus liberis imperare voluit (“Dio ha voluto comandare a persone libere”, Institutio). Facciano allo stesso modo i detentori del potere: l’autorità, dunque, rispetti la libertà. Il concetto di sovranità nega alla radice l’idea del governo come servizio, giustifica a priori l’arbitrio del dispotismo, la cui insegna è appunto “sic volo, sic iubeo, stat pro ratione voluntas” (“così voglio, così comando, il mio volere sta al posto di qualsiasi giustificazione”). Il concetto di sovranità, infine, è foriero di rovina anche sul piano internazionale, perché il suo accento batte non sull’indipendenza di una nazione o di uno Stato, ma sulla loro separazione ostile dalla comunità degli altri Stati e delle altre nazioni, non riconoscendo un superiore principio etico-politico a cui rapportarsi (“superiorem non recognoscens”).
Critico dell’assolutismo, Erasmo manifesta una netta preferenza per la monarchia non ereditaria, cioè elettiva, prefigurando e insieme oltrepassando quell’evoluzione costituzionale che si sarebbe affermata in Inghilterra soltanto con la “gloriosa rivoluzione” del 1688-89. In realtà Erasmo punta su un regime misto, pluralistico, contro l’unitarismo coatto che comporta sempre una degenerazione tirannica del potere. Di fronte all’assolutismo i singoli possono ben poco; al contrario, i corpi intermedi, se sono ben organizzati, se il loro sviluppo sa conciliare l’autonomia e l’apporto al bene comune, assolvono a una funzione insostituibile, costituendo autentici spazi di libertà e altrettante barriere al centralismo burocratico, monopolistico, oppressivo. Qui si sente l’esperienza diretta e positiva dell’olandese, del Roterodamus, l’epiteto che egli portò con fierezza per tutta la vita.
Accanto alle libertà locali, Erasmo rivendica di continuo la libertà di pensiero, di discussione, di stampa. Il filosofo che gli era più caro, Socrate, non aveva detto con fierezza ai suoi giudici che “la vita senza l’esame del pro e del contro non è degna di essere vissuta”? La difesa degli umili, la critica allo spreco, alle spese di magnificenza e all’odioso fiscalismo che l’accompagna; la richiesta che imposte e tributi non pesino sui ceti umili e colpiscano soprattutto i consumi voluttuari; la denuncia di ogni privilegio, di qualsiasi latrocinio e abuso di potere; il rifiuto della tortura e l’esigenza di restringere al massimo i casi passibili della pena capitale; l’analisi degli atteggiamenti di una politica dominata dalla prava indulgentia, che è propriamente un misto di permissivismo e di demagogia, tipico di chi disprezza il popolo e insieme ne strumentalizza le cupidigie; l’individuazione delle conseguenze deleterie di una maldestra politica protezionistica, che finisce a lungo andare col danneggiare i commerci con l’estero, rivelandosi una trappola per chi la pratica; l’attacco ripetuto agli ozi e all’ignavia dei nobili e la gioiosa celebrazione del lavoro; la distinzione reale e non fittizia tra Chiesa e Stato, tra il sacerdozio e l’esercizio del potere politico ed economico; il legame, troppo spesso misconosciuto, tra virtù civiche e moralità personale, poiché il male che si consolida nelle istituzioni e dilaga nella vita pubblica ha le sue radici nel cuore dell’uomo; il pressante appello ad animare moralmente l’azione politica; la subordinazione di tutte le regole di governo e dell’organizzazione dello Stato a un fine più alto di natura morale e di una morale che discende dal Vangelo: ecco altrettante linee di un pensiero politico complesso, concreto, moderno, dominato da uno schietto realismo etico.
Un pensiero mirabilmente moderno, poiché ha l’attualità non transitoria del vero.

III
LE SUPERIORI RAGIONI DELLA PACE

Il problema etico-politico su cui Erasmo ha più insistito per un trentennio, è quello della pace. Nessun altro pensatore ci ha dato un’analisi così profonda e ampia della guerra, che per lui costituisce la più grande tragedia e vergogna dell’umanità, e quindi del valore della pace, di cui la nostra civiltà ha assolutamente bisogno per sopravvivere e progredire.
Le osservazioni spregiudicate e realistiche del politico e dello psicologo, l’indagine morale, l’appassionata aderenza di Erasmo agli imperativi che discendono dal Vangelo si fondono perfettamente nei suoi scritti. Egli fu l’apostolo della pace in tempi calamitosi. La sua coscienza di europeo e di cristiano non si rassegnò mai all’obbrobrio della guerra, vero e proprio “naufragio di tutte le cose buone” (omnium bonarum rerum naufragium, così viene definita nell’Enchiridion militis Christi) e fu instancabile nel denunciare l’assurdo di un’Europa divisa, devastata da guerre di egemonia e di rapina. Erasmo si appella alla coscienza, all’eredità del Vangelo, alla pace che Cristo ha lasciato come dono e compito ai suoi seguaci. Conflitti fra popoli cristiani, fra nazioni europee erano ai suoi occhi vere e proprie guerre civili, assassinii perpetrati tra fratelli, azioni caine, vergogne inescusabili. “Quando Nerone si coprì di vergogna gareggiando nel teatro coi musici e coi cantori o disputando le gare nell’arena, altrettanto è vergognoso per i principi cristiani trascorrere il loro tempo in guerre” – scrive Erasmo nella celebre lettera a Francesco I (in Opus epistolarum, vol. V, p. 355-356). Del pari Erasmo aveva visto e parlato giusto quando, con penetrante percezione della realtà politica e con stupenda audacia, aveva scritto all’allora principe Carlo, sulla cui testa pericolosamente stavano per cadere troppe corone: “Devi piuttosto adoperarti a disfarti di qualche porzione del tuo impero che ad acquisirne di nuove”.
Dunque l’Erasmo della storia non tacque mai, né a Francesco I né a Carlo V, i loro doveri e con una franchezza che i dittatori dei nostri tempi non avrebbero tollerato. Non si capisce quindi perché persino su una questione così chiara e ampiamente documentata, si siano alimentate odiose leggende. La più ricorrente è quella a cui dà voce Georges Duhamel, quando descrive l’impegno di Erasmo per la pace nei seguenti termini: “Erasmo è il puro spettatore, desideroso di pace, ma della pace tutta particolare dello spettatore; egli vuole la pace e la vuole ad ogni costo, anche a costo di tradimenti, anche a costo di giravolte” (Deux patrons Erasme et Cervantes, Parigi, 1937, p. 45-46).
Qui basti pensare che in un altro conflitto, più lacerante dello stesso antagonismo franco-asburgico, quello fra la Riforma protestante e la Chiesa di Roma, di enorme ripercussione sul futuro della cristianità, fu proprio Lutero a chiedere ad Erasmo di attenersi alla parte dello “spettatore neutrale”, scrivendogli nell’aprile del 1524: “Frattanto ti domando, se non puoi far altro, che tu sia soltanto spettatore della nostra tragedia” (interim a te peto ut, si aliud praestare non potes, spectator sis tantum tragediae nostrae, in Opus ep., vol. V, p. 447). Ebbene, anche in quel caso Erasmo fu attento alle esigenze di verità presenti nelle due parti in conflitto e profondamente rispettoso del dramma delle coscienze, ma preciso e tutt’altro che pilatesco sulle questioni essenziali e, per così dire, nella scelta di campo. Erasmo potrà persino giungere a delineare i modi del dialogo ecumenico tra cattolici e protestanti, che egli avviò mentre ancora infuriava la lotta; ma egli fu tutt’altro che “spettatore neutrale” che, pur di non essere disturbato nella quiete del suo orticello, non bada a tradimenti e giravolte!
In realtà il ruolo svolto da Erasmo nel suo tempo ha un valore esemplare e la sua “filosofia della pace” è ben viva. Il lettore d’oggi che la mediti attentamente non può convenire con il Nostro quando, nella Querela pacis, esce in quell’apostrofe sconsolata: “Chi vuole la guerra può dirsi veramente un uomo? Non è piuttosto un delinquente o un imbecille?”. Erasmo ha mostrato il volto atroce della guerra, ne ha messo a nudo le vere cause, ha contrapposto ad essa con il massimo vigore il reale interesse dei popoli e le esigenze del bene comune, esprimendo in tutta la loro bellezza le superiori ragioni della pace.
Ma Erasmo fa di più: traduce la sua diagnosi politica e la sua ardente aspirazione alla pace in lotta attiva per la pace e in educazione alla pace. Egli sa delineare una vera e propria strategia della pace, ricca di soluzioni pratiche, di applicazioni immediate e a medio termine. Il progetto erasmiano è ben chiaro. Occorre prima di tutto liquidare gli antagonismi nazionali, stabilizzando la situazione territoriale dell’Europa; ma a questo risultato si perverrà sul serio e in modo stabile solo se si sottrae ai principi il diritto di dichiarare guerra. La carica “liberale” e “antiassolutistica” di questo passaggio obbligato per inaugurare un’era nuova nei rapporti tra gli Stati non può sfuggire a nessuno, così come la stretta connessione rilevata da Erasmo tra gli ordinamenti politico-costituzionali di uno Stato e la sua politica internazionale. Erasmo, infine, avverte come ineludibili imperativi etico-politici sia l’istituzione di organismi internazionali con compiti di arbitrato tra le parti in contesa, sia la diffusione di una schietta cultura della pace, in grado di mobilitare le forze morali dell’umanità e, tra esse, in primo luogo la Chiesa, alla quale è demandato il compito di continuare nei secoli l’insegnamento di Colui che è chiamato “il principe della pace”.
In conclusione, per Erasmo, una politica degna del nome esige non la fuga in un remoto passato o in un futuro paradisiaco, ma lucida visione della realtà e concreta capacità d’azione, impegno senza sosta a volgere al bene l’accidentato corso degli eventi. Fare politica, infatti, significa difendere i diritti dei cittadini, assicurare il bene comune, costruire la pace nel corpo sociale e tra gli Stati. È questa “una gloria senza sciagura e senza danno altrui” (incruenta et cum nullius coniuncta malo, Institutio), la “Terra promessa” dischiusa soprattutto ai giovani, ai quali tocca far nascere una storia nuova e migliore. Con queste idee Erasmo si rapportò al suo tempo ed esercitò nelle coscienze più illuminate dell’Europa un magistero di straordinaria ampiezza, dalla Spagna alla Polonia, dalla Germania alla Francia, all’Italia, all’Inghilterra; la sua influenza fu senza dubbio la più grande che un uomo di cultura abbia mai avuto sul nostro continente.

Giornale di Brescia, 20.6.1992, 27.6.1992, 5.7.1992.