Etica e politica: Bobbio

In questa occasione intendo fornire solamente degli elementi d’introduzione, un inquadramento del pensiero di Norberto Bobbio, pur essendo consapevole che questo mio intervento arriva alla conclusione di un breve ciclo che si è confrontato con due giganti della storia del pensiero filosofico, Aristotele e Kant, due autori che sul rapporto etica e politica definiscono due posizioni alternative. Essi hanno conosciuto un gran numero di elaborazioni ulteriori, proprio perché hanno inaugurato scuole filosofiche, vere e proprie tradizioni: l’uno (Aristotele) come espressione della tematizzazione del rapporto tra etica e politica nel mondo antico, anche se, attraverso la rilettura di Aristotele nella tradizione cristiana, tutto l’occidente ha elaborato una visione del rapporto tra etica e politica che è alla base ancora di tanti nostri dibattiti; l’altro (Kant) ha ripensato questo problema alla luce delle trasformazioni che la morale e la politica avevano conosciuto nel mondo moderno.

Con Bobbio invece entriamo in un’epoca differente, l’età contemporanea, un’epoca che in qualche modo si è mostrata più epigonale rispetto ad altre epoche precedenti nei confronti di influenti tradizioni del passato. Soprattutto per quanto riguarda il problema etico, direi che l’innovazione che il Novecento ha prodotto non può certamente competere con alcune delle grandi svolte che costellano la storia del pensiero filosofico sul tema del rapporto etica e politica. Nel caso specifico di Bobbio, bisogna essere consapevoli che questo tema va ricavato un po’ dall’interno dei suoi scritti che hanno avuto come oggetto non tanto principalmente questo rapporto quanto quello tra diritto e politica. Anche dal punto di vista professionale, accademico, Bobbio è stato un intellettuale che ha insegnato per gran parte della sua vita filosofia del diritto in facoltà di giurisprudenza e quindi si è interrogato su che cosa fosse il diritto, quali fossero i criteri in base ai quali noi giudichiamo, valutiamo il diritto.

In particolare, tre fondamentalmente sono, a suo modo di vedere, le domande che noi ci poniamo di fronte ad un ordinamento giuridico: se questo ordinamento sia giusto, se questo ordinamento sia valido, se questo ordinamento sia efficace. La stessa cosa, le stesse domande ce le poniamo in riferimento alle norme giuridiche: se una norma sia giusta, sia valida, sia efficace. Si capisce già da questa distinzione che il problema del rapporto tra etica e politica o tra etica e diritto si pone in relazione alla prima questione soltanto, mentre le altre pongono questioni differenti che interessano la teoria del diritto in quanto tale o interessano la sociologia, l’efficacia delle norme, l’efficacia di un ordinamento giuridico.

Per buona parte della sua attività di insegnante, di studioso, Bobbio ha dedicato i suoi studi al diritto e per una parte anche importante, finale del suo percorso accademico, ha insegnato filosofia politica. Si è occupato di questioni che peraltro lo avevano sempre appassionato fin dagli anni non tanto della sua formazione quanto dagli anni della liberazione in senso storico ma anche culturale, cioè gli anni che subentrano alla caduta, al crollo del regime fascista, con i problemi che si vengono ponendo tra il 1943 e il 1948 in termini appunto di liberazione di un paese, di una nazione da una dittatura.

Riflessioni sul nuovo orientamento, sulle soluzioni pratiche, giuridiche, istituzionali da dare al problema della convivenza, la nascita di una Repubblica, la Costituzione e quindi i diritti, la nascita di una democrazia ecc.: sono un po’ queste le esperienze che segnano la formazione politica di Bobbio in quanto tale, anche se la sua formazione filosofica, i suoi studi erano iniziati ben prima ed erano orientati verso questioni di tipo tecnico che in questa sede non interessa approfondire.

Dovremmo quindi partire da questo rapporto tra diritto e politica. Per inquadrarlo rapidamente credo si debba dire che, oltre ad essere assunto al rango di un importante intellettuale europeo (vedremo perché merita effettivamente questa definizione), Bobbio è un interprete della storia, dei problemi della vicenda nazionale del nostro paese.

E’ un intellettuale di quella che lui amava chiamare “l’Italia civile”, intellettuale, chiave della storia filosofica, politica, culturale del nostro paese. In fondo lo è insieme a pochi altri. Se vogliamo proporre un bilancio d’insieme della cultura filosofica del Novecento italiano forse potremmo dire, senza fare torto eccessivo a quelli che non nominiamo (perché ovviamente una cultura filosofica è sempre plurale, fatta di tante voci tutte importanti), che certamente la prima metà del Novecento è stata dominata in particolare da due figure che sono Croce e Gentile, mentre per la seconda metà del Novecento forse abbiamo un po’ più di difficoltà ad individuare i protagonisti, che non sono certamente protagonisti così assoluti, così invasivi ed esercitanti una vera e propria egemonia anche se in ruoli diversi, come è stato sicuramente per Croce e Gentile nella prima metà del secolo.

Ma anche qui, a guardare bene, i due protagonisti ci sono e sono riconoscibili, spero di non apparire provinciale, eccessivamente campanilista nel dirlo, visto che si tratta in entrambi i casi di autori piemontesi e cioè Norberto Bobbio da un lato e Augusto Del Noce dall’altro (con Croce e Gentile invece era rappresentato il centro sud dell’Italia).

Sicuramente sono le due figure dominanti della cultura filosofica del secondo Novecento, quelli che hanno elaborato una proposta più organica e che hanno dialogato sotto traccia fra loro: forse più sotto traccia Bobbio, perché Del Noce è stato più esplicito nelle sue critiche (si stimavano naturalmente molto, ma si trovavano schierati su fronti opposti).

Appartengono alla stessa generazione, fra l’altro, essendo nati negli stessi anni e condividendo lo stesso arco temporale per quanto riguarda la fase produttiva, creativa della loro vita; la fase in cui hanno veramente rappresentato dei punti di riferimento essenziali per due diverse koinè culturali, filosofiche: l’una (Bobbio) laica; l’altra (Del Noce), cattolica, ma certamente svolgendo analoga funzione in quest’ambito.

Del Noce, quasi si potrebbe dare un valore simbolico a questa data, è scomparso nel 1989, l’anno che segna la fine di quello che è stato chiamato “il secolo breve” ed è il secolo a cui effettivamente questi personaggi appartengono.

Bobbio gli è sopravvissuto, è scomparso nel 2004, ma fondamentalmente gli ultimi quindici anni della sua vita dopo quell’evento lo hanno visto sempre più in una posizione di spettatore ormai smarrito di una realtà in cui non si riconosceva più, in una realtà che effettivamente stava vistosamente cambiando e che suscitava in lui un crescente disagio.

Direi ancora, per averlo incontrato e seguito in quegli ultimi anni, un disagio di segno diverso, un disagio molto più segnato dall’amarezza rispetto a quello che era stato sempre il disagio della sua posizione di critico nei confronti di forme di malcostume o di forme di irrigidimento ideologico, ostinazione a non capire la direzione in cui ci si doveva muovere, che aveva sicuramente caratterizzato la sua formazione nei decenni precedenti.

Vorrei dire ancora qualcosa, perché mi sembra importante, di carattere introduttivo per situare questa esperienza della generazione a cui Bobbio appartiene e a cui appartiene anche Del Noce e quelli che sono intervenuti nel dibattito culturale in Europa in quegli anni. Se mi dovessi allargare ad altri paesi mi verrebbe da fare, soprattutto in riferimento a Bobbio, il nome di uno scrittore politico, forse meno filosofo e più sociologo, ma sicuramente comparabile a Bobbio, che è Raymond Aron per quanto riguarda la Francia, e di un filosofo e storico delle dottrine, più vicino a lui come interessi, anche se non giurista a differenza di Bobbio, che è Isaiah Berlin per quanto riguarda il mondo anglosassone.

Dirò ancora qualcosa su quest’ultimo perché ci sono alcuni fili del suo percorso di ricerca che lo legano a quello di Bobbio. Ebbene, si tratta di autori che appartengono ad una generazione che è passata attraverso le dure prove della prima parte del secolo breve, la prima metà del Novecento, un secolo caratterizzato da due guerre mondiali devastanti, caratterizzato dall’emergenza del fenomeno totalitario, un tema su cui è stato Del Noce più che Bobbio a insistere particolarmente nella sua interpretazione del Novecento, anzitutto nello sforzo di autocomprensione della storia presente.

E appartengono, proprio perché sono maturati attraverso ed oltre questo spartiacque del totalitarismo o di quella che è stata chiamata da molti la guerra civile europea, ad una generazione diversa rispetto a quella dei grandi teorici del diritto, della politica, della società che avevano in qualche modo posto le basi delle nostre conoscenze scientifiche del mondo a cui noi ancora oggi attingiamo e che la generazione di Bobbio medesimo e di del Noce consideravano già gli ultimi classici.

Chi erano? Erano appunto autori come Croce, come il francese Julien Benda, autore di un libro importante e che per grande fortuna è uscito nel 1928 (Il tradimento dei chierici) sul ruolo degli intellettuali che vendono l’anima all’ideologia, che tradiscono la loro originale vocazione intellettuale, spirituale di custodi dei valori; autori come Max Weber, a cui dobbiamo una fondamentale analisi del mondo moderno come mondo attraversato da un processo di razionalizzazione crescente (ma razionalizzazione vuol dire anche burocratizzazione con tutti i rischi che questo comporta), con una dialettica fra democratizzazione (cioè crescita), sviluppo della democrazia e, appunto, burocratizzazione come crescita degli apparati che soffocano la libertà degli individui.

Autori come Schumpeter, un economista austriaco che però si è occupato anche di problemi politici, che scrive negli anni della seconda guerra mondiale un grande libro intitolato Capitalismo, socialismo e democrazia in cui si interroga sul futuro del capitalismo, sul futuro del socialismo, sulla loro compatibilità con l a democrazia come forma politica. A questa generazione appartiene anche un altro autore che sarebbe stato centrale per il cammino di ricerca e per la produzione scientifica di Bobbio, un giurista austriaco come Hans Kelsen a cui dobbiamo una teoria del diritto positivo particolare su cui oggi non mi voglio soffermare.

Ecco questa è la generazione che aveva posto, che aveva visto i grandi dilemmi a cui la civiltà occidentale andava incontro, aveva soprattutto interpretato quella che a partire dalla fine dellOttocento era progressivamente maturata come la crisi dell’occidente, come la crisi dell’Europa; una generazione che aveva acquisito una drammatica sensibilità per quei conflitti profondi che stavano appunto minacciando l’unità del continente e che infatti avrebbero prodotto due terribili guerre, grandissimi sconvolgimenti politici, minacce all’integrità umana, al mondo dei valori che la cultura europea aveva ereditato.

Rispetto a questa generazione, che però è quella che definisce i quadri concettuali e definisce i problemi che vanno affrontati e ci fanno capire la nostra posizione nel mondo, Bobbio, Aron, Berlin o Del Noce appartengono ad una generazione che è passata attraverso quelle prove, che acquisisce la consapevolezza che deve ricominciare praticamente da capo diffidando delle soluzioni estreme, diffidando delle ubriacature ideologiche.

Il tema che già aveva posto Benda nel suo libro del 1928 Il tradimento dei chierici dice che il tradimento dei chierici consisteva nell’ubriacatura ideologica, nel fatti che i chierici, gli intellettuali (lui si riferiva ovviamente agli intellettuali laici) avevano rinunciato alla loro funzione di custodi dei valori e di garanti della possibilità di conciliare i valori della nostra tradizione. Avevano rinunciato a questo loro ruolo ed erano diventati fiaccole delle ideologie, coloro che soffiavano sul fuoco del conflitto, che producevano dissociazione.

Rispetto a questo si trattava ora di ricominciare, diffidando delle soluzioni estreme, delle promesse delle ideologie, da quelle che Croce aveva chiamato le seduzioni delle ideologie. Si trattava di innovare, sicuramente, e quindi erano tutti in un modo o nell’altro autori ostili o diffidenti nei confronti del conservatorismo, erano consapevoli della necessità che occorresse innovare ed erano consapevoli e convinti di questo perché erano convinti che il vecchio mondo avesse, proprio per un difetto di capacità di trasformarsi, prodotto quei mostri delle guerre e dei totalitarismi.

Erano convinti di dover rinnovare, ma che occorresse farlo con moderazione, quindi diffidando delle posizioni dei rivoluzionari. Non amavano né i conservatori né i rivoluzionari e si collocavano quindi in una posizione intermedia che potremmo definire con la parola di moderatismo.

Nel caso di Bobbio, c’è in lui un impegno specifico per il riformismo che per la sua formazione culturale attinge le radici nella cultura illuministica. Se andiamo a prendere uno fra i suoi ultimi scritti, un suo volumetto che ebbe larga fortuna negli anni ‘90 su destra e sinistra, già prima ricordato (in parte risultato dei lavori seminariali degli anni ‘80, scritto in precedenza, come ho già detto; negli anni ‘90 infatti non c’è più nulla di veramente nuovo nella sua produzione, su alcuni temi vi ritorna ma la sua parabola intellettuale si chiude sostanzialmente con il 1989), ebbene lì c’è l’insistenza non solo sulla distinzione fondamentale tra la destra e la sinistra, dove dice che il valore della sinistra è l’uguaglianza mentre la destra è stata anche egualitaria; poi fa anche una distinzione tra moderatismo ed estremismo: il moderatismo è caratterizzato dal gusto, dal senso della libertà mentre l’estremismo è fatalmente, necessariamente antiliberale, comprime, umilia le libertà, sviluppa necessariamente una dinamica autoritaria.

Anche nel suo percorso poi di intellettuale impegnato politicamente è venuto prendendo posizione su un fronte che lui considerava essere convintamente di sinistra, ma era una sinistra moderata, era la sinistra erede di quell’azionismo contro cui il suo amico Del Noce invece tanto ha polemizzato, ritenendolo una delle ragioni della crisi italiana. Non entro adesso sulle due diverse diagnosi in relazione a questo, ma credo che sia utile considerare questi percorsi intellettuali nella loro complementarietà, nella loro specularità, anche nelle loro interazioni, altrimenti si ha soltanto una parte dello scenario e non se ne comprendono i movimenti interni.

Qualche considerazione ora su Bobbio e la sua insistenza, come studioso, sul tema del dialogo. Bobbio caratterizza tutto il suo percorso di filosofo della politica con una ricerca appassionata, critica e autocritica del dialogo nel senso proprio di quella cultura del secondo dopoguerra che, dopo i grandi disastri prodotti dalle ideologie dogmatiche e settarie, convinte di possedere la verità, non erano disposte appunto a nessuna forma di compromesso, di conciliazione con l’altro, fascisti o comunisti, ma ciascuno chiuso nel bunker della propria ideologia.

La necessità è quella di confrontare le ideologie nel loro nucleo originario che è un nucleo che in fondo manifesta parentele, legami. Il dialogo fra socialismo e liberalismo, che Bobbio ha portato avanti a partire dalla sua opera forse più fortunata, Politica e cultura (libro che esce a metà degli anni ‘50, nel 1955, che raccoglie interventi dei primi anni ’50) è un dialogo e uno scontro anche polemico, ma nel segno sempre del rispetto, con alcune personalità della cultura comunista e marxista italiana, da quello che è stato il massimo filosofo del marxismo italiano dell’immediato dopoguerra, Galvano Della Volpe, allievo di un altro socialista importante, Rodolfo Mondolfo, fino addirittura al capo politico del fronte comunista, il segretario politico del Partito Comunista Palmiro Togliatti, che intrattenne con Bobbio, sotto lo pseudonimo Roderico de Castiglia, un dibattito, un dialogo polemico sul tema comunismo e liberalismo.

Bobbio ha sempre cercato di mostrare come, in fondo, queste due parti della cultura politica, che allora si confrontavano ostilmente sulle piazze d’Italia, fossero nate all’interno di una koinè culturale ottocentesca e ancora prima settecentesca in cui in fondo l’una era la derivazione dell’altra: il socialismo era nato come tentativo di estendere il liberalismo ad altri obiettivi, di allargare la fruizione dei diritti dai pochi privilegiati proprietari a tutti.

Quindi c’era, se si evitava l’irrigidimento di dottrine che avevano poi portato a contrapporre ostilmente i due campi, la possibilità di sviluppare un dialogo. Questo dialogo, anche se subordinatamente, sicuramente, affiora più negli interstizi della sua produzione degli anni della maturità, ma si fa invece più rilevante negli ultimi anni della sua vita; è anche un dialogo fra laicismo e cristianesimo.

Soprattutto i suoi testi raccolti in quel volume intitolato Elogio della mitezza, edito da Linea d’Ombra, in cui è anche raccolto il testo suo più importante sul tema etica e politica, documentano di questa attenzione, così come alcune pagine, soprattutto quelle finali, del volume Sull’età dei diritti, in cui c’è la consapevolezza e la dichiarata affermazione della centralità del cristianesimo nel poter difendere la cultura dei diritti come soglia problematica, incerta, vulnerabile, ma soglia di quel progresso di cui il diffondersi di quei diritti nel mondo contemporaneo è forse l’unico segno tangibile e credibile.

Bobbio, pur venendo dall’Illuminismo, non aveva certamente una visione trionfalistica del progresso, condivideva da questo punto di vista la prospettiva critica kantiana che vi è stata illustrata nell’ultimo incontro, non era favorevole a quell’Illuminismo inteso come eudemonismo, quella variante contro cui Kant polemizza. Non identificava il progresso come una crescita della felicità in senso utilitaristico, ma identificava piuttosto il progresso nella crescita delle libertà e dei diritti, nella sempre maggiore estensione qualitativa e quantitativa dei diritti, passando da quelle che erano state le acquisizioni del liberalismo (i diritti civili) in un secondo tempo a un liberalismo che si stava trasformando in liberaldemocrazia (i diritti politici) e poi, in una terza fase, ai diritti sociali. Ad essere portatori di questo ulteriore allargamento dei diritti erano, accanto alle forze liberali e democratiche, anche quelle socialiste moderate, socialdemocratiche.

Bobbio insiste sempre in tutte le sue opere sul fatto che le novità, le acquisizioni rilevanti del mondo moderno, i traguardi a cui la modernità giunge sono traguardi in cui convergono tre grandi correnti del pensiero politico più recente, e cioè liberalismo, socialismo e cristianesimo sociale: si ritrova per esempio nell’ultimo saggio della raccolta sull’età dei diritti. Ha insistito sicuramente di più sulla coniugazione fra i primi due termini di questa tripartizione, di questa distinzione fra tre fondamentali ideologie che edificano la cultura moderna; ha insistito di più sul dialogo necessario fra liberalismo e socialismo e, a partire da Politica e cultura, i suoi testi dimostrano questo: l’attenzione per la coniugazione delle due libertà fondamentali che caratterizzano necessariamente il mondo moderno che noi avevamo imparato da uno scrittore dell’Ottocento, Benjamin Constant, considerare quasi due libertà distinte, due libertà contrapposte.

La libertà degli antichi era la libertà come autonomia, la libertà come partecipazione politica dei cittadini alla cosa pubblica, la capacità di prendere parte direttamente al governo. L’altra, la libertà dei moderni, era la libertà dei propri possessi, la sicurezza dei propri possessi, il poter godere di una sfera privata protetta da interferenze. La libertà degli antichi è quella che viene chiamata la libertà positiva anche da Bobbio; la libertà dei moderni è quella che è stata chiamata negativa perché nega l’interferenza di poteri che tendenzialmente nella storia hanno invece invaso lo spazio di intimità e di privatezza dell’individuo, non lo hanno riconosciuto come persona. La storia delle libertà è invece una storia di progressiva affermazione dei diritti della persona, dal diritto di religione, di culto, di espressione, al diritto di riunione, di associazione ecc.

Queste due libertà però, a un certo momento, a partire dalla fine dell’Ottocento, si sono trovate in conflitto e sono diventate un po’ la posta in gioco, o una delle fondamentali poste in gioco, del conflitto fra liberalismo e socialismo. Il liberalismo era legato al ceppo delle libertà negative; il socialismo invece affermava una concezione che si credeva superiore di libertà come partecipazione, non vedendo però che quella libertà pensava di essere la libertà del cittadino, dell’individuo, e diventava invece qualcosa che riguardava il collettivo.

Questo conflitto, che poi si inasprisce ulteriormente nell’età dei totalitarismi, è quello che a giudizio di Bobbio e a giudizio degli autori della generazione a cui egli apparteneva deve essere risolto e ricomposto. Qui è interessante vedere la differenza con quell’autore anglossassone che ho citato prima, che ha avuto tanta fortuna ancora oggi, forse più di Bobbio, perché scrivendo in lingua inglese è stato più facilmente recepito in tutto il mondo: Isaiah Berlin.

Berlin, che oltretutto era un ebreo di origine baltica, immigrato, e che quindi aveva conosciuto più da vicino la morsa del totalitarismo, era più scettico sulla possibilità che queste due libertà riuscissero a conciliarsi. Ha sempre mantenuto una posizione prudente di distanziamento tra le libertà negative, che lui come liberale affermava, e le libertà positive come autonomia politica, che lui vedeva sempre a rischio di strumentalizzazione da parte di partiti, di gruppi che potevano impadronirsene come formula ideologica ma che poi ne avrebbero fatto un uso molto diverso da quello che era nelle intenzioni originarie di chi quella libertà positiva aveva pensato.

Invece Bobbio aveva sempre ritenuto che, per quanto conflittuale potesse essere questo rapporto, ci fosse la possibilità di conciliare queste libertà perché, in fondo, la democrazia non è altro che l’estensione dei diritti di libertà a tutti, il regime che rende possibile realmente, attraverso la concessione dei diritti politici e dei diritti sociali, di fatto a tutti la partecipazione e la fruizione ai diritti alla persona, ai diritti liberali, ai diritti civili. La rende possibile a tutti e crea anche le condizioni sociali perché si sviluppi l’autonomia del cittadino, la capacità di partecipare alle decisioni pubbliche, di interagire con gli altri nella ricerca alla soluzione dei problemi collettivi.

Quindi, da questo punto di vista, il suo sforzo è sempre andato in direzione del superamento di quelle contrapposizioni drammatiche che avevano caratterizzato gli autori della generazione precedente (Weber, Schumpeter, Croce).

Croce era stato molto scettico sull’espansione del liberalismo in democrazia. Rispetto al fatto che il liberalismo diventasse ad un certo punto qualcosa di diverso, Croce ha mantenuto sempre un fondamentale scetticismo, mentre la battaglia di Bobbio è stata segnata da questo sforzo di dialogo costante con i diversamente pensanti nell’arco di più decenni e nell’ottica di questo sforzo si colloca la sua esperienza, la sua testimonianza di intellettuale dell’Italia civile, un’Italia civile contrapposta all’Italia dei furbi, all’Italia dei dogmatici, all’Italia che a suo giudizio ha certamente una tradizione.

L’Italia dei furbi non è qualcosa di contingente, l’Italia dei furbi è l’Italia di quella tradizione che noi identifichiamo con la parola “machiavellismo”, cioè la tradizione di pensiero, ma anche di pratiche politiche, che si rifà ad una lettura del pensiero di Machiavelli. Adesso non entriamo nella questione “Machiavelli”: è un autore che può essere letto in modi diversi ed è opportuno tenere distinti alcuni aspetti nella sua riflessione sul mondo storico politico. Certamente il Machiavelli popolarizzato, volgarizzato, il Machiavelli che ha inaugurato quella tradizione che si chiama “machiavellismo” è il Machiavelli che legittima un uso amorale del potere, il cui interesse particolare dell’individuo, del gruppo e qualche volta l’interesse del collettivo – ma un interesse affermato polemicamente contro altri e quindi in forme conflittuali estreme che possono significare anche la guerra – è considerato come l’istanza decisiva, come la cosa che conta più di ogni altra, la cosa a cui occorre dare la precedenza. Questa cultura del machiavellismo si è espressa nel corso della storia del nostro paese in tante forme, ma Bobbio l’ha stigmatizzata nell’Italia repubblicana, nei giochini di partito, nelle affermazioni delle ragioni di partiti che venivano anteposte alla Repubblica, all’interesse comune, al bene comune.

Da questo punto di vista non è stato soltanto l’uomo che cercava il dialogo e la composizione fra le forze che potevano cooperare nell’individuare una soluzione equilibrata dei problemi sociali, politici, ma è stato anche il moralista che ha severamente rampognato le patologie, le distorsioni che hanno caratterizzato la nostra cultura politica, impegnandosi in una battaglia per il buon governo, in una politica rispettosa dei valori morali che le stanno alla base e che invece spesso, assai spesso, ieri come oggi, non trova adeguato riscontro nella vita politica concreta. Da questo punto di vista si può anche dire che il bilancio dell’insegnamento, dell’impegno di Bobbio come intellettuale militante non sia positivo, a guardarlo non solo con il senno di poi ma anche alla luce del suo osservatorio degli anni ’90.

Facevo prima riferimento a quella stagione di amarezza estrema che ha caratterizzato i suoi ultimi anni, perchè Bobbio era perfettamente consapevole di questa sua sconfitta per quanto riguarda gli obiettivi politici che aveva primariamente perseguito nel corso della sua vita e che erano stati, semplificando, innanzitutto il dialogo tra liberali e comunisti, tra queste due culture opposte, e tra cattolici liberali e comunisti, che non c’era stato negli anni in cui sarebbe stato indispensabile per la modernizzazione del paese e del suo sistema politico.

Bobbio poteva soltanto, apparentemente (ma non lo faceva) consolarsi dicendo che con il 1989 le cose sono cambiate, alla fine i comunisti hanno capito i loro errori ideologici e sono approdati, sono diventati quello che lui negli anni ‘50 voleva che diventassero, un partito socialdemocratico, un partito riformista, un partito che accetta la cultura liberale. Il guaio è che questo è avvenuto tardi, è avvenuto troppo tardi, quando determinati processi involutivi della società italiana avevano lasciato dei danni che si stavano scontando e che noi ancora oggi scontiamo.

L’altro obiettivo era stato la creazione di una terza forza fra liberali e comunisti per favorire questo dialogo, per permettere, per consentire l’avvicinamento e questa terza forza era stata identificata da lui nel partito socialista a cui era anche più vicino per le sue origini di intellettuale legato al partito d’azione, all’azionismo. Ma le cose non andarono così perché questo partito, per un verso, anziché fungere da momento di conciliazione di quelle due culture che restavano ancora lontane, svolse un ruolo di rottura e soprattutto accettò uno schema di politica attiva, un modo di fare politica che si richiamava proprio a quella tradizione di realismo spicciolo e anche di immoralità della politica in cui quello che contava era il successo ma non le modalità in cui si giungeva al successo, i mezzi che erano adoperati per quel fine, un machiavellismo che si riassumeva nella formula tradizionale, proverbiale, (che non è di Machiavelli) e che è “il fine giustifica i mezzi”, formula che è in realtà molto problematica. Non è così, o è così ma con molte precisazioni che limitano molto la scelta dei mezzi .

Il terzo aspetto in cui Bobbio si è visto sconfitto dall’evoluzione della cultura del sistema politico italiano è stato sicuramente il deterioramento della vita politica nel suo passaggio da un sistema bloccato come era stato per tanti decenni senza alternanza a un sistema dell’alternanza, così come in Italia abbiamo avuto a partire dagli anni ’90. Si tratta però di un sistema dell’alternanza che non funziona, come vediamo attualmente molto chiaramente, perché è un’alternanza non animata da un vero spirito democratico, ma un’alternanza di nemici che non si vogliono riconoscere, di opposizioni, di sgambetti, di irrigidimenti che naturalmente sono estranei alla cultura della vera democrazia per la quale Bobbio si era sempre battuto. La sua concezione era quella di una democrazia procedurale, ovvero: bisogna intendersi sulle regole del gioco, però le regole del gioco sono neutre, sono condivise, si stabiliscono insieme e una volta che poi queste regole sono stabilite, poi ciascuno perseguirà, naturalmente nel rispetto di quelle regole, i propri fini. Il rispetto delle regole presuppone anche il rispetto degli attori. Noi non possiamo rispettare le regole della democrazia se non c’è da parte degli attori medesimi il rispetto delle regole (e questo è già implicito) ma anche il rispetto reciproco.

I tre temi fondamentali della sua opera a cui sono dedicati i suoi lavori più importanti, da Politica e cultura al Problema della guerra, a Le vie della pace, al Futuro della democrazia, a L’età dei diritti (che sono fondamentalmente le sue opere più importanti), sono democrazia, pace e diritti; questioni intorno alle quali Bobbio va affrontando con discrezione e con minimalismo la questione del rapporto tra etica e politica.

Come ho detto in apertura, la sua attenzione è stata sempre rivolta in primo luogo alle basi, ai fondamenti giuridici del lavoro, dell’attività, dello sforzo politico, ma è evidente che ciascuno di questi elementi presuppone una scelta di campo etico.

La democrazia di Bobbio è una democrazia procedurale ma è una democrazia, come dicevo poco fa, che presuppone il riconoscimento reciproco, presuppone il rispetto, il dialogo, presuppone la tolleranza, presuppone una cultura della non violenza, anche verbale e non solo fisica.

Analogamente il problema della pace. Bobbio ha affrontato il problema in una prospettiva non etica, non morale, ma giuridica; lui distingue, per esempio, tre forme fondamentali di pacifismo.

La prima è il pacifismo di tipo strumentale che forse, ne era consapevole, non merita nemmeno il titolo, la denominazione un po’ enfatica di pacifismo, ma è senza dubbio un lavoro per la pace. Il pacifismo strumentale è la ricerca nelle sedi opportune di limitare gli strumenti di violenza, quindi negli anni della guerra fredda si riferiva alle varie trattative per la riduzione delle armi, degli arsenali, trattative che hanno fatto sicuramente la storia del disgelo tra i due blocchi e che hanno portato all’esito del 1989. Questo è pacifismo strumentale, era una cosa per tecnici di cui lui non si occupava.

Quello su cui Bobbio ha investito di più nella sua riflessione era il pacifismo che lui chiamava istituzionale, cioè la riflessione su quelle organizzazioni, su quelle istituzioni che potevano lavorare per il superamento delle divisioni nel mondo e per l’instaurazione della pace. Qui si muoveva sulla scia del suo grande maestro teorico: anche se non direttamente, l’autore che lo ha influenzato di più dal punto di vista del pensiero è il giurista che ho citato prima, Hans Kelsen. Kelsen è uno dei primi a teorizzare le organizzazioni come l’organizzazione delle Nazioni Unite (l’ONU), è uno dei primi a riflettere sulla possibilità di creare dei tribunali internazionali volti a risolvere le controversie fra gli stati, a pensare a dei tribunali penali internazionali come quelli che oggi stanno, con molti problemi, faticosamente operando sull’ex Iugoslavia e in Ruanda (la Corte Penale Internazionale). Questo era lo sforzo di andare nella direzione di un pacifismo istituzionale, cioè di creare istituzioni atte a svolgere quelle funzioni di stabilizzazione della pace, di risoluzione di controversie o di prevenzione di futuri conflitti.

Aveva riservato meno attenzione a quello che era il pacifismo finalistico, al pacifismo etico, al pacifismo come lavoro di formazione, di educazione ai valori della pace. Eppure, benché non avesse fatto questo, indubbiamente l’attenzione a questo problema e la consapevolezza che il problema della pace non poteva essere affrontato se non sul piano etico era in lui chiara.

Il terzo problema fondamentale, quello dei diritti dell’uomo, come ho già detto, legato alla crescita della democrazia, legato al destino della pace, è un problema che lui affronta con gli strumenti del giurista, del filosofo del diritto, che ci spiega che cos’è il diritto, che cosa sono i diritti, quante tipologie di diritti abbiamo, quali sono le nuove generazioni di diritti che stanno nascendo. Trattava dunque questioni molto importanti, ma lo faceva sempre nella consapevolezza che alla base dei diritti umani, dei diritti soggettivi stesse quell’entità, difficile da definire ma facile da intuire, su cui si può anche realizzare il consenso, che è la dignità umana.

Su questi tre temi Bobbio ha combattuto le sue fondamentali battaglie. Anche qui abbiamo ragioni per concludere con una nota, certamente non ottimistica, che riflette quella sua stessa presa di coscienza dei problemi che, con la fine del secolo e con l’inizio del nuovo, si sono venuti più chiaramente delineandosi, che appartengono ai compiti delle generazioni presenti e delle generazioni a venire.

Bobbio, va detto, combatte la sua battaglia per la democrazia procedurale, combatte una battaglia contro le illusioni della democrazia diretta che è un’idea relativa a come funzionavano le istituzioni nel mondo antico, che è un’idea molto sommaria, perché se poi andiamo a vedere in realtà come funzionava la democrazia nella polis greca, ci rendiamo conto che molte cose non corrisponderebbero alle nostre concezioni etiche e giuridiche. Là poteva funzionare, in piccoli spazi.

La democrazia moderna è necessariamente una democrazia rappresentativa e su questo punto, col tempo, un po’ tutti si sono convinti, anche coloro che negli anni ‘50/’60 ritenevano che la democrazia rappresentativa fosse una forma molto parziale, insoddisfacente di democrazia, che andasse superata con una forma più alta. Poi si sono convinti che in fondo questa era la democrazia dei moderni.

Certo è però che i sistemi politici democratici contemporanei stanno vivendo una crisi pericolosa o per lo meno preoccupante della rappresentanza, ma sono comunque democrazie rappresentative.

Le democrazie rappresentative hanno vinto rispetto ad altre alternative di organizzazioni politiche, però questa cosa che dovrebbe farle funzionare e le qualifica, la rappresentanza, è qualcosa che funziona male. Funziona male per tante ragioni: perché le società diventano sempre più complesse e quindi difficili da rappresentare. Funziona male perché i molti livelli di governo, dal locale al nazionale al sovranazionale, fanno sì che le decisioni non siano più governate e prese dai rappresentanti, ma siano decisioni che molto spesso si trovano imposte o quasi imposte da vincoli a carattere globale, internazionale.

Due esempi di crisi politica del nostro presente per capire meglio: uno, la TAV in Piemonte, il primo, e la base militare di Vicenza, il secondo, sono chiari esempi di come la democrazia rappresentativa sta incontrando problemi perché indubbiamente non si tratta più di decisioni nazionali rispetto alle quali una cittadinanza può chiedere conto ai suoi rappresentanti. Si tratta di decisioni che indubbiamente vanno al di là della rappresentanza nazionale; una cosa la chiede la Nato, la chiedono gli Stati Uniti in nome di un’alleanza che va al di là delle singole nazioni, nell’altro caso c’è l’ Europa, che ha una legittimazione democratica, e ci sono le comunità locali che si trovano messe di fronte a dei fatti compiuti e in certi casi ci sono in ballo questioni relative alla salute o all’integrità. Questi sono i grandi problemi che noi oggi ci troviamo a dover fronteggiare. Bobbio ne ha acquisito consapevolezza negli ultimi anni della sua vita in modo doloroso, proprio perché si rendeva conto che in qualche modo il modello della democrazia rappresentativa cui era affezionato stava invecchiando.

Il tema della pace pone sfide analoghe. E’ vero, si è usciti dalla guerra fredda, l’orizzonte della minaccia così come si era venuta configurando all’indomani della seconda guerra mondiale e su cui è maturata la riflessione di Bobbio sulla guerra e sulla pace è indubbiamente cambiato, ma siamo entrati in una fase caratterizzata da un crescente interventismo da parte del mondo degli affari, degli stati, una fase caratterizzata da quell’ossimoro che è la guerra umanitaria. Questa è stata la novità degli anni ’90, si è incominciato a fare guerre in nome dei diritti, in nome delle libertà, magari anche sotto l’egida dell’ONU.

Bobbio è intervenuto ancora sul primo conflitto dell’Iraq sollevando anche un certo scandalo nell’opinione pubblica, per esempio quando disse che era una guerra giusta, ma lui non lo diceva con il tipico pudore del filosofo del diritto della politica che non affrontava direttamente i problemi morali, non lo diceva con un’accezione morale, lo diceva da giurista in senso tecnico. Quello che lui diceva era che era giusto, era una guerra giusta perché il “bellum iustium” nella tradizione giuridica è quel tipico conflitto in cui c’è una giusta causa, riconosciuta da un’organizzazione sovranazionale, il “bellum iustium” era quello medioevale, dove la legittimazione veniva dal papato che diceva questo. Il “bellum iustium” contemporaneo è quello che gode dell’intervento militare, che gode della legittimazione dell’organizzazione delle Nazioni Unite quando questa ritenga necessario intervenire per gravi violazioni dei diritti internazionali e dei diritti umani. Anche Bobbio si rendeva conto del fatto che anche questo tipo di conflitto produce violazione dei diritti, la guerra umanitaria resta pur sempre guerra e quindi crea delle emergenze che dal punto di vista morale ci pone dei dilemmi grandissimi.

Infine i diritti. Anche in questo caso noi siamo diventati consapevoli del fatto che la cultura dei diritti può conciliarsi con le logiche del mercato. Alcuni autori lo contestano, ma entro certi limiti la cultura dei diritti può conciliarsi con le logiche del mercato. C’è da chiedersi: fino a che punto? Ad un certo momento entra in campo un conflitto che pone questioni non tanto di tipo giuridico bensì anche di tipo etico. Non solo, ma in modo ancora di più radicale la cultura dei diritti non si concilia con la logica della guerra. Appunto per quanto appena dicevo, la guerra (e la guerra moderna in particolare) non può escludere che nel suo corso abbiano luogo violazioni dei diritti che si configurano addirittura come crimini contro l’umanità, crimini di guerra: i civili non è possibile proteggerli in ogni caso, la guerra sarà legittimata da ragioni umanitarie ma resta guerra nella misura in cui fa uso dello strumento militare.

Questi sono i tre grandi interrogativi che Bobbio lascia, dobbiamo dire, per quell’onestà intellettuale che lui ci ha insegnato, aperti e che con altrettanta onestà intellettuale dobbiamo riconoscere essere anche per noi oggi questioni assai aperte e difficili da affrontare.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.3.2007 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.